Evan sta vivendo un brutto periodo: la madre è appena passata a miglior vita e lui non ha trovato di meglio da fare che impegnarsi in una scazzottata al bar che gli procurerà solo problemi con la polizia.
Per evitarli decide allora di mettersi lo zaino in spalla e partire per l'Europa , destinazione Italia e un po' per caso , un po' per volontà finisce in un ameno paesello pugliese, Polignano a Mare.
Qui trova vitto e alloggio dal vecchio Angelo in cambio di lavori di campagna e conosce la bella e misteriosa Louise, bella come il sole ma sfuggente come il vento.
E ne ha ben donde: ha un segreto millenario da nascondere ed Evan deve decidere se rischiare la vita o meno per venirne a conoscenza.
Justin Benson e Aaron Moorhead (Benson scrive e dirige, Moorhead dirige, monta e fotografa) sono un duo di cineasti americani che ha fatto alzare il sopracciglio a più di un critico cinematografico e a più di un fan dell'horror con un film di tre anni fa , Resolution che aveva fatto parlare di sé per la sua ricerca di soluzioni originali soprattutto in campo sostanziale inserendosi in quel discorso metacinematografico che aveva fatto la fortuna ad esempio di un film come Cabin In the Woods.
Tale era stata la risonanza di Resolution che il passo successivo del duo, il corto Bonestorm dell'antologia found footage V/H/S Viral, un corto francamente brutto e monotono, non all'altezza del loro luminoso esordio, era stato fatto passare quasi sotto silenzio, quasi non appartenesse a loro.
E in un certo senso non gli apparteneva visto il loro nuovo film, Spring che torna sui territori battuti nel loro esordio.
Certamente si tratta di due film molto diversi tra loro, forse anche difficilmente confrontabili.
La cosa che si nota è che il duo cerca di rifuggire la banalità della soluzione facile e lavora molto più sulla suggestione del non visto che sul meccanismo ansiogeno in se stesso.
Cosa che succedeva anche in Resolution che però chiedeva, cercava a tutti i costi la complicità con uno spettatore attivamente partecipante.
Spring , esattamente come Resolution è un film che fa della scrittura ben orchestrata e armonizzata il suo punto di forza, è girato con una manciata di soldini molto più fornita rispetto alla loro pellicola di debutto( e questo si vede nella confezione ) e soprattutto osa la trasferta in terra straniera .
E' girato in Italia per la sua quasi totalità e questo ce lo fa sentire un po' più vicino.
La prima cosa che si nota con piacere è che sembra finalmente finito il tempo in cui per gli americani siamo solamente pasta , pizza e mandolino.
Benson e Moorhead sembrano rispettarci più di quanto accade di solito nella considerazione dell'americano all'estero, riescono a ritrarre un paesino del sud senza incorrere nei classici stereotipi dell'ignorantone a stelle e strisce in trasferta europea.
Sarà il fascino dei luoghi ( la campagna pugliese e Polignano a Mare sono veramente un bel vedere) che alimenta quell'aura di magia che si nasconde nelle pieghe della storia del film, sarà il voler sfuggire a certi clichè da film horror, sarà che abbiamo finalmente due protagonisti che oltre ad essere adulti anagraficamente lo sono anche cerebralmente , con Spring ci troviamo di fronte a un film maturo e consapevole che mette in mostra uno stile ben definito ad opera di due giovani cineasti che se continueranno per questa strada ce ne potranno raccontare di belle, se non di bellissime.
Evan e Louise sono una coppia convincente, Lou Taylor Pucci e Nadia Hilker sono ben assortiti tra di loro sia fisicamente nella loro diversità ( lui mingherlino, un po' slavato e chiaro di carnagione, lei con una struttura fisica importante e dall'aspetto tipicamente mediterraneo), sia nella scrittura dei rispettivi personaggi,
problematici ed insicuri quanto si vuole ma capaci e consapevoli di fare scelte adulte e non scontate.
L'interrogativo che sta alla base del film è sempre il solito: si può fare veramente tutto per amore?
Una questione non da film horror ma più da melodramma ed effettivamente nell'ultima parte del film, quella in cui l'orrore dovrebbe venire finalmente fuori secondo tutti gli stilemi del genere, Benson e Moorhead abbandonano la via maestra per raccontare altro, un amore infelice , un qualcosa difficile da spiegare senza spoilerare troppo e rovinare il piacere della visione.
E vanno bene anche gli spiegoni a cui veniamo sottoposti, sinceramente passano delicatamente in secondo piano proprio per il momento in cui sono raccontati, un momento in cui anche Evan pensa ad altro, sta cercando di elaborare quanto gli è appena successo.
Spiegoni finto illuminanti che in realtà lasciano tutto in sospeso.
