I miei occhi sono pieni delle cicatrici dei mille e mille film che hanno visto.
Il mio cuore ancora porta i segni di tutte le emozioni provate.
La mia anima è la tabula rasa impressionata giorno per giorno,a 24 fotogrammi al secondo.
Cinema vicino e lontano, visibile e invisibile ma quello lontano e invisibile un po' di più.

giovedì 31 gennaio 2013

The man from nowhere ( aka Ajeossi )

Tae shik è un uomo solitario che gestisce un banco dei pegni situato in uno squallido condominio. Occasionalmente ha contatti con la figlia della sua vicina, Hyeo-jeong. La donna ruba una partita di droga a un'organizzazione dedita al traffico di stupefacenti e a quello d'organi che per riavere ciò che è stato rubato, non esita a rapire la bambina. Tae shik che in un primo momento aveva voltato le spalle alla richiesta d'aiuto della bambina si mette alla ricerca della piccola. Sulle tracce della banda di criminali c'è anche la polizia che , come al solito, brancola nel buio.
Possono i blockbusters avere un'anima? Prima di vedere questo film (secondo incasso in patria nell'anno 2010) la mia risposta sarebbe stata negativa, ora non sono più tanto sicuro.
The Man From Nowhere esibisce una confezione di lusso attorno a una sostanza fatta di violenza cruda, scene action che definire adrenaliniche è poco e il tipico lirismo che ho imparato a conoscere tipico di certo cinema orientale.
Dirò di più il film sembra hongkonghese  e non coreano come invece è. Ed è opera capace di creare una sorta di corto circuito con il cinema di Besson e dei suoi epigoni francesi tanto attratti a loro volta dal cinema orientale. Vi si possono rintracciare infatti evidenti analogie con la relazione uomo/bambina di Leon (anche se  confrontarlo con il film di Jeong -beom Lee  equivale a confrontare una foto col proprio negativo) oppure con il padre con passato e presente da agente segreto superaddesrato visto in Io vi troveròTaken )diretto dal montatore di Besson,Pierre Morel.
Ma qui siamo ad un altro livello sia formale che sostanziale.
Le scene action sono girate con tecniche all'avanguardia, Jeong-beom Lee rinuncia quasi del tutto alle coreografie arzigogolate tipiche delle scene action del cinema orientale in favore di sequenze geometriche alla Michael Mann, probabilmente più nelle corde del cinema al di là dell'Oceano.
Ma non esita a far trasalire con un finale di violenza inaudita (qui davvero orientale fino al midollo) e con alcune sequenze che ancora mi sto chiedendo come diavolo siano state girate.
C'è una scena ad esempio in cui il protagonista per fuggire dalla polizia corre lungo un corridoio e salta attraverso una vetrata al primo piano atterrando in strada  e sembra che la telecamera atterri con lui in un vertiginoso pianosequenza! 
La sensazione è che ci sia qualche ritocco digitale e che non sia un pianosequenza però l'effetto è decisamente notevole.

The Man Form Nowhere è un film infidamente notturno in cui il gestore del banco dei pegni protagonista è un solitario alla ricerca della figlia che non ha mai avuto e a cui ha voltato le spalle quando lei ha avuto bisogno di lui. E'il pentimento che lo fa lottare contro una banda terribile che spaccia droga, carte di credito e che traffica in organi, una volta che i bambini sono cresciuti.
A parte la relazione con certo cinema francese The Man From Nowhere è un film cristallino nel suo assunto, non necessita di particolari intepretazioni. E' tutto lampante.
Un contesto di grande cupezza e disperazione (i bambini impiegati come donatori d'organi e per altri traffici) in cui vengono inseriti giustizieri solitari dal passato oscuro (ma la vendetta è provocata da una crisi di coscienza) e notazioni di ironia rancida (le figure dei gangster decisamente sopra le righe più attenti alla propria camicia di Dolce & Gabbana che alla vita altrui).
Da antologia il finale.
La quiete delle lacrime dopo la tempesta di pallottole. 
Ora date un'occhiata al protagonista di questo film, Bin Won.
Belloccio, vero?
Avreste mai detto che interpreta la parte del figlio ritardato in Mother di Bong Joon Ho?

( VOTO : 8 / 10 )

The Man from Nowhere (2010) on IMDb

mercoledì 30 gennaio 2013

Citadel ( 2012 )

Tommy abita in un palazzone nella periferia di Dublino con la moglie Joanne  in stato avanzato di gravidanza. La moglie viene aggredita da alcuni ragazzi incappucciati mentre Tommy è bloccato nell'ascensore e durante il coma susseguente all'aggressione dà vita a una bimba che il padre si trova a dover difendere in un ambiente ostile sia per fattori esterni ( la Citadel del titolo è il palazzone in cui abita ) sia , anzi soprattutto, per fattori legati alla psiche di Tommy implosa dopo l'aggressione alla moglie e ora malato di agorafobia.
Con l'aiuto di un energico prete e di un bambino cieco capisce che per vincere il male lo dovrà estirpare alla radice. Per l'amore di sua moglie che non c'è più e per l'amore di sua figlia , la stella polare della sua vita.
Citadel, presentato al Torino Film Festival del 2012, rappresenta l'esordio nel lungometraggio del regista Ciaran Foy a suo dire ispirato a un'aggressione avuta lui stesso quando era più giovane e che gli ha lasciato per un certo periodo di tempo diversi problemi di natura psicologica.
Citadel per lui rappresenta qualcosa a metà tra l'autobiografia e l'horror.
E il secondo horror irlandese che mi capita di vedere in pochi giorni e devo dire di essere abbastanza sorpreso dalla vitalità di un cinema non proprio noto per il genere in questione.
A differenza di Grabbers però, qui l'ambientazione nella periferia di Dublino rappresenta l'inferno in terra e non uno sfondo da poter essere utilizzato per una cartolina.
Tommy vive in un palazzone disumano che ricorda molto quelli di The Raid-Redemption , di The Horde, di Dark water ( versione jappo o americana fa lo stesso) o di Attack the block, un immenso ammasso di porte e finestre tutte uguali .
Dopo l'aggressione ad opera di teppisti senza volto che proprio per questo essere senza volto acquistano valenza demoniaca , la sua psiche deflagra ripiegandosi in un mondo alternativo in cui la realtà e l'immaginazione più che essere contigue collidono fragorosamente.
La sua è una discesa nell'abisso della psicopatologia, lui stesso non riesce a distinguere quello che sta succedendo assalito continuamente dalle sue paranoie e dalle sue fobie.
E anche per lo spettatore è così, le visioni di Tommy e le sue fughe dalla realtà che lo asfissia sono accelerazioni horror violente , ma di violenza soprattutto psicologica, di sangue ce n'è poco.
Anzi praticamente nulla.
Proprio per l'agorafobia che lo blocca in tutti i sensi , distorcendo il suo senso della realtà Tommy sembra la  riedizione del protagonista dello Spider cronenberghiano, la riproposizione al maschile della toccante madre protagonista di Kotoko di Tsukamoto mentre il meccanismo filmico ricorda più da vicino quello di Babycall.
La prima parte del film in cui il degrado urbano che circonda il giovane padre è un efficace contraltare a tutto il maelstrom che si agita nella sua testa, è dannatamente efficace perchè si regge su un'ambiguità impossibile da eradicare ( quello che sta succedendo è vero o è semplicemente una proiezione mentale di Tommy?).
Nella seconda parte , quella della lotta ai suoi fantasmi si scivola in binari più tradizionali che coincidono con il tentativo di risalita dall'abisso di Tommy, alla ricerca della sua definitiva catarsi.
Lo sconosciuto, almeno per me, Aneurin Barnard, si rivela una piacevolissima sorpresa per come riesce a dare vita a un personaggio disturbato mentalmente senza sconfinare nella caricatura sopra le righe. Riesce a restituire allo spettatore una sensazione di disagio palpabile.
Una piccola notazione che può darsi non c'entri nulla col film: ma che c'entra l'agorafobia con l'aggressione alla moglie?
Citadel è comunque una piacevolissima sorpresa girata con un budget ridotto all'osso che utilizzando ingredienti noti al limite dello stereotipo ( baby gangs, ambientazione claustrofobica, fotografia virata al blu e al grigio, disturbi mentali)  dimostra invece sufficiente personalità.
La domanda è sempre la stessa: perchè loro si e noi no?

