Kiyoshi Kurosawa sembra aver abbandonato l'horror.
E questa già sarebbe una notizia visto che parliamo del padre mis(ri)conosciuto della nuova ondata di horror giapponesi che ha fatto voltare più di una testa alla susseguiosa critica occidentale. Parliamo di un regista con all'attivo oltre trenta titoli, di cui almeno venticinque ignoti ai più, che si segnalò ancor prima dei vari Nakata e Shimizu (rispettivamente autori dei film Ringu e Ju-on) per un titolo fondamentale per il genere, il bellissimo Kyua del 1997, titolo internazionale Cure che ebbe la sua uscita americana circa 4 anni dopo la sua uscita in Giappone.
Come dicevo in apertura Kurosawa sembra aver abbandonato il genere in cui si è più adoperato (non ha realizzato solo horror) ma in realtà non è così. Chi conosce il suo cinema sa che nella sua opera quello che è al centro di tutto non è mai il meccanismo orrorifico (almeno nelle sue opere più mature) ma la sua visione di una società giapponese allo sbando, smarrita nel suo arrivismo senza scrupoli e letteralmente schiaffeggiata dalla crisi economica globale che evidentemente anche in Oriente sta facendo sentire la sua laida influenza.
Tokyo Sonata è un film che parte dalla crisi economica per parlare della crisi dei valori familiari che tengono insieme un nucleo di persone legate dal sangue solo per facciata. Ed è il secondo film giapponese che vedo che prende direttamente spunto dalla mancanza di sicurezza che viene dalla perdita del lavoro. L'altro, il vincitore dell' Oscar per il miglior film straniero, Departures, furbescamente prendeva spunto dalla perdita del lavoro del protagonista (un orchestrale, del resto di questi tempi chi vuole spendere ancora per la cultura?) per narrare una professione particolare e il nuovo successo del protagonista in un altro campo.
Qui il protagonista(ma forse è più corretto dire che è tutto il nucleo familiare il protagonista della pellicola), dirigente di risorse umane in un importante azienda viene licenziato perchè col suo stipendio si possono pagare non uno ma addirittura tre cinesi che farebbero il suo lavoro.
Per lui abituato a una vita dignitosa scandita da una routine quotidiana magari non sempre soddisfacente ma ben retribuita è come buttarsi da un aereo senza paracadute.
Già da questo incipit si nota come le tematiche affrontate siano forse più nelle corde del cinema europeo che in quello orientale, probabilmente proprio perchè la crisi ha toccato prima la parte a ponente del mondo. Da noi questo tipo di tematiche è stato affrontato molto prima. Già nel 1999 Laurent Cantet girava un film a suo modo profetico come Risorse Umane e curiosamente qualche anno dopo si deve sempre al grande regista francese il bellissimo A tempo pieno (ma il titolo originale spiega molto meglio il senso del film, L'Emploi du temps, l'impiego del tempo è il nucleo pulsante attorno a cui orbita la vita del protagonista) una storia che è molto simile a quella raccontata da Kurosawa in questa sua ultima opera. L'assunto cartesiano che nei nostri tempi è stato già trasformato in Laboro ergo sum, viene scardinato con inaudita violenza.
Non c'è più il lavoro, scompare il ruolo nella società, scompare l'uomo che è solo uno degli ingranaggi. Diciamo che ci sono almeno un altro paio di film a mia memoria che trattano simili argomenti: il primo che mi viene in mente è L'avversario di Nicole Garcia che racconta la stessa storia raccontata da Cantet in A tempo pieno ma traendola dalla storia vera a cui anche Cantet si era ispirato.
L'altro film che mi viene in mente è Cacciatore di teste di Costa Gavras in cui un padre di famiglia,dopo aver perso l'occupazione si trasforma in serial killer per eliminare altri concorrenti qualificati per il posto di lavoro a cui aspira anche lui.
Chiaramente Tokyo Sonata è un film che a parte il comune inizio poi si distacca dai film che ho citato: diciamo che usa un punto di vista tra il drammatico e il surreale per condurre la vicenda e da un regista abituato a tematiche forti come Kiyoshi Kurosawa forse non ci aspetteremmo tale delicatezza di tocco.