La cosa che posso imputare a Spring è un certo abuso della sospensione di incredulità da parte dello spettatore.Le cose strane che succedono a Polignano a Mare sembrano non interessare nessuno come se stessimo in una città di centinaia di migliaia di abitanti e in spazi sconfinati come gli States.
E' proprio questo senso dello spazio ristretto che manca ai due, non lo conoscono, non lo possono conoscere, non possono essere edotti riguardo a un paesino in cui tutti conoscono tutti e in cui una come Louise non sarebbe certo passata inosservata.
E neanche Evan che va in giro per il centro del paese senza che nessuno lo guardi, sembra quasi una lastra di vetro trasparente attraverso cui tutti guardano.
In un paesino della provincia pugliese due come loro non possono passare inosservati.
Così come è veramente improbabile trovare qualcuno che parli l'inglese così scioltamente come il vecchio Angelo e che sopratutto parli l'italiano con quell'accento troppo neutro per essere credibile.
Mi si potrà ribattere che sto parlando di classiche piccolezze da italiano provinciale che non si accontenta mai, forse in un certo senso è così ma sono piccole cose che hanno attirato la mia attenzione, come quando trovo un bicchiere non perfettamente pulito nel ristorante in cui sto mangiando.
Il cibo è buono lo stesso ma quello sporco nel bicchiere un po' mi inquieta.
Spring è comunque un film importante, un horror che vuole parlare di sentimenti senza per questo essere sciocco e stucchevole , anzi con quella intrigante ambizione di raccontare una di quelle storie larger than life che qui a bottega piacciono tanto.
E' bella la storia d'amore tra Evan e Louise, è raccontata in modo splendido ed incorniciata ottimamente su uno sfondo da favola.
Spring comunque ha un genere di cui è figlio e non lo dimentica assolutamente con degli effetti speciali usati con parsimonia ma forse per questo ancora più efficaci.
Spring racconta di un mostro consapevole di esserlo: di un freak dolente e solitario che non può permettersi di innamorarsi.
Eppure decide di farlo e trova qualcuno che è disposto a condividere questo frammento di eternità .
Insieme.
Fino all'ultimo.
Nonostante tutto.
PERCHE' SI : un horror romantico come pochi, due attori che manifestano il giusto grado di alchimia, uno sfondo ambientale bellissimo utilizzato nel migliore dei modi.
PERCHE' NO : nonostante il cercare di sfuggire agli stereotipi sugli italiani da parte del classico americano all'estero, qualcosa stona: il senso dello spazio ristretto della provincia italiana in cui tutti sanno di tutti, due come Evan e Louise non possono passare inosservati come succede nel film, troppi spiegoni nella seconda parte del film.
LA SEQUENZA : Evan arriva a casa e trova Louise in un momento un po' particolare...
DA QUESTO FILM HO CAPITO CHE :
forse per gli americani non siamo più il classico Paese della pasta, della pizza e del mandolino,
quando riscendo in Puglia una sosta a Polignano a Mare la devo assolutamente fare,
amore e horror possono andare a braccetto nello stesso film,
ci sono tedesche ( Nadia Hilker) che sembrano più mediterranee delle italiane.
( VOTO : 7,5 / 10 )
I miei occhi sono pieni delle cicatrici dei mille e mille film che hanno visto.
Il mio cuore ancora porta i segni di tutte le emozioni provate.
La mia anima è la tabula rasa impressionata giorno per giorno,a 24 fotogrammi al secondo.
Cinema vicino e lontano, visibile e invisibile ma quello lontano e invisibile un po' di più.
martedì 31 marzo 2015
lunedì 30 marzo 2015
'71 ( 2014 )
Inghilterra 1971 : Gary Hook è una recluta dell'esercito inglese inviata a Belfast proprio dove è scoppiata la maggior parte degli scontri tra cattolici e protestanti.Gli dicono che è fortunato perché non viene mandato fuori dell'Inghilterra ma lui non si sente proprio così: anzi nota che la situazione politica non è così semplice come gliela avevano prospettata ( i cattolici cattivi da una parte che appartengono all'IRA e i protestanti lealisti da proteggere).
Scopre che nell'IRA sta infuriando una lotta intestina, che non tutti i cattolici sono così interessati al conflitto ma soprattutto che ci sono ufficiali dell'esercito britannico sotto copertura che sono implicati in attentati di cui incolpare l'IRA.
E tutto questo lo scopre quando durante un normale servizio di perquisizione rimane isolato dalla sua squadra e deve sopravvivere attraverso le infide strade di Belfast.
Il cinema ha affrontato più volte di petto la questione nord irlandese proponendo film accorati e scomodi politicamente ad opera di autori come Sheridan ed anche Loach.