( VOTO : 7 + / 10 )

Citadel (2012) on IMDb

martedì 29 gennaio 2013

Alligator ( 1980 )

Un'allegra famigliola di Chicago visita uno zoo ( o bioparco che dir si voglia) e alla bimbetta viene voglia di riportarsi un animaletto a casa. E al cuore di mamma come si fa a negare un cuccioletto di alligatore? Costa anche poco e non sembra occupare troppo spazio.
Detto, fatto. Viene riportato a casa e piazzato in un terrario per farlo crescere.
Ma a papà non sta tanto bene, prende il cucciolotto dalla coda e senza tanti problemi lo getta nello scarico del bagno.
Dopo 12 anni cominciano a succedere strane cose: prima spariscono animali e poi anche persone. Un detective, Mason, incaricato delle indagini si fa l'idea che ci sia un alligatore gigantesco nelle fogne e la conferma arriva quando in un'ispezione il rettile gli si mangia il collega. Pesta però i calli alla persona sbagliata perchè alla base di tutto c'è un'azienda farmaceutica che dopo aver fatto esperimenti con l'ormone della crescita , getta le carcasse degli animali utilizzati nelle fogne.
Mason  assieme alla zoologa Marisa, che sembra essere l'unica che gli crede, comincia a dare la caccia all'alligatore che intanto si è presentato , non invitato, a un matrimonio.
Pare che nella cucina del sud degli Stati Uniti , in particolare quella cajun, l'alligatore sia una prelibatezza. Mentre il coccodrillo sia uno dei piatti forti della cucina australiana .
In questo caso è l'uomo che è la prelibatezza per questo alligatore un po' cresciutello nelle fogne di Chicago.
All'epoca giravano varie storie  su alligatori e rettili vari cresciuti a dismisura nelle fogne delle varie città proprio per il boom che gli animali esotici avevano avuto in quel periodo.
E Lewis Teague, esperto di cinema d'azione, regista di polso e senza tanti fronzoli non si poteva certo far sfuggire questa succosa leggenda metropolitana.
Alligator, che per il regista rappresenta un po' la prova generale del ben più famoso Cujo del 1983, è il classico monster movie che riprende lo schema già esibito da Spielberg in Lo squalo.
La natura si ribella all'uomo, interessi economici di mezzo, caccia spietata al mostro e fine dei giochi ( e qui il modo per far fuori la bestiola è molto simile).
In Alligator è accentuata la componente ecologista che ne Lo squalo non c'era ( ma era già presente ne L'orca assassina del 1977, la risposta europea ad Hollywood) ed in più c'è anche quella spruzzata di ironia qua e là che non guasta a partire dal tormentone sulla calvizie incipiente di Mason ( con Robert Forster che si presta egregiamente) fino ad arrivare alla figura parodistica del  cacciatore di coccodrilli interpretato da Henry Silva che viene fatto a spezzatino dall'alligatore.
Parlando di un film anni '80 è normale trovare degli effetti speciali un po' datati, ma accanto a un'animazione della creatura un po' troppo meccanica e alla sequenza piuttosto grossolana in cui il rettile sfonda un marciapiede per presentarsi in strada, la regia riesce a regalare dei parziali del mostro veramente efficaci ( soprattutto nella prima parte ambientata nel buio fetido del sistema fognario), diversi momenti gore e anche le sequenze del matrimonio sono parecchio sfiziose con il coccodrillone che divora camerieri e invitati.
Morale semplice semplice: non andare mai contro Natura .
L'uomo resta sempre comunque il peggiore tra gli animali.
Anche a distanza di tanti anni Alligator resta comunque una visione piacevole, senza pretese e che comunque strappa più di un sorriso.
Niente a che vedere con i monster movies spazzatura che infestano attualmente i nostri schermi...

( VOTO : 6,5 / 10 )  Alligator (1980) on IMDb

lunedì 28 gennaio 2013

Flight ( 2012 )

Il South Jet 227 si appresta al solito volo di routine tra Orlando, Florida ed Atalanta , Georgia, con un centinaio di passeggeri a bordo e sei membri di equipaggio tra cui il comandante di lungo corso Whip Whitaker. Durante il volo, già problematico per le condizioni meteo piuttosto avverse si verificherà tutta una serie di guasti meccanici che porterà l'aereo a un passo dal precipitare. Grazie alla prontezza di spirito di Whitaker il velivolo riesce ad atterrare in un campo aperto senza il preventivato bagno di sangue. Si salvano quasi tutti, l'aereo aveva gravi deficienze strutturali ma le indagini rivelano uno stato psicofisico del comandante non esattamente consigliato per guidare un aereo.
Non si può non salutare con favore il ritorno di Zemeckis al cinema live action con attori in carne ed ossa e non con i loro surrogati plasticosi persi tra canti di Natale, treni incantati e leggende medievali.
Flight è un film che mette deliberatamente alla berlina il classico mito americano dell'eroe per un giorno: in questo caso, Whip a cui basterebbe godersi in pace il quarto d'ora di celebrità di warholiana memoria  per poi rimettersi in un cantuccio a leccarsi le ferite che la vita gli ha inferto, è suo magrado sotto i riflettori e per il motivo sbagliato.
Se all'inizio è un eroe senza macchia e senza paura che ha salvato molte vite umane , poi le sue macchie cominciano ad emergere in maniera decisa per chi sta indagando sull'incidente  parallelamente alla consapevolezza di avere un grave problema di alcool e droga.
Il film di Zemeckis in cui riecheggiano sia il Fearless di Weir che l'Eroe per caso di Frears, si pone quindi beffardamente su un doppio piano: quello dell'indagine ufficiale in cui sembra che nessuno voglia accertare la verità e quello privato in cui Whip , alle prese coi suoi fantasmi che lo stanno facendo inabissare fisicamente e psichicamente, forse è l'unico che vuole arrivare fino in fondo a questa storia.
La società americana in toto ne esce con le ossa rotte a causa del  suo bigottismo religioso che sfocia sovente in fanatismo ( la figura del pilota in seconda), del giornalismo d'assalto che è affamato solo di scandali da dare in pasto alla pubblica opinione e dell'ipocrisia imperante ad ogni livello.
Tra momenti più ovvi ( la relazione sentimentale con la tossicodipendente oppure il ritratto dell'alcolismo di Whip che sfocia in momenti alla Via da Las Vegas ma fortunatamente con molta meno enfasi) ci sono altre componenti che non ci aspetta di trovare in un film per una major: a parte un incipit quasi vietato ai minori Flight non fa sconti alle contraddizioni di una società che non ha gli strumenti morali per giudicare un alcolista che comunque sotto l'influsso dell'alcool e della droga ha avuto quella botta di creatività che ha permesso di salvare molte vite umane.
Un istinto forse non appartentente al comandante Whitaker e che è venuto fuori solo dopo che vodka, gin e cocaina hanno rimosso tutti i freni inbiitori che caratterizzano la vita sociale di una persona.
E se alcool e droga avessero salvato la vita dei passeggeri del South Jet 227?
Ai postumi della sbornia l'ardua sentenza e comunque abilmente il dubbio viene lasciato lì in bella vista.
Flight è un film che dopo i primi venti minuti "action" con una regia notevolissima nel mostrare il quasi incidente aereo, si incanala nelle traiettorie del dramma umano ma senza troppe concessioni al politicamente corretto.
Se nel classico film hollywoodiano c'è la discesa agli inferi e la redenzione a favore di camera qui il percorso di ritorno dall'abisso è lasciato alla sensibilità dello spettatore.
Denzel Washington fornisce una buonissima prova, Kelly Reilly è brava nel ruolo potenzialmente pericoloso di una tossicodipendente, così come è parecchio efficace l'avvocato compunto e azzimato impersonato da Don Cheadle, interessato più al cliente che non alla verità .
Però quando entra in scena John Goodman nei panni del pusher di fiducia di Whip , l'unico in grado di fargli passare a tempo record i postumi della sbornia a forza di strisce di cocaina, non ce n'è per nessuno.
Un personaggio che sembra estratto da un film dei Coen o da Pulp Fiction.
Flight è un blockbuster adulto, non esente da difetti ma anche capace di impennate politicamente scorrette che non ti attenderesti dal solito film hollywoodiano ( come la droga pagata dall'avvocato a Whip per renderlo perlomeno presentabile all'udienza finale oppure quel frigobar che proprio alla vigilia del giorno più importante per lui si materializza come fosse apparizione mistica).
L'ultimo sberleffo è per il sistema giudiziario americano, a parole il più evoluto al mondo ma inadeguato  nel giudicare un caso come questo
L'unico in grado di giudicare Whip Whitaker è solo Whip Whitaker.
Ed è un finale affatto scontato in un film partorito da Hollywood, industria del lieto fine e del politicamente corretto.
Nonostante questo ha guadagnato un pugno di nominations importanti agli Oscar del 2013.