Racconta con toni oserei dire rispettosi senza calcare troppo la mano, l'alienazione del protagonista che da una torre d'avorio praticamente impermeabile a tutto quello che lo circonda si ritrova in mezzo alla strada a fare finta che nulla sia successo, badando bene a nascondere ai familiari quello che gli è accaduto.
Si ritrova a mangiare ai banchetti organizzati da associazioni di volontari e si sorprende a trovare tanti come lui, in giacca, cravatta e borsello, la divisa d'ordinanza per ogni colletto bianco che si rispetti, a elemosinare (o quasi) un piatto di riso e un luogo dove trascorrere la giornata lavorativa.
E anche all'ufficio di collocamento le cose non vanno meglio: dopo interminabili file si ritrova a sentire l'impiegato che cerca di sapere in che modo si può utilizzare quello che sa fare, ripetergli che lui è troppo qualificato e altre amenità del genere. Accanto a lui trova un suo vecchio compagno di scuola, nelle sue stesse condizioni che però sembra essersi abituato e che a prima vista appare più attrezzato per vivere questo nuovo tipo di vita.
Si fa squillare il telefono cinque volte l'ora per simulare telefonate che in realtà non ci sono, ha predisposto tutto per nascondere la realtà alla moglie e alla figlia.
Ma è solo apparenza. E proprio questo suo amico gli fa capire come andare avanti. Dicevamo prima però che questo film non è la storia di un personaggio ma di una famiglia: la moglie anche lei vittima di alienazione dall'essere casalinga cerca di tenere unita la famiglia con il figlio grande che vuole partire per fare il militare di professione in America (contro il parere dei genitori) e l'altro figlio più piccolo che vuole studiare pianoforte anche lui contro il volere del padre.
Se nella prima parte letteralmente incastonata in scenari urbani degradati, insistiti piani sequenza in campo lungo per seguire il protagonista, interni familiari carichi di silenzi e di significati, la seconda parte proprio perchè sente l'urgenza di raccontare gli altri componenti della famiglia perde di compattezza soprattutto nel racconto delle vicende della donna che viene rapita da un disperato venuto a rapinare casa per pochi spiccioli (che non trova).
La sua fuga per un attimo le fa prendere consapevolezza del vuoto che la sta attanagliando ma anche della volontà ferrea di non perdere quello che ha ottenuto. E' venuto il tempo di ufficializzare la nuova situazione: dopo varie vicessitudini (e per narrarle il film assume un ritmo che non aveva prima con tanti avvenimenti compressi in pochi minuti) la famiglia si ritrova a tavola come per voler consumare un rituale. Ognuno con il suo ruolo nuovo ormai noto anche agli altri componenti della famiglia. Dopo l'apparente implosione, la restaurazione di un nuovo ordine, un nuovo modo di relazionarsi non più improntato al grigiore.
Esemplare anche il modo in cui Kurosawa sceglie di terminare: quasi a simboleggiare l'uscita di scena da una rappresentazione teatrale dei personaggi principali. Forse tutto quello che abbiamo visto in due ore abbondanti non è stato reale ma solo una rappresentazione. Forse quello che ci vuole consegnare il film è un messaggio di ottimismo,di speranza nei nuovi virgulti che possano trarre dalle secche la vetusta società nipponica incagliata in rituali millenari assolutamente obsoleti.
E questo è già uno scarto in positivo rispetto ai finali di Kyua e Kairo(Pulse) che terminavano con un apocalisse incombente.Certo quelli erano horror ma lo sguardo su una società apparentemente cinica come quella nipponica era lo stesso.
Ma , indipendentemente dal genere credo che il pensiero di Kurosawa sul Giappone di oggi sia stato costantemente affermato in ogni suo film. Chissà dopo una carriera trentennale,a 55 anni compiuti anche lui sta cercando di guardare quello che lo circonda con più comprensione....(14/02/2011)
( VOTO : 9 / 10 )
( VOTO : 9 / 10 )
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