Così come qualche anno fa uscì un piccolo film che ebbe molta risonanza intitolato Bloody Sunday, firmato da Paul Greengrass, che raccontava le vicende della "domenica di sangue" del gennaio 1972 in cui l'esercito inglese sparò sulla folla inerme uccidendo 13 persone.
Un film intitolato semplicemente '71, dall'anno in cui è ambientato, diretto da Yann Demange, regista attivo fino ad ora solo in televisione e scritto da Gregory Burke, anche lui di fatto esordiente al cinema, ha tutti i crismi della necessarietà.
Serve per ricordare, per non diluire nell'oblio della memoria tutto quello che è accaduto in quella terra in quei terribili anni, un conflitto millenario che ha insanguinato le strade irlandesi e nord irlandesi per tanto, troppo tempo.
E lo fa da una prospettiva inedita, quella di una giovane recluta dell'esercito inglese che parte per Belfast con un'idea in testa ed è costretto a cambiarla strada facendo.
Perché non è tutto bianco o nero come lo avevano indottrinato: in mezzo ci sono moltissime tonalità di grigio a rendere la situazione più esplosiva.
Stilisticamente '71 prende le mosse proprio da Bloody Sunday: molta macchina a mano, telecamera che coglie con i suoi movimenti la concitazione dei vari momenti narrati, fotografia sporca, granulosa che fa tanto documentario.
Poi quando Gary Hook si trova a combattere per la propria vita vagando per le strade ostili di Belfast, comincia un altro film, sia dal punto di vista formale che sostanziale.
La fotografia è più nitida, la telecamera molto più stabile, emergono le sfaccettature e i ruoli dei personaggi in scena.
Viene fuori il torbido , il marciume della situazione politica, la complessità di cui abbiamo accennato prima.
Gary Hook è stranito, non sa più da che parte sta, è come una preda che non sa più dove andare per sfuggire al predatore che la sta inseguendo.
Ma oltre a questo viene fuori anche la speranza, l'ancorarsi alle nuove leve, ai bambini che spesso dimostrano più senso civico degli adulti, oppure anche alla gente normale, quella che farebbe volentieri a meno di ogni conflitto, che si adopera per aiutare un altro essere umano, indipendentemente dal colore della divisa che indossa.
Il corpo e l'anima di Gary Hook, sempre più sfregiati emergono in un finale in cui tutto il marciume torna di nuovo in superficie, mettendosi in brutta mostra.
Hook suo malgrado diventa il soldato Ryan di Belfast, un simbolo da salvare per dare qualcosa in pasto all'opinione pubblica.
Almeno in apparenza , perché il buon Gary si accorge ben presto che vale politicamente più da morto che da vivo.
E se il giochino non riesce, lui e questa storia devono essere adeguatamente nascosti, come la polvere sotto il tappeto.
'71 è un film necessario , come già affermato prima, ma non il solito polpettone a tesi che chiede solo approvazione da parte di uno spettatore mediamente distratto e consenziente.
Occorre uno spettatore attento e che si indigni per un film che coniuga alla perfezione impegno civile e senso dello spettacolo.
Chapeau!
PERCHE' SI : la questione nord irlandese viene esaminata da una prospettiva diversa, regia intensa e volitiva, film che coniuga alla perfezione impegno civile e senso dello spettacolo
PERCHE' NO : la telecamera a mano nelle prime fasi del film può scoraggiare qualcuno, alcuni personaggi necessariamente sono compressi , per il resto non riesco a trovargli difetti.
LA SEQUENZA : parecchie da ricordare, l'uccisione a bruciapelo del soldato inglese, la sutura a vivo , l'inseguimento a piedi nei vicoli, l'attentato al pub
DA QUESTO FILM HO CAPITO CHE :
Il bene e il male spesso sono distribuiti da entrambe le parti della barricata
Cattolici o protestanti quando si trattava di menare le mani o spararsi se ne fregavano della religione.
Essere soldato inglese in quegli anni non era cosa bella.
Abitare a Belfast in quegli anni era cosa ancora meno bella.
( VOTO : 8 / 10 )
Scopre che nell'IRA sta infuriando una lotta intestina, che non tutti i cattolici sono così interessati al conflitto ma soprattutto che ci sono ufficiali dell'esercito britannico sotto copertura che sono implicati in attentati di cui incolpare l'IRA.
E tutto questo lo scopre quando durante un normale servizio di perquisizione rimane isolato dalla sua squadra e deve sopravvivere attraverso le infide strade di Belfast.
Il cinema ha affrontato più volte di petto la questione nord irlandese proponendo film accorati e scomodi politicamente ad opera di autori come Sheridan ed anche Loach.