( VOTO : 7,5 / 10 ) 
Flight (2012) on IMDb

domenica 27 gennaio 2013

Il discorso del re ( 2010 )

La storia, vera di re Giorgio VI di Inghilterra, padre dell'attuale regina Elisabetta, costretto suo malgrado a salire al trono dopo la rinuncia di suo fratello che lo precedeva nella linea di successione. Affetto da un imbarazzante problema di balbuzie e considerato da tutti inadatto al trono decise di servirsi di un logopedista dai metodi anticonformisti.
Sedersi in sala al proprio posto assegnato e cominciare ad addentrarsi in questo film è come entrare in un negozio di abiti su misura. A ognuno il suo abito su misura, se possibile in confezione da Oscar.
Il discorso del re è un film abilmente costruito a tavolino, vagamente affabulatorio, che offre chiavi di lettura immediate di pronto consumo per lo spettatore affamato di buoni sentimenti sparati ad alzo zero e altre meno immediate, nonchè  meno comode da enumerare per una pellicola che si presentò alla notte degli Oscar come grande favorita per la vittoria finale. Non ho fatto il tifo  per lei perchè quello che ho visto mi è apparso più furbo che bello, un compitino laccato e imbellettato in pacchetto regalo per consentire ai suoi protagonisti di vincere l'ambita statuetta.
Se questa mia tesi fosse fasulla allora perchè candidare Colin Firth come migliore attore protagonista e Geoffrey Rush come migliore attore non protagonista quando nell'economia del film hanno lo stesso peso e il loro nome appare sopra il titolo del film alla stessa altezza? L'abitino su misura per l'Oscar viene costruito anche per Helena Bonham Carter nel ruolo della moglie del re: un modo di approcciare il personaggio della regina madre piuttosto particolare tra momenti in cui cerca di trattenere la recitazione e momenti in cui la sua gestualità si fa molto più ruspante e molto molto simile a quella della regina madre che ho avuto modo di apprezzare in vari filmati.
E sono sicuro che molti di quei filmati per levigare la sua recitazione se li sia visti anche lei.
Firth e Rush sono molto bravi ma mi pare evidente che il secondo rubi la scena al primo in virtù di una maggiore varietà nella sua gamma di toni.
Firth è perfetto nei mezzi toni e nel recitare per sottrazione come dice la sua carriera, la parte di un re suo malgrado che finalmente riesce a diventare un re vero anche agli occhi dei suoi sudditi è un perfetto veicolo promozionale per lui ma è anche un terreno viscido su cui scivolare nel manierismo recitativo: lui fortunatamente riesce a starne fuori ma ciò non toglie che la parte più stimolante sia quella del logopedista australiano che Rush (in veste anche di produttore e qui si ritorna alla dietrologia applicata di cui ho fatto esercizio prima) abilmente si riserva.
Dicevamo di chiavi di lettura immediate e di altre meno immediate:tra le prima possiamo citare l'amicizia anticonvenzionale tra due uomini diversissimi tra loro, Bertie (il re )  ingessato dalle convenzioni e dai protocolli, il logopedista borghese Lionel che vive modestamente ma liberamente, l'iter formativo di un semplice ufficiale di Marina (che si sente totalmente inadeguato ad occuparsi della cosa pubblica) che riesce a diventare il re che tutti vogliono, un film che parla di un diverso che arriva a considerarsi come tutti gli altri.
Accanto a queste tematiche sono da ricordare la critica neanche tanto velata alle regole imposte dalla Chiesa simboleggiate dall'Arcivescovo interpretato da Jacobi, la comprensione dell'importanza dei mezzi di comunicazione di massa per formare coscienze, le simpatie filonaziste (nel film appena accennate) del fratello maggiore di Bertie, che abdica in suo favore sia per queste simpatie scomode sia perchè sposa una donna già divorziata.
E se il motivo dell'abidicazione ufficialmente è legato alla volontà di evitare un conflitto con la Chiesa anglicana, ufficiosamente possiamo pensare che abbiano pesato anche quelle simpatie ideologiche piuttosto scomode. Ingiustificabili in uno scenario storico come quello della seconda metà degli anni '30.
La regia di Hooper non brilla per dinamismo facendo assomigliare il film a quei drammi televisivi della BBC di indubbio pregio formale ma spesso incapaci di far emozionare.
Ecco è questo che manca al film: la capacità di suscitare emozione.
Si esce dal cinema moderatamente soddisfatti per aver visto uno spettacolo edificante, politicamente corretto, stilisticamente apprezzabile per via di una ricostruzione storica curata anche se non sfarzosa, una buona performance attoriale.
Però sembra un pò tutto costruito ad arte per portare a casa quelle maledette statuette a forma di zio Oscar, tutto preconfezionato ad uso e consumo dei giurati dell'Academy, uno spettacolo calligrafico ma che non prende mai il cuore.
Al massimo arriva all'epidermide...

( VOTO : 6,5 / 10 )  The King's Speech (2010) on IMDb

sabato 26 gennaio 2013

Grabbers ( 2012 )

Sull'isola di Erin al largo delle coste irlandesi non succede mai nulla. Poche case, un pigno di abitanti e un pub dove riunirsi la sera.Ma durante una brutta notte scompaiono dei pescatori in mare, un abitante del luogo pesca una strana creatura e degli strani alieni tentacolari succhiasangue cominciano a nutrirsi degli abitanti dell'isola. C'è un solo modo per sopravvivere. Il poliziotto del luogo, con problemi di alcolismo conclamati  e la sua collega arrivata temporaneamente da Dublino, scoprono il tallone d'Achille di questi brutti mostri tentacolari a cui hanno affibbiato il soprannome di Grabbers.
L'ubriachezza molesta sembra l'unica arma contro questi alieni. E la piccola comunità  dell'isola di Erin non se lo farà ripetere due volte. Che si alzino i bicchieri, dunque, che si beva allo sfinimento.
L'ultimo cicchetto seppellirà gli alieni.
E' indubbio che Shaun of the dead abbia creato molti più epigoni del previsto, praticamente un genere a parte. E se quello era la parodia dei film di zombie di Romero, questo film irlandese sulle invasioni aliene ( credo il primo sull'argomento che venga dall'Irlanda) ne mutua la stessa componente parodistica con un umorismo se possibile ancora più greve.
Se gli alieni de La guerra dei mondi ( sia versione originale che remake) erano uccisi da volgari batteri terrestri che all'uomo non avrebbero fatto venire nemmeno un raffreddore, qui vengono letteralmente indotti al vomito  da un sangue con un tasso alcolemico sopra la norma.
E come sfuggire loro quindi? Andando tutti al pub e mettendo a nudo tutta l'anima sbevazzona del classico irlandese.
Già solo per questa trovata semplice ma geniale allo stesso tempo, Grabbers meriterebbe l'approvazione incondizionata.
Si presenta come un monster movie anni '50 con un copione quindi consolidato, quando non prevedibile, eppure improvvisa sullo spartito infarcendo il tutto con l'ironia a tal punto che il film di Jon Wright, alla sua seconda prova sulla lunga distanza, diventa inclassificabile nel suo essere a mezza strada tra la commedia , l'horror e la fantascienza.
Perchè ci sono alieni, ci sono teste mozzate ma ci sono anche se non soprattutto sequenze in cui si collassa dal ridere.
A Grabbers manca sicuramente profondità, a parte l'idea che sta alla base lo sviluppo è piuttosto prevedibile ma è visione piacevolissima per via di personaggi adorabili ( sia nella versione sobria che alcolizzata, ma quando sono ubriachi, perdendo freni inibitori sono molto meglio) che per degli scenari naturali splendidi, perchè anche l'occhio vuole la sua parte.
E last but not least, gli attori se la cavano splendidamente , cosa non del tutto scontata quando si parla di cinema di questo genere.
Altra cosa da notare sono gli effetti speciali veramente all'altezza : non troppi ma utilizzati magnificamente.
La domanda è sempre la stessa: ma perchè loro si e noi no?
Perchè anche in Irlanda fanno film come questo con investimenti mirati e sponsors insospettabili e noi stiamo fermi ancora all'anno uno con i soldi erogati solo per progetti che non ne avrebbero nemmeno bisogno e men che meno diritto?