Così come qualche anno fa uscì un piccolo film che ebbe molta risonanza intitolato Bloody Sunday, firmato da Paul Greengrass, che raccontava le vicende della "domenica di sangue" del gennaio 1972 in cui l'esercito inglese sparò sulla folla inerme uccidendo 13 persone.
Un film intitolato semplicemente '71, dall'anno in cui è ambientato, diretto da Yann Demange, regista attivo fino ad ora solo in televisione e scritto da Gregory Burke, anche lui di fatto esordiente al cinema, ha tutti i crismi della necessarietà.
Serve per ricordare, per non diluire nell'oblio della memoria tutto quello che è accaduto in quella terra in quei terribili anni, un conflitto millenario che ha insanguinato le strade irlandesi e nord irlandesi per tanto, troppo tempo.
E lo fa da una prospettiva inedita, quella di una giovane recluta dell'esercito inglese che parte per Belfast con un'idea in testa ed è costretto a cambiarla strada facendo.
Perché non è tutto bianco o nero come lo avevano indottrinato: in mezzo ci sono moltissime tonalità di grigio a rendere la situazione più esplosiva.
Stilisticamente '71 prende le mosse proprio da Bloody Sunday: molta macchina a mano, telecamera che coglie con i suoi movimenti la concitazione dei vari momenti narrati, fotografia sporca, granulosa che fa tanto documentario.
Poi quando Gary Hook si trova a combattere per la propria vita vagando per le strade ostili di Belfast, comincia un altro film, sia dal punto di vista formale che sostanziale.
La fotografia è più nitida, la telecamera molto più stabile, emergono le sfaccettature e i ruoli dei personaggi in scena.
Viene fuori il torbido , il marciume della situazione politica, la complessità di cui abbiamo accennato prima.
Gary Hook è stranito, non sa più da che parte sta, è come una preda che non sa più dove andare per sfuggire al predatore che la sta inseguendo.
Ma oltre a questo viene fuori anche la speranza, l'ancorarsi alle nuove leve, ai bambini che spesso dimostrano più senso civico degli adulti, oppure anche alla gente normale, quella che farebbe volentieri a meno di ogni conflitto, che si adopera per aiutare un altro essere umano, indipendentemente dal colore della divisa che indossa.
Il corpo e l'anima di Gary Hook, sempre più sfregiati emergono in un finale in cui tutto il marciume torna di nuovo in superficie, mettendosi in brutta mostra.
Hook suo malgrado diventa il soldato Ryan di Belfast, un simbolo da salvare per dare qualcosa in pasto all'opinione pubblica.
Almeno in apparenza , perché il buon Gary si accorge ben presto che vale politicamente più da morto che da vivo.
E se il giochino non riesce, lui e questa storia devono essere adeguatamente nascosti, come la polvere sotto il tappeto.
'71 è un film necessario , come già affermato prima, ma non il solito polpettone a tesi che chiede solo approvazione da parte di uno spettatore mediamente distratto e consenziente.
Occorre uno spettatore attento e che si indigni per un film che coniuga alla perfezione impegno civile e senso dello spettacolo.
Chapeau!
PERCHE' SI : la questione nord irlandese viene esaminata da una prospettiva diversa, regia intensa e volitiva, film che coniuga alla perfezione impegno civile e senso dello spettacolo
PERCHE' NO : la telecamera a mano nelle prime fasi del film può scoraggiare qualcuno, alcuni personaggi necessariamente sono compressi , per il resto non riesco a trovargli difetti.
LA SEQUENZA : parecchie da ricordare, l'uccisione a bruciapelo del soldato inglese, la sutura a vivo , l'inseguimento a piedi nei vicoli, l'attentato al pub
DA QUESTO FILM HO CAPITO CHE :
Il bene e il male spesso sono distribuiti da entrambe le parti della barricata
Cattolici o protestanti quando si trattava di menare le mani o spararsi se ne fregavano della religione.
Essere soldato inglese in quegli anni non era cosa bella.
Abitare a Belfast in quegli anni era cosa ancora meno bella.
( VOTO : 8 / 10 )
Etichette:
action,
Cinema inglese,
drammatico,
thriller
domenica 29 marzo 2015
Playlist: i miei 10 film on the road
Eccoci al consueto appuntamento con la playlist domenicale e stavolta, in previsione del viaggetto pasquale che mi aspetta la settimana prossima e della colonna sonora che già sto preparando per il sommo scorno della bradipa e dei bradipini che mi stanno vedendo armeggiare con i nuovi di Enslaved , Solefald e altri che al solo nominarli vengono loro i brividi e sbiancano in faccia, cercherò di parlare dei miei film on the road preferiti.
Credevo fosse un compito facile facile e invece mi sono gettato dentro una fossa di serpenti per i titoli che ho tirato fuori e che ho dovuto dolorosamente scremare a costo di portare via un pezzettino del mio cuore.
All'ultima scrematura sono partiti un paio di film di Wenders, un paio di Peckinpah ( e non robetta ma filmoni come Convoy- Trincea d'asfalto e Voglio la testa di Garcia), uno Scorsese di quelli che più mi ha preso il cuore (Alice non abita più qui), il leggendario Punto Zero di Richard C.Sarafian e tanti , tanti altri.
Raramente sono stato così in difficoltà per stilare un top ten.
Cominciamo che l'ora si è fatta tarda visto anche il cambiamento d'orario.
10 ) LITTLE MISS SUNSHINE
Un piccolo must per cinefili, una deliziosa galleria di ritratti che va dall'ironico al sarcastico, un personaggio fenomenale come quello del nonno interpretato da Arkin e un'America vittima di una satira velenosa e consapevole parlando di semplici concorsi per bambine.
Bambine che sono dei piccoli mostri, inquietanti .
E l'America che le ostenta è ancora più inquietante.
Si ride spesso in Little Miss Sunshine, ma si ride a denti strettissimi.
9) SUGARLAND EXPRESS
Per molti, quasi tutti, Spielberg probabilmente aveva dato il meglio in questo genere realizzando Duel, film apprezzatissimo qui a bottega.
Ma Sugarland Express si è portato via un pezzetto di cuore. Spielberg sceglie di raccontare l'America facendola vedere dai finestrini dell'auto di Clovis e Lou che cercano disperatamente di recuperare loro figlio dato in adozione.
Lo fa scegliendo il genere americano per eccellenza, alla pari del western e accumulando suggestioni e critiche a un Paese troppo grande per non essere ricco di contraddizioni.
Goldie Hawn è favolosa, forse non è stata più così brava.
8) UN MONDO PERFETTO
Clint Easwood aveva raccontato l'America on the road in maniera scherzosa da attore in due piccoli film in cui aveva avuto molta voce in capitolo nel processo creativo, ovvero Filo da torcere e Fai come ti pare in cui interpretava il personaggio di Phil Beddoe, romantico e disilluso , che girava l'America facendo incontri di boxe a mani nude. Il tutto rigorosamente illegale ma un mondo fatto di allegri svitati e di incontri occasionali che allietano la vita. Ben diversa dall'America anni '60 narrata in Un mondo perfetto in cui un criminale gira l'America dopo aver rapito un bambino.
Tutto filtrato da un'aura di tristezza ben palpabile, una malinconia struggente che ti prende il cuore e ti fa vedere questo lembo di Texas con occhi diversi.
E quel finale...
7) CUORE SELVAGGIO
Mi permetto di autocitarmi. " Il fuoco cammina con Sailor e Lula, il fuoco li arde da dentro , la
passione che hanno l'uno dell'altra,il respirare l'una l'aria dell'altro, il condividere lo stesso spazio vitale.
Sailor e Lula fuggono, hanno in tasca una manciata di dollari, una decappottabile sotto il sedere e un biglietto di sola andata per il Texas.
Una fuga in cui lo sfondo è importante come quello che c'è in primo piano.
E lo sfondo è l'America sabbiosa e polverosa, quella per cui il tempo sembra non passare mai, incastrata in una dimensione altra e che vive a una velocità diversa dal resto del mondo.
Le ossessioni del cinema di David Lynch sono già tutte presenti, come rapide pennellate di un impressionista, improvvisi flash che lascerano lo schermo come rasoiate chirurgiche in tutta la loro furia cromatica e in tutta la loro violenza espressiva."
6) EASY RIDER
Non servono le mie parole indegne per parlare di questo film che è un po' il simbolo e la summa di tutti i film on the road.
Bastano quelle degli Steppenwolf e della loro immortale Born to be wild
"Get your motor runnin'
Head out on the highway
Looking for adventure
In whatever comes our way
Gonna make it happen
Take the wolrd in a love embrace
fire all of your guns at once
And explode into space
I like smoke and lightinin'
Heavy metal thunder
Racing in the wind
And the feeling that I'm under (...)
Born to be wild
5) LA RABBIA GIOVANE
Malick prima di perdersi nel delirio dell'autocompiacimento e nell'iperattivisimo di questa sua ultima parte di carriera era un cineasta vigoroso e visionario, ma di quella visionarietà terragna che poco o nulla ha da spartire con sofismi di ogni genere.
Martin Sheen e Sissy Spacek si aggirano nelle Badlands ( il titolo originale) del South Dakota disseminando la loro strada di sangue come se non ci fosse un domani.
Ed effettivamente il domani non c'è.