( VOTO : 7 + / 10 )  Grabbers (2012) on IMDb

venerdì 25 gennaio 2013

Lincoln ( 2012 )

La guerra di Secessione sta volgendo al termine con la vittoria dei nordisti e nei palazzi della politica fervono le trattative. Il presidente neorieletto Abraham Lincoln cerca di dare l'impulso decisivo per l'approvazione del XIII emendamento che di fatto abolisce la schiavitù, fatto di fondamentale rilevanza sociale ma che ha anche importanti risvolti economici. L'equilibrio è difficile da trovare, l'accordo tra i deputati praticamente impossibile eppure si riesce ad arrivare ad una votazione con un esito tuttaltro che scontato.
Come appare evidente dalla sinossi appena riportata, Lincoln si presenta non come un biopic in senso stretto ma come una ricognizione accurata nelle stanze dei bottoni, dove impera incontrastato il compromesso politico. Spielberg si occupa degli ultimi quattro mesi di vita ( con una postilla sulla sua uccisione, lasciata fuori dalla narrazione) di un presidente ancora amatissimo , senza incorrere nella facile agiografia.
Sarebbe stato facile narrare per filo e per segno la vita di questo self made man, classica icona del Sogno Americano che dal nulla, diventa presidente.
E invece Spileberg si concentra più sulla sua capacità di fare politica, sulla sua arte di trovare il compromesso, sui coni d'ombra di un personaggio storicamente ancora discusso.
E questo è dovuto anche al fatto che questo film non si basa su una biografia vera e propria ma su un libro intitolato Team of Rivals:The Political Genius of Abraham Lincoln di Doris Kearns Goodwin che si concentrava soprattutto sul dualismo tra il  politico e l' uomo, con una vita privata estremamente problematica per la perdita di un figlio e per un rapporto con la moglie non precisamente idilliaco.
E' un film dove l'azione è sostituita dalla parola , a parte la primissima parte in cui è ripresa vigorosamente la battaglia di Gettysburg, un pugno di sequenze che rimanda direttamente a Salvate il soldato Ryan.
Si parla, ci si confronta, una partita a scacchi continua dove tutti cercano di dare scacco al re , Lincoln, e lui cerca di dare scacco matto a tutti quelli che gli si parano davanti.
L'abolizione della schiavitù è quindi solo merce di scambio in un gioco molto più ampio. Interessante notare che due pesi massimi di questo gennaio cinematografico ( questo film e Django Unchained) parlino di schiavitù nell'America del XIX secolo ma naturalmente da prospettive diametralmente opposte, così come sono antitetici i due autori che li hanno creati.
E proprio per questo suo soffermarsi sul dietro le quinte delle stanze della politica è un film che sembra guardare molto più all'oggi che al passato.
Sembra quasi la storia di un Obama bianco di un paio di secoli fa.
Lincoln è inoltre nobilitato da una fotografia di grandissimo pregio ( Janusz Kaminski, una garanzia) e da un cast all stars che fa a gara a rubarsi la scena reciprocamente: a parte ilo misuratissimo Tommy Lee Jones nascosto sotto una parrucca inguardabile, una menzione a parte per Daniel Day Lewis è sensazionale con il suo modo di muoversi ( sembra camminare sulle uova) , il suo sguardo torvo e il volto incavato incorniciato da una barbetta caprina. Lo guardi e pensi a quanto di lui sia nascosto dentro Lincoln . Si annulla nel suo personaggio fondendosi a lui.
Detto della confezione inappuntabile, delle ricostruzioni storiche e ambientali ineccepibili e della prova stratosferica del cast occorre anche dire che tutto questo purtroppo, per quanto mi riguarda, non si è trasformato in grande cinema.
Tutta la magnificienza di Lincoln viene sacrificata alla sua verbosità sfiancante: come detto prima è un film dove si parla, si parla e ancora si parla.
E questo potrebbe risultare indigesto a più di qualcuno: pur non avendo problemi con i film in cui le parole si sostituiscono alle azioni, confesso che qualche sbadiglio nella parte centrale ci è scappato e anche nel finale l'emozione ha latitato come in tutto il resto delle due ore e mezza di proiezione
Ecco l'emozione: difficile trovarne in un film così perfetto esteticamente, così corretto politicamente, così tutto.Un'opera come questa dovrebbe trovare il giusto bilanciamento tra retorica ed emozione e invece se è vero che la retorica affiora solo a tratti , l'emozione non affiora per nulla.
Spielberg ha svolto il suo bel compitino da bravo democrat narrando un presidente molto avanti ai suoi tempi e screziando la sua figura con i suoi problemi personali oltre che con la sua mancanza di scrupoli in politica.
Il Lincoln di Spileberg e di Daniel Day Lewis arriva agli occhi ma non al cuore e questo è un vizio capitale per un film importante come questo .
Quello che resta è un'opera cinematografica curata nei minimi dettagli che tuttavia non sfonda, non ha  la statura del classico a cui manifestamente aspira ,anzi arriva ad annoiare nel suo ripetere per circa due ore e mezza riunioni su riunioni.
Il troppo storpia.
E soprattutto dopo aver visto questo film ancora devo trovare chi mi spiega chi fosse davvero Lincoln.
Spielberg e Day Lewis lo hanno intarsiato ma è stato un lavoro solo di superficie: però ciò è bastato per vincere ai Golden Globes, per avere un mucchio di nominations all'Oscar e magari anche per vincerne qualcuno.
Però la noia arrivata al galoppo con War Horse ancora non accenna ad andare via.
Solo un piccolo passo avanti. Lentamente.

( VOTO : 5,5 / 10 ) 


Lincoln (2012) on IMDb

giovedì 24 gennaio 2013

The Tunnel ( 2011 )

In seguito a una crisi di approvvigionamento idrico a Sidney il governo australiano decide di servirsi dell'immensa rete di canali che si trovano sotto la città per raccogliere l'acqua del sottosuolo ma improvvisamente fa marcia indietro. La giornalista Natasha Warner teme che ci sia qualcosa di sporco sotto e con una piccola crew di cameramen scende nei sotterranei per appurare la veridicità di notizie riguardanti frequenti scomparse di homeless che vivono nel dedalo di corridoi situato sotto la città.
Vogliono avere uno scoop sensazionale da raccontare ma non sarà così facile: là sotto c'è veramente qualcosa che non va.
Ed è un qualcosa che vuole prenderli.
Non so perchè mi imbatto spesso in mockumentaries veramente deficitari da quasi ogni punto di vista eppure  continuo a cercarne e a vederne.
Sarà perchè ritengo che  lo stile abbia notevole potenziale orrorifico ma soprattutto , per quanto riguarda The Tunnel, è la sua provenienza, l'Australia. E la memoria corre a Lake Mungo il mockumentary più terrorizzante che sia passato  sui miei schermi ( pluralis maiestatis, ne è uno solo !) ultimamente.
The Tunnel, esordio nel lungometraggio di Carlo Ledesma, ha le sue brave frecce al suo arco:  ambientazione riuscitissima , una storia plausibile e dal buon potenziale ansiogeno, un impianto drammaturgico in crescendo che deflagra pienamente nell'ultima mezz'ora di film, un lavoro solido di regia che preferisce alla solita telecamerina ballonzolante ( che comunque in alcuni segmenti compare) la pluralità delle fonti di visione: oltre alle due telecamere dei protagonisti ( di cui una a infrarossi che fa tanto Rec) ci sono quelle di controllo dei corridoi installate nel sottosuolo che hanno una parte importante.
Per non parlare poi delle interviste rilasciate da due dei protagonisti riguardo alla storia raccontata che svelano a poco a poco il mistero e ricordano molto da vicino il sunnominato Lake Mungo.
In realtà di novità nel format mockumentary non ce ne sono moltissime a parte un tentativo, non propriamente riuscito, di dare spessore psicologico ai due personaggi che sono intervistati e lo spazio riservato al loro senso di colpa che male si addice al genere, soprattutto se trattato molto superficialmente come succede qui.
E' indubbio però che, soprattutto nella parte ambientata nei sotterranei, un mix di squallore e claustrofobia che stringe la gola in una morsa ferrea, il film prende di brutto, sembra quasi di fuggire assieme ai protagonisti per questo labirinto apparentemente senza usciti inseguiti da un mostro che quando ti prende non ti fa emettere neanche un fiato.
Mostro che naturalmente, a parte una fugace sequenza, rimane giustamente nell'ombra.
Interessante la storia produttiva di questo film: è stato messo in vendita a un dollaro per fotogramma sul web in una sorta di finanziamento da parte dei fans. Quindi il film è stato messo gratuitamente a disposizione via torrent. Da qui l'interesse della Paramount che poi lo ha distribuito attraverso vie più "regolari".
The Tunnel non sarà imprescindibile, è derivativo perchè sembra un  The Blair witch project con mostro e corridoi al posto di strega e bosco, ma una guardata se la merita ampiamente se non fosse altro per quei sotterranei che sono i veri protagonisti del film.