Film che deve essere presente in ogni videoteca che si rispetti.
4) NEBRASKA
Alexander Payne è un regista che ha il road movie esistenziale come principale cifra stilistica.
Racconta un America fatta di non luoghi, di rifugi dell'anima.
Nebraska è l'ultimo fulgido esempio di questo suo modo di fare cinema.
Ma avrei potuto tranquillamente includere in questa classifica Sideways o A proposito di Schmidt.
Continuo nella vergognosa pratica dell'autocitazione.
" Il Nebraska più che un dettaglio geografico diventa quasi un approdo mitologico per anime perdute, lo sfondo ideale per una ballata folk suonata con poche, ma decise pennellate di plettro su una chitarra acustica un po' scordata che intona una melodia malinconica.
Bruce Springsteen qualche anno fa cantava il Nebraska da dentro il suo studio di registrazione, ora anche Payne lo fa in un bianco e nero morbido e avvolgente, struggente e sfuggente allo sguardo.
Il Nebraska è ovunque e in nessun luogo.
Tutti noi, forse, abbiamo un pezzetto di Nebraska nel cuore.
Tutto sta a ritrovarlo."
3) THELMA E LOUISE
L'unico road movie virato al femminile di questa classifica.
Femminista ma in modo intelligente e mai ruffiano con due protagoniste indimenticabili esattamente come quel salto nel vuoto che compiono con la loro auto alla fine del film.
Ma forse il vero salto nel vuoto lo avevano fatto all'inizio del film , nell'intraprendere quel viaggio al buio che voleva dire finalmente emancipazione, indipendenza, sogno.
Un sogno da vivere fino in fondo.
La loro Thunderbird del '66 entra direttamente nel mito....
2) UNA STORIA VERA
Ancora Lynch e ancora un film on the road.
Ancora un film diverso da quelli che lo hanno reso famoso e peculiare nella storia del cinema.
Un road movie che procede alla massima velocità di un tagliaerbe, cinque miglia all'ora , che si trasforma in un elogio della lentezza quando ancora di slow food, slow wine e slow tutto non si parlava ancora.
Si parlava solo della slow hand di Eric Clapton.
L'America che racconta è diversa da quella polverosa di Cuore Selvaggio, è serena e riconciliata, piena di paesini in cui tutti conoscono tutti e sono pronti sempre a darsi una mano l'uno con l'altro, di aria pulita , di notti limpide e di cieli stellati. E poi c'è lui, Alvin Straight, con la
schiena dritta nonostante gli acciacchi e con una volontà incrollabile di portare a termine il suo viaggio.
Solo 317 miglia ma a cinque miglia all'ora sembrano molte di più....
1) IL SORPASSO
Più che un film un simbolo dell'Italia rampante degli anni '60, dove per le strade si faceva a gara a chi aveva la macchina più veloce e potente.
E se ce l'ha Bruno una macchina veloce e potente allora non ce n'è per nessuno.Gassman nel personaggio della sua vita, un 'Aurelia decappottabile che fugge da una Roma assolata e deserta per festeggiare il Ferragosto al mare .
E non sopporta che una volgare Fiat 600 stia davanti alla sua macchina.
Risi come spesso gli è accaduto nella sua carriera coglie la vera essenza dell'Italia lontano da velleità sociologiche d'accatto, ma raccontandone la pancia , il fermento che la agita dal basso della rusticità
popolana.
Il litorale tirrenico è la strada verso il boom economico che la nostra italietta sta vivendo in quegli anni.Bruno Cortona è racchiuso in quel dialogo all'inizio del film quando prende in mano e guarda una fotografia dicendo " Ma chi è 'sta cicciona?" Roberto, il timido studentello gli risponde " E' mia madre" E Bruno " Bella donna!"
Bruno Cortona è uno di noi.
Sarà sempre uno di noi.
Sempre.
E anche per stavolta ho finito di delirare.
Enjoy!!!
Credevo fosse un compito facile facile e invece mi sono gettato dentro una fossa di serpenti per i titoli che ho tirato fuori e che ho dovuto dolorosamente scremare a costo di portare via un pezzettino del mio cuore.
All'ultima scrematura sono partiti un paio di film di Wenders, un paio di Peckinpah ( e non robetta ma filmoni come Convoy- Trincea d'asfalto e Voglio la testa di Garcia), uno Scorsese di quelli che più mi ha preso il cuore (Alice non abita più qui), il leggendario Punto Zero di Richard C.Sarafian e tanti , tanti altri.
Raramente sono stato così in difficoltà per stilare un top ten.
Cominciamo che l'ora si è fatta tarda visto anche il cambiamento d'orario.