( VOTO : 6,5 / 10 ) 

The Tunnel Movie (2011) on IMDb

mercoledì 23 gennaio 2013

Dead Snow ( 2009 )

Otto studenti universitari si stanno dirigendo verso una baita immersa nel candore della natura innevata in un remoto fiordo norvegese. Giusto per passare un weekend a rilassarsi e a cazzeggiare con una motoslitta di cui sono dotati. Aspettano un'altra collega che però non arriva. La prima sera ricevono la visita di uno strano figuro che li avverte che lì' intorno è infestato di fantasmi dei nazisti che avevano occupato la zona nella Seconda Guerra Mondiale. Naturalmente la prendono tutti a ridere ma quando in un vano nascosto sotto il pavimento trovano un piccolo tesoro in monete d'oro antiche si accorgono che non sono soli. Ci sono dei nazisti zombies che li assediano e che vogliono un pezzo di loro...
Non so quanti horror la Norvegia sforni ogni anno ma non credo che siano molti: se poi a tutti accade come a me di vederne due in pochi mesi e accorgersi che per la prima metà sono praticamente identici, beh non è una bella cosa. L'altro film di cui sto parlando è Cold Prey ( di cui abbiamo già parlato qui ) in fondo una simulazione di slasher americano niente male.
Dead Snow per la prima metà si comporta da simulazione della simulazione: totalmente derivativo, anche noiosetto , con una serie di personaggi poco o nulla interessanti capaci solo di ascoltare canzonette alla radio e sfondarsi di birra i rispettivi fegati.
Poi la situazione cambia: dopo una scena abbastanza scult di sesso in latrina ( e guarda caso la signorina che concede le sue grazie lo fa a l'unico poco appetibile sessualmente, con una bella panzetta in fuorigioco e addominali scolpiti a forza di braciole di renna e birrette ) finalmente la mattanza ha inizio. E siamo già a metà film.
Ora la trovata è talmente ridicola ( quella di zombie vestiti di tutto punto con la divisa nazista) da essere metabolizzata senza problemi: alla fine tutto è meglio di una prima parte indigeribile.
Le cose vanno molto meglio perchè Tommy Wirkola la cinepresa la sa usare in modo veramente degno , crea un efficace contrasto tra riprese in campo lunghissimo e scontri ravvicinati dove volano sangue frattaglie e fegatini in grande quantità e soprattutto non perde mai di vista una certa ironia sbracata che è sempre presente anche nelle scene più concitate.
Certo la verosimiglianza è una chimera perchè come al solito i cellulari non prendono e i ragazzotti pensano bene che dividersi sia la cosa migliore di fronte all'assalto dei nazizombies.
Così abbiamo degli idioti che sanno come confezionare una molotov casalinga ma non sanno neanche tirarla bruciando la casa in cui sono rifugiati, amputazioni di braccia per non diventare zombie appena prima di essere morsi proprio lì dove fa più male e tante altre amenità assortite che si pongono a mezza strada tra la commedia becera e l'horror.
Il fan dello zombie movie e dello splatter ha comunque pane per i suoi denti perchè i trucchi sono molto ben realizzati , la computer grafica se c'è non si vede e si preferiscono soluzioni più caserecce , tipo la buona vecchia cotenna del maiale per una scena di autosutura.
Rinforzata poi con il nastro adesivo, non si sa mai.
C'è poi una raffica di citazioni che vanno da Die Hard a La casa di Raimi ma tanto che lo dico a fare, ognuno avrà piacere a trovarne più possibili.
Dead Snow è il classico filmetto da popcorn, birra e rutto libero con gli amici che decolla con la classica mezz'ora di ritardo.
Eppure gli americani ( e i tedeschi con la borsa piena  di euri ) hanno visto qualcosa in Tommy Wirkola visto che gli hanno affidato sceneggiatura e regia di Hansel e Gretel: Cacciatori di Streghe , budget 60 milioni di dollari, che da noi uscirà a fine febbraio.

( VOTO : 5,5  / 10 )  Dead Snow (2009) on IMDb

martedì 22 gennaio 2013

Black Christmas ( 1974 )

Il Natale è alle porte  e in una classica sorority universitaria ( casa per studentesse, una piccola comune) fervono i preparativi. Cominciano ad arrivare telefonate da parte di un maniaco che urla frasi sconnesse. Una studentessa delle medie viene ritrovata morta nel parco vicino alla casa e anche una delle ragazze sparisce misteriosamente. Al centro di tutto sembra che ci sia Jess, fidanzata con un pianista e che ha un segreto da rivelare. La polizia indaga e mette sotto controllo il telefono delle ragazze ma le telefonate continuano e le occupanti della casa continuano a sparire....
Black Christmas è un film importante per la storia dell'horror probabilmente anche al di là dei suoi indubbi meriti perchè è probabilmente da questo film di Bob Clark che poi nacque il filone slasher che sopravvive ancora oggi nei gusti dei fans dell'horror puro e crudo.
In questo film del 1974 ci sono tutte quelle componenti classiche del genere: il solito gruppo di studentelli non particolarmente simpatici , poliziotti non particolarmente intelligenti, un assassino misterioso i cui omicidi vengono ripresi in soggettiva, un' atmosfera malata e inquietante data dalla claustrofobia degli ambienti.
E quel telefono che trilla in continuazione, diventando il vero protagonista, volontario, del film.
Black Christmas si avvale di un ottima regia da parte dell'eccellente artigiano Bob Clark ( diventato poi famoso a livello mondiale con la saga di Porky's ma autore negli anni '70 di una serie di horror che ebbero un discreto riscontro) che anticipa molte delle tendenze future.
Dalle soggettive, poi letteralmente saccheggiate da Carpenter per il suo meraviglioso Halloween, ai giovani protagonisti trattati più o meno come carne da macello, alla suspense creata dal fatto che l'assassino è sconosciuto anche allo spettatore come nel classico whodunit e in questo riprende abbastanza lo stile del thriller/horror italiano di Bava e Argento ( Profondo Rosso è dell'anno successivo, chissà se Argento ha tratto ispirazione per quello che è il suo capolavoro vedendo questo film canadese), al clima di tensione che corre spedito sul filo del telefono come in un altro film di grande successo tra gli appassionati come Quando chiama uno sconosciuto di Fred Walton che comunque è di cinque anni successivo alla pellicola di Bob Clark, l'uso del sonoro e di uno score musicale che sottolinea con vigore le sequenze più ad effetto.
Altra novità, se non erro ( e se erro perdonatemi perchè sto andando a memoria) , è l'ambientazione natalizia del tutto inedita: come dire se Natale di solito è il teatro di film che sprizzano melassa da tutte le parti , Black Christmas arriva a dilaniare con la sua furia omicida tutto quanto di dolce c'è in un periodo dell'anno in cui ipocritamente ci si sente tutti più buoni.
A rivederlo oggi può apparire invecchiato agli occhi dello spettatore perchè sembra pieno dei classici clichè di cui sono stracolmi gli horror proposti sugli schermi.
La sola differenza è che questo film quei clichè li ha inventati e solo per questo si merita un altarino a parte.
Nonostante la suspense che letteralmente si affetta col coltello, Clark non rinuncia a una sana dose di cattiveria ( la reazione di sollievo quando il padre della prima studentessa rapita assiste al ritrovamento di un cadavere che non è quello della figlia , una cosa magari non proprio gentile da far vedere ) e a puntate umoristiche legate al personaggio della signora che bada alle ragazze della sorority e a quello del sergente Nash, di una stupidità veramente oltre ogni misura.
La bravura di Clark sta proprio nell'inquietarci con quello che non si vede o che si intuisce appena confezionando alcune sequenze da mandare a memoria come quella dell'omicidio a uno dei piani di sopra della casa mentre sulla porta Jess sta ascoltando un gruppo di bambini intonare un canto natalizio.
Il montaggio alternato crea una tensione quasi insostenibile eppure praticamente di sangue non se ne vede neanche una goccia.
Ottimo anche il finale pervaso da una perversa ambiguità.
Inutile il remake omonimo del 2006.

( VOTO : 7,5 / 10 )  Black Christmas (1974) on IMDb

lunedì 21 gennaio 2013

Alex Cross ( 2012 )

Alex Cross, psicologo d'assalto e detective della squadra omicidi di Detroit con moglie incinta e a un passo dall'accettare un posto di lavoro meno operativo e più retribuito in quel di Washington, assieme alla sua squadra si trova a dover fare i conti con un pericoloso killer, di nome Picasso, che sembra avere particolare piacere nel torturare le sue vittime prima di ucciderle,donne soprattutto.Ma non è un serial killer, è un sicario che sta eseguendo un piano piuttosto elaborato.Cross cerca di proteggere quello che secondo lui è il prossimo bersaglio del killer, il miliardario Mercier.
Il killer però fa un piccolo errore. Uccide la moglie di Cross facendo diventare tutto una faccenda privata.
Inizia una caccia senza esclusione di colpi.
Non è la prima volta che il personaggio di Alex Cross, nato dalla penna di James Patterson, approda al cinema. Se non erro è la terza dopo Il collezionista e Nella morsa del ragno. Il problema è che lì era impersonato da un fuoriclasse come Morgan Freeman che splendeva di luce propria anche in pellicole non esattamente irresistibili, che avevano la sola aspirazione di essere degni esponenti di genere.
Qui al posto di Morgan Freeman c'è il più giovane Tyler Perry, una specie di quarto di bue che fa rimpiangere a ogni inquadratura l'illustre predecessore.
Inoltre nell'opera di vernissage che è stata fatta al personaggio il nuovo Alex Cross è uomo molto più incline all'azione che non alla deduzione che era la sua specialità della casa nei film precedenti.
Quello che vien fuori è quindi un pastrocchio action in cui una specie di Sherlock Holmes nero corre, mena e spara come un ossesso.
Dall'altra parte ben più interessante è il personaggio di Picasso più che altro per l'impressionante trasformazione fisica a cui si è sottoposto Matthew Fox : quando compare in scena è uno shock, è la metà di quello che era in Lost e lì su quell'isola non è che pasteggiasse a caviale e champagne, quindi teoricamente doveva essere abbastanza deperito.
Qui è un fascio di muscoli e terminazioni nervose: ti soffermi a pensare che magari non sta bene in salute , che ha un tumorino da qualche parte ma poi ti rinfranchi leggendo che si è sottoposto a una dieta più che ferrea e a turni massacranti in palestra per ottenere la silhouette impressionante che sfoggia nel film.
Che tocca fare per campare...
A conti fatti la cosa migliore di Alex Cross è la regia nelle scene squisitamente action affidata al superesperto Rob Cohen che non sarà mai un fulmine di guerra nel far recitare gli attori ( e qui ne dà ulteriore prova, Perry è inespressivo come pochi mentre Matthew Fox è odiosamente sopra le righe, totalmente fuori controllo ) ma quando si tratta di filmare inseguimenti, sparatorie e duelli fisici riesce a fare tutto come il dio del cinema action comanda.
Alex Cross comunque lo si voglia vedere è un'operazione fallimentare : delude la rielaborazione del personaggio , ha un copione non dei più brillanti che lo fa assomigliare a centinaia di altri film, non ha personalità ed anche al botteghino è stato remunerativo ben al di sotto delle attese.
Ancora non distribuito in Italia ma per una volta mi sento di condividere...

( VOTO : 4,5 / 10 )  Alex Cross (2012) on IMDb

domenica 20 gennaio 2013

Moon ( 2009 )

Sono tre anni che Sam Bell sta estraendo Helium 3 dalla faccia nascosta della luna ed è quasi vicino alla scadenza del contratto , giustamente non vede l'ora di tornare a casa dopo tanto tempo passato nella solitudine totale.Mancano solo due settimane  e tutto comincia ad andare storto; una banale operazione di lavoro non va come sperato e Sam comincia a sospettare che qualcuno lo voglia tenere su quella base lunare contro la sua volontà.
"Fly me to the moon" cantava Frank Sinatra da qualche parte negli States. E Sam Bell sulla faccia nascosta della Luna ci è volato per davvero. Lavoro di tutto riposo, un contratto di manuntentore per tre anni di una stazione di raccolta di un combustibile ecologico da inviare sulla Terra. Uniche compagnie sono serie tv, canzoni (la mattina si sveglia con Nik Kershaw) e la voce di un computer ,GERTY,  con i suoi emoticons che si vedono da un piccolo schermo sul davanti. 
Il satellite per le comunicazioni non è funzionante quindi i suoi familiari e i suoi capi comunicano con lui solo tramite messaggi preregistrati.
Mancano solo due settimane e Sam comincia a capire che c'è qualcosa che non funziona, comincia a vedere strane cose.
Il film dell'esordiente Duncan Jones(non vi dirò neanche sotto tortura che è il figlio dell'uomo che cadde sulla terra David Bowie) più che puntare sugli effetti speciali (che non ci sono , è un film realizzato con un budget ridicolo per gli standard dei film di fantascienza di oggi, appena 5 milioni di dollari, cifra comunque piuttosto consistente per essere una produzione europea) punta a recuperare le atmosfere della fantascienza adulta e umanista che negli anni 70 ha raggiunto probabilmente l'apice creativo.
Cita nella stessa inquadratura sia Tarkovskij (anche se qui non c'è nessun oceano pensante che crea visioni) che Kubrick (GERTY pare un nipotino di HAL) ma non credo che siano i suoi punti di riferimento principali.
 Penso che  il buon Duncan  abbia visto come parametro di riferimento per il suo film opere come Silent Running (2002 la Seconda odissea ) diretto dal mago degli effetti del 2001 di Kubrick,Douglas Trumbull e una serie tv inglese degli anni 70, molto nota anche qui da noi come Spazio 1999 .
Altri riferimenti filmici soprattutto scenografici possono essere trovati in opere minori come Saturn 3 di Donen oppure Atmosfera zero di Hyams,un remake di High noon (Mezzogiorno di fuoco)ambientato nella profondità dello spazio.
Silent Running e Moon corrono su binari paralleli soprattutto per essere entrambi dominati da un one man show:le prove di Bruce Dern e di Sam Rockwell sono pervase da un senso di disperato fatalismo, una volontà beluina di opporsi ai disegni preordinati, una consapevolezza di essere solo dei minuscoli meccanismi di un ingranaggio altrimenti perfetto.
Jones gioca sul nitore dei corridoi, sull'alienazione portata da una vita che si ripete sempre uguale a se stessa,sui silenzi che rimbombano in una stazione spaziale dove tutto è asetticamente controllato dalla calma rassicurante di GERTY (che segue le leggi della robotica di Asimov) aiutato anche da un commento musicale intenso e allo stesso  tempo minimalista ad opera di Clint Mansell.
In questo e nel trattare argomenti che sfiorano l'esistenziale ricorda molto la prima stagione di Spazio 1999
Moon è un film piacevolmente fuori del tempo che propone interrogativi senza voler dare a tutti i costi le risposte, che non scioglie magari tutti i nodi (la telefonata a Eve oramai quindicenne e lei che si rivolge al padre che è lì a fianco a lei) ma che affascina e inquieta sin dalla prima inquadratura.
E Duncan Jones è bravissimo a tener coperto il gioco, a svelare la terribile verità poco a poco creando una sorta di cortocircuito  che mi ha rimandato alla memoria, in un sublime trucco illusionistico, l'ultima sequenza di The Prestige.
Sam Rockwell più che essere semplicemente attore, acquisisce lo spessore di un entità cinematografica magnificamente flessibile in tutta la sua umoralità, è lui il vero effetto speciale del film.
E a differenza degli altri effetti speciali non ha prezzo....