10 ) LITTLE MISS SUNSHINE
Un piccolo must per cinefili, una deliziosa galleria di ritratti che va dall'ironico al sarcastico, un personaggio fenomenale come quello del nonno interpretato da Arkin e un'America vittima di una satira velenosa e consapevole parlando di semplici concorsi per bambine.
Bambine che sono dei piccoli mostri, inquietanti .
E l'America che le ostenta è ancora più inquietante.
Si ride spesso in Little Miss Sunshine, ma si ride a denti strettissimi.
9) SUGARLAND EXPRESS
Per molti, quasi tutti, Spielberg probabilmente aveva dato il meglio in questo genere realizzando Duel, film apprezzatissimo qui a bottega.
Ma Sugarland Express si è portato via un pezzetto di cuore. Spielberg sceglie di raccontare l'America facendola vedere dai finestrini dell'auto di Clovis e Lou che cercano disperatamente di recuperare loro figlio dato in adozione.
Lo fa scegliendo il genere americano per eccellenza, alla pari del western e accumulando suggestioni e critiche a un Paese troppo grande per non essere ricco di contraddizioni.
Goldie Hawn è favolosa, forse non è stata più così brava.
8) UN MONDO PERFETTO
Clint Easwood aveva raccontato l'America on the road in maniera scherzosa da attore in due piccoli film in cui aveva avuto molta voce in capitolo nel processo creativo, ovvero Filo da torcere e Fai come ti pare in cui interpretava il personaggio di Phil Beddoe, romantico e disilluso , che girava l'America facendo incontri di boxe a mani nude. Il tutto rigorosamente illegale ma un mondo fatto di allegri svitati e di incontri occasionali che allietano la vita. Ben diversa dall'America anni '60 narrata in Un mondo perfetto in cui un criminale gira l'America dopo aver rapito un bambino.
Tutto filtrato da un'aura di tristezza ben palpabile, una malinconia struggente che ti prende il cuore e ti fa vedere questo lembo di Texas con occhi diversi.
E quel finale...
7) CUORE SELVAGGIO
Mi permetto di autocitarmi. " Il fuoco cammina con Sailor e Lula, il fuoco li arde da dentro , la
passione che hanno l'uno dell'altra,il respirare l'una l'aria dell'altro, il condividere lo stesso spazio vitale.
Sailor e Lula fuggono, hanno in tasca una manciata di dollari, una decappottabile sotto il sedere e un biglietto di sola andata per il Texas.
Una fuga in cui lo sfondo è importante come quello che c'è in primo piano.
E lo sfondo è l'America sabbiosa e polverosa, quella per cui il tempo sembra non passare mai, incastrata in una dimensione altra e che vive a una velocità diversa dal resto del mondo.
Le ossessioni del cinema di David Lynch sono già tutte presenti, come rapide pennellate di un impressionista, improvvisi flash che lascerano lo schermo come rasoiate chirurgiche in tutta la loro furia cromatica e in tutta la loro violenza espressiva."
6) EASY RIDER
Non servono le mie parole indegne per parlare di questo film che è un po' il simbolo e la summa di tutti i film on the road.
Bastano quelle degli Steppenwolf e della loro immortale Born to be wild
"Get your motor runnin'
Head out on the highway
Looking for adventure
In whatever comes our way
Gonna make it happen
Take the wolrd in a love embrace
fire all of your guns at once
And explode into space
I like smoke and lightinin'
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Racing in the wind
And the feeling that I'm under (...)
Born to be wild
5) LA RABBIA GIOVANE
Malick prima di perdersi nel delirio dell'autocompiacimento e nell'iperattivisimo di questa sua ultima parte di carriera era un cineasta vigoroso e visionario, ma di quella visionarietà terragna che poco o nulla ha da spartire con sofismi di ogni genere.
Martin Sheen e Sissy Spacek si aggirano nelle Badlands ( il titolo originale) del South Dakota disseminando la loro strada di sangue come se non ci fosse un domani.
Ed effettivamente il domani non c'è.
Film che deve essere presente in ogni videoteca che si rispetti.
4) NEBRASKA
Alexander Payne è un regista che ha il road movie esistenziale come principale cifra stilistica.
Racconta un America fatta di non luoghi, di rifugi dell'anima.
Nebraska è l'ultimo fulgido esempio di questo suo modo di fare cinema.
Ma avrei potuto tranquillamente includere in questa classifica Sideways o A proposito di Schmidt.
Continuo nella vergognosa pratica dell'autocitazione.
" Il Nebraska più che un dettaglio geografico diventa quasi un approdo mitologico per anime perdute, lo sfondo ideale per una ballata folk suonata con poche, ma decise pennellate di plettro su una chitarra acustica un po' scordata che intona una melodia malinconica.