( VOTO : 8 + / 10 )  Moon (2009) on IMDb

sabato 19 gennaio 2013

Django Unchained ( 2012 )

Django è uno schiavo nero che viene liberato da uno strano dentista tedesco che in realtà di professione fa il cacciatore di taglie, il dottor Schultz. E' stato liberato perchè pare che conosca di persona dei criminali a cui il bounty killer sta dando la caccia . I due formano una strana società in cui Django aiuta Schultz e il tedesco aiuta l'ex schiavo, ora uomo libero, nella ricerca della moglie Broomhilda, che ora è una schiava al servizio di un truce latifondista, Calvin Candie, di stanza in un posto chiamato Candyland.
Cercano di passare per schiavisti in cerca di neri per combattimenti ma presto viene scoperto il loro reale intento.
E Calvin, il padrone di casa, non la prende benissimo.
E' un anno che sento parlare che Tarantino con Django Unchained si diverte a rifare lo spaghetti western 40 anni dopo.
Magari prima di vedere il film ci ho creduto anche ma dopo mi sono accorto che era una gran cazzata: Django Unchained non è uno spaghetti western, al massimo nella durata ( avete mai visto uno spaghetti western di quasi tre ore ?) omaggia la dilatazione dei tempi classica dei western di Leone, ma poi stop!, non c'è nessuna vicinanza stilistica tra il modo di fare western ( e di fare cinema ) di Tarantino  e di Leone.
Qualcuno potrà obiettare che Leone faceva spaghetti western...ebbene anche questa secondo me è una gran cazzata ( scusate se oggi sto usando termini francesi per rinforzare i miei concetti ) perchè il grande Sergio faceva solo magnifico cinema ed era stato capace di dare un 'impronta europea al genere americano per antonomasia. Da qui il saccheggio di tanti imitatori.
Del resto nello spaghetti western, mi spiace per gli amanti del genere, di grandi film se e contano veramente pochi.
Veniamo ora all'omaggio al nostrano Django: beh se Tarantino voleva omaggiare Franco Nero poteva farlo decisamente meglio: è imbarazzante la sequenza in cui davanti al bancone del bar in casa Candie dopo un combattimento tra mandinghi, Nero chiede a Foxx come si chiami e lui gli risponde Django.
Qualcosa di veramente sfacciato, di rara grossolanità.
Tutto qui l'omaggio al genere di riferimento  a parte poi l'uso di certe canzoni nella colonna sonora, qualcosa nella fotografia e la grafica dei titoli di testa e di coda  che fanno moooolto spaghetti western.
Se non fosse stato per questo omaggio  a Franco Nero e al suo Django ( ma perchè non far comparire assieme ai due protagonisti la mitica bara ?) il personaggio di Foxx avrebbe potuto chiamarsi anche Cornelius o Clarence , classici nomi da schiavo negro, e Spike Lee si sarebbe ancor di più incacchiato come un'ape a sentire i dialoghi nel film.
E qui vorrei dire una cosa al vecchio Spike che io amo tanto: ma secondo te nell'America schiavista del XIX secolo come li chiamavano i negri? Dottore, professore? Li chiamavano in maniera dispregiativa e quindi la tua polemica sul linguaggio usato in questo film mi appare pretestuosa per non dire ridicola.
A meno che con Quentin poi te la stai ridendo alla grossa perchè questa polemica è tutta invenzione ad uso e consumo dei giornalisti di cinema giusto per dare altra pubblicità al film.
Ma ho perso il filo del discorso: dicevamo che DJANGO UNCHAINED NON E' UNO SPAGHETTI WESTERN. Ecco l'ho scritto pure in maiuscolo per farmi capire meglio.
E adesso scrivo un'altra cosa grossa però in minuscolo: per me non è neanche così western. Perchè è solo una questione di ambientazione, non c'è nessun mito della frontiera e nessun Sogno Americano da perseguire. E non lasciatevi fuorviare da qualche sequenza nella parte iniziale ( quella fino all'uccisione del personaggio interpretato da un redivivo Don Johnson) in cui ci viene mostrata  la maestosità del paesaggio e i grandi spazi del vecchio classico western americano.
Tarantino prosegue nella sua idea di cinema trasversale in cui ficca veramente di tutto : qui forse è un po' più ingabbiato del solito in una narrazione abbastanza lineare per i suoi standard narrativi ma mi sembra che in questo ultimo film vengano amplificati i suoi difetti: Django Unchained è veramente troppo lungo per la vicenda che racconta , la solita raffica di citazioni che se ti va bene ne cogli la metà e i consueti dialoghi sul filo del paradosso che servono per costruire certosinamente il climax per l'attesa esplosione di violenza che duri quei due -tre secondi e che ti fa dimenticare i cinque minuti precedenti passati a parlare di quisquilie.
La vendetta di Django dura più o meno un quarto d'ora e quindi se questo è un film di vendetta  allora  arriva   con due ore e mezza di ritardo.
Il nuovo film di Tarantino non farà cambiare idea ai suoi detrattori , nè ai suoi fan irriducibili.
Un fan non propriamente irriducibile come il sottoscritto è portato a riflettere perchè più andiamo avanti e più penso che il prode Quentin continui a prenderci per i fondelli con la sua idea di fare cinema d'autore usando solo ingredienti di bassa qualità.
Perdonatemi il paragone ma il regista americano è come uno chef che ha la pretesa di fare nouvelle cousine usando solo ingredienti da junk food. Idea ardita che ha dato i suoi buoni frutti nel passato ma non può essere riproposta all'infinito.
Django Unchained è un campo minato cosparso di specchietti per le allodole: ci viene propinato per western e invece è un blaxploitation sotto mentite spoglie che ci parla di odioso schiavismo, ci dicono che il protagonista e Jamie Foxx e la sua sete di vendetta e invece quando è in scena Christoph Waltz al povero Jamie se lo mette nel taschino con tutto il cappello e il cavallo che ha sotto al culo, Di Caprio viene spacciato per il cattivissimo del film e invece è una femminuccia di fronte al personaggio del vecchio  Stephen ( un gigantesco Samuel L. Jackson ) , uno schiavo consigliori che si dimostra molto più perfido del suo padrone.
Vogliamo poi parlare della violenza che Tarantino non dimentica mai di esibire? Anche qui siamo dalle parti dello splatter con schizzi di sangue finto che vanno da tutte le parti, anche sulla lente della telecamera.
E ritorniamo alla domanda di base: Django Unchained è un bel film?
La risposta è ni: piacevole ma non mi ha appassionato come altri di Tarantino, godibile per singoli capitoli ma veramente triturante sulla lunga distanza, citazionista e derivativo fino allo sfinimento ( ma è una specialità della casa) e con un pugno di grandi attori usati magnificamente.
Ecco, vedere un Christoph Waltz così bravo o un Samuel L. Jackson che quando è in scena attira tutta l'attenzione dello spettatore impedisce di distruggere sistematicamente questo film come faranno molti.
Ma  per me non è il capolavoro che molti stanno spacciando.
E' un film in cui il presunto protagonista è il personaggio in realtà meno interessante di tutto il cast.
E questo se non è il peccato originale poco ci manca.
E se lo avesse chiamato Doctor Schultz Unchained?

( VOTO : 6 / 10 ) 

Django Unchained (2012) on IMDb

venerdì 18 gennaio 2013

Frankenweenie ( 2012 )

Victor Frankenstein è un bambino piuttosto solitario che ha come migliore amico il suo cane Sparky. Quando il suo cagnolino muore  investito da una macchina Victor, ispirato da un esperimento di scienze sulle rane, cerca di riportarlo in vita usando elaborati macchinari da lui assemblati e l' elettricità data dai fulmini.
Sparky ritorna in vita ma l'eco della riuscita dell'esperimento arriva alle orecchie sbagliate. Anche i compagni di Victor vogliono riportare animali in vita nella notte buia e tempestosa in cui si svolge  la Festa Olandese del paese. Gli animali portati in vita sono però mostri senza controllo e terrorizzano gli abitanti della cittadina.
Victor e Sparky avranno molto da fare per evitare il peggio.
Tim Burton ritorna sul luogo del delitto. Quello dei suoi esordi.
Il ricordo di quel delizioso cortometraggio con attori in carni ed ossa è ancora vivo nella mia memoria e attendevo con una certa trepidazione e anche un po' di timore questo lungometraggio animato in stop motion che si ispira al Frankenweenie del 1984.
Trepidazione perchè mi aspettavo decisamente qualcosa di livello superiore rispetto alle ultime cose fatte da Burton ( e devo dire che ci voleva anche poco per fare meglio di Alice in Wonderland e Dark Shadows) e paura perchè riprendere e riciclare qualcosa dal proprio passato per molti può suonare come sinonimo di carenza cronica di idee.
E invece stavolta i detrattori saranno costretti a fare un passo indietro.
Frankenweenie  è una finissima amalgama condensata in modo assolutamente perfetto di citazioni e di suggestioni dal passato di Tim Burton e di un immaginario horror legato alle radici del genere .
Sfilano in delizioso disordine le vie azzimate e i personaggi oltre le righe di Edward Mani di Forbice, un professore di scienze che ha la faccia di Vincent Price e la voce (in originale) di Martin Landau, il bianco e nero che riporta a Ed Wood ( e fare un cartone animato in bianco e nero è scelta decisamente temeraria in un'epoca in cui i bambini vengono suggestionati da suoni e colori sparatissimi), un aquilone a forma di pipistrello che fa tanto Batman, i monster movies anni '50 con una specie di Godzilla che va in giro per la città, il Frankenstein di Whale per il finale nel mulino in fiamme con tutta la città accorsa a dare fuoco al mostro, ma anche La moglie di Frankenstein, sempre di Whale,  per quell'acconciatura così particolare della barboncina e per la scena in cui Sparky viene riportato in vita, dei mostriciattoli che assomigliano tanto ai Gremlins, una galleria di personaggi che pur riprendendo grandi attori del passato ( oltre a Price anche Peter Lorre e Boris Karloff) riporta al classico universo burtoniano che siamo abituati a conoscere.
Frankenweenie ha il sapore di un ritorno al passato ma anche quello di un saluto affettuoso ad amici che non ci sono più e che hanno scritto pagine di cinema fondamentali.
Pur conoscendo per filo e per segno la storia e immaginando subito dove vada a parare è un film che meraviglia ad ogni sequenza e non solo per la perfezione tecnica con cui è realizzato.
C'e amore, nostalgia, in Frankenweenie traspare  autentica passione per quella magnifica arte che è il cinema.
Una passione che il caro vecchio Tim Burton sembrava aver perso nelle sue ultime realizzazioni assieme al  tocco magico che aveva reso indimenticabili le sue cose migliori.
In  tempi di bombardamenti sensoriali audiovisivi uscire con un film in stopmotion e per giunta in bianco e nero può sembrare scelta temeraria dal punto di vista commerciale ( perchè sicuramente una fetta di pubblico viene persa , purtroppo ci sono tantissimi pseudoamanti di cinema che rifiutano l'idea di vedere un film in bianco e nero ) e spocchiosa dal punto di vista artistico.
Ma mi piace credere che stavolta non sia così: Burton ha omaggiato i suoi maestri con grande rispetto e sincerità, quasi con un filo di commozione,  questo arcobaleno di citazioni in bianco e nero appare ancora di più come simbolo di gratitudine per i padri senza i quali non sarebbe esistito il cinema di Tim Burton.
E lo Sparky  che perde i pezzi anche solo scodinzolando è creatura assolutamente adorabile.
Anche se di cartone.

( VOTO :  8 / 10 )

Frankenweenie (2012) on IMDb

giovedì 17 gennaio 2013

Consigli per gli ascolti ( 4 )

MAGO DE OZ :HECHIZOS, POCIMAS Y BRUJERIA ( Warner bros , 2012 ) .Attesissimo, almeno da parte mia il ritorno di uno dei miei gruppi preferiti : i Mago de Oz. I menestrelli spagnoli naturalmente non vengono meno al loro buon nome e ci consegnano oltre 70 minuti di folk metal scatenato tra un riff da osteria, una melodia medievaleggiante e tanto, sano, robusto rock'n'roll.
Una grossa novità è la presenza del nuovo cantante, Zeta, destinato a raccogliere la difficile eredità di Josè Andrea che ha calcato i palchi col Mago de Oz per oltre 15 anni.
In realtà le due voci non sono così lontane, forse quella di Zeta ha una personalità meno spiccata ma per il momento è meglio sospendere il giudizio, diciamo che è un ottimo surrogato, dotato di tecnica e di buona estensione. La cosa che lascia un po' interdetti nei dischi del Mago è lo scarso utilizzo, a parte i cori,  della vocalist Patricia Tapia, dotata di un timbro vocale estremamente interessante, una voce grintosa  che dà ottima prova di sè in uno dei brani più belli dell'album, l'oscura Brujas.
Hechizos, pocimas y brujeria si pone tra la linearità di un disco come La ciudad de los arboles e l'ambizione sfrenata di opere maestose come Gaia II : La voz dormida o Gaia III : Atlantia.
Brani migliori sono Satanael caratterizzata da un bellissimo inizio acustico e poi sostenuta da un riff parecchio incisivo di matrice settantiana, la già nominata Brujas e la title track che cambia parecchie volte pelle durante i suoi 8 minuti e passa.Comunque disco ultraconsigliato. (VOTO : 8 / 10 ).
GOJIRA: L'ENFANT SAUVAGE ( Roadrunner Records, 2012 ) I francesi Gojira, alfieri di un death metal ultratecnico tornano con un disco che sicuramente dividerà le schiere di aficionados e non. Farà  perdere qualche vecchio fan purista della loro proposta musicale senza compromessi ma sicuramente ne farà acquistare di nuovi soprattutto tra i giovani virgulti che stanno educando le loro orecchie a pane e metallo.
La parola d'ordine nel nuovo disco dei Gojira è evoluzione: il sound impercettibilmente si ammorbidisce, acquista una dimensione meno tellurica arrivando a partorire brani come la title track che può ambire anche a passaggi radiofonici per una linea melodica ricercata ma comunque ben intellegibile. Il lavoro delle chitarre è come al solito superbo, il rifferama è raffinatissimo  ma i brani col passare dei minuti tendono ad assomigliarsi perchè sono costruiti tutti un po' tutti alla stessa maniera con una voce che da un semplice growl acquisisce toni declamatori e un andamento sinusoidale in cui parti accelerate si alternano in maniera fin troppo puntuale  a parti più melodiche e a decelerazioni improvvise in stile Fear Factory.
L'enfant sauvage è un monolite di circa 60 minuti che all'inizio affascina per la tecnica assolutamente fuori della norma con cui è suonato ma poi gradualmente perde la sua efficacia e questo è dovuto anche alla sua lunghezza eccessiva. Assunto a piccole dosi è un discone. L'overdose crea effetti collaterali. (VOTO : 6,5 / 10 )
BLUT AUS NORD : 777 COSMOSOPHY ( Debemur Morti, 2012 ) Cosmosophy è il capitolo finale della trilogia 777 e ha un po' il sapore di qualcosa che chiude col passato e si apre a un futuro decisamente diverso. Si respira aria di evoluzione, le chitarre che non davano respiro nei capitoli precedenti della trilogia ( e un po' in tutta la carriera dei balcksters francesi) qui lasciano presagire qualcosa di nuovo. So di usare una parola grossa soprattutto in casa Blut aus Nord ma si sente qua e là qualcosa che possa essere assimilato a una melodia, le voci diventano per un attimo pulite intrecciandosi in cantilene che lasciano a bocca aperta, così come il tappeto di tastiere sul quale sofficemente si adagiano.
Cosmosophy è un passo oltre il black metal, siamo oltre il cyberspazio , in una dimensione alternativa in cui c'è spazio solo per il soffio (dis)vitale  dei Blut Aus Nord che mettono un altro macigno invalicabile tra se stessi e la quasi totalità dei gruppi black del pianeta. Non somigliano a nessuno. Solo a loro stessi.
Eppure questo inatteso afflato "melodico" lascia presagire grossi cambiamenti...Aspettiamo fiduciosi. (VOTO : 8,5 / 10 )   .
A FOREST OF STARS : A SHADOWPLAY FOR YESTERDAYS ( Prophecy Productions, 2012 ) CI  sono dei gruppi che sfuggono a qualsiasi definizione e temo che gli  A Forest of stars rientrino proprio in questa categoria. Questi sette figli della terra d'Albione sono portatori di un verbo musicale estremamente personale fatto di influenze black, massicci riff sabbathiani, sezioni teatraleggianti, generosi inserti folk e di musica celtica che arrivano a intervallarsi anche nello stesso brano.A testimonianza di quanto appena detto si può prendere il brano A Prophet for a Pound of flesh che nei suoi oltre 10 minuti di durata lascia intravedere tutte le diverse anime degli A Forest of Stars. Anche dal punto di vista del look sono molto particolari: sembrano usciti dall'Inghilterra vittoriana e a vedere il loro sito ( bellissimo, tra l'altro , lo potete vedere qui) si ha la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di diverso dal solito, che rifugge la banalità a parte  qualche problemino con le date ( se ho capito bene per questi signori ora non siamo nel 2013 ma nel 1893). I brani , pur lunghi, sono facilmente assimilabili a patto di essere open minded e di riuscire ad accettare senza problemi una proposta musicale così variegata. ( VOTO : 8 / 10 ) .