Bruce Springsteen qualche anno fa cantava il Nebraska da dentro il suo studio di registrazione, ora anche Payne lo fa in un bianco e nero morbido e avvolgente, struggente e sfuggente allo sguardo.
Il Nebraska è ovunque e in nessun luogo.
Tutti noi, forse, abbiamo un pezzetto di Nebraska nel cuore.
Tutto sta a ritrovarlo."
3) THELMA E LOUISE
L'unico road movie virato al femminile di questa classifica.
Femminista ma in modo intelligente e mai ruffiano con due protagoniste indimenticabili esattamente come quel salto nel vuoto che compiono con la loro auto alla fine del film.
Ma forse il vero salto nel vuoto lo avevano fatto all'inizio del film , nell'intraprendere quel viaggio al buio che voleva dire finalmente emancipazione, indipendenza, sogno.
Un sogno da vivere fino in fondo.
La loro Thunderbird del '66 entra direttamente nel mito....
2) UNA STORIA VERA
Ancora Lynch e ancora un film on the road.
Ancora un film diverso da quelli che lo hanno reso famoso e peculiare nella storia del cinema.
Un road movie che procede alla massima velocità di un tagliaerbe, cinque miglia all'ora , che si trasforma in un elogio della lentezza quando ancora di slow food, slow wine e slow tutto non si parlava ancora.
Si parlava solo della slow hand di Eric Clapton.
L'America che racconta è diversa da quella polverosa di Cuore Selvaggio, è serena e riconciliata, piena di paesini in cui tutti conoscono tutti e sono pronti sempre a darsi una mano l'uno con l'altro, di aria pulita , di notti limpide e di cieli stellati. E poi c'è lui, Alvin Straight, con la
schiena dritta nonostante gli acciacchi e con una volontà incrollabile di portare a termine il suo viaggio.
Solo 317 miglia ma a cinque miglia all'ora sembrano molte di più....
1) IL SORPASSO
Più che un film un simbolo dell'Italia rampante degli anni '60, dove per le strade si faceva a gara a chi aveva la macchina più veloce e potente.
E se ce l'ha Bruno una macchina veloce e potente allora non ce n'è per nessuno.Gassman nel personaggio della sua vita, un 'Aurelia decappottabile che fugge da una Roma assolata e deserta per festeggiare il Ferragosto al mare .
E non sopporta che una volgare Fiat 600 stia davanti alla sua macchina.
Risi come spesso gli è accaduto nella sua carriera coglie la vera essenza dell'Italia lontano da velleità sociologiche d'accatto, ma raccontandone la pancia , il fermento che la agita dal basso della rusticità
popolana.
Il litorale tirrenico è la strada verso il boom economico che la nostra italietta sta vivendo in quegli anni.Bruno Cortona è racchiuso in quel dialogo all'inizio del film quando prende in mano e guarda una fotografia dicendo " Ma chi è 'sta cicciona?" Roberto, il timido studentello gli risponde " E' mia madre" E Bruno " Bella donna!"
Bruno Cortona è uno di noi.
Sarà sempre uno di noi.
Sempre.
E anche per stavolta ho finito di delirare.
Enjoy!!!
sabato 28 marzo 2015
A Girl Walks Home Alone at Night
A Bad City , città iraniana tetra e oscura vive Arash che con i suoi risparmi ha comprato una bellissima auto anni '50.
Saeed spacciatore di pochi scrupoli che fornisce droga la padre di Arash gliela toglie in nome dei debiti che il padre ha , ma incontra una misteriosa ragazza che lui tenta di sedurre.
O forse è il contrario, la ragazza che indossa un lungo chador nero in realtà è un vampiro che succhia il sangue ai derelitti e un delinquente come Saeed è perfetto per essere vampirizzato e derubato.
Restituisce la macchina ad Arash e lui si innamora di lei a una festa in maschera.
Lei non sa che cosa fare, il suo è un istinto predatorio e lui le offre il suo collo su un vassoio d'argento, ma è anche attratta da lui, in fondo il sangue può cercarlo in altra maniera.
Una cosa è certa, devono abbandonare Bad City...
Ok se fino a qualche tempo fa mi avessero detto che tra le mie visioni si sarebbe inserito un film di vampiri iraniano, recitato in persiano, ebbene lo avrei escluso in maniera categorica.
E invece...non c'entra l'alcool o qualche erba proibita...ho appena visto un film di vampiri persiano, recitato in persiano in cui il protagonista è un vampiro. Donna.
Quindi un bel calcione agli estremisti e agli integralisti religiosi, un film in cui la donna è il cardine di tutto.
Se andiamo a vedere i credits c'è però qualcosa che non quadra: tra i produttori c'è Elijah Wood, è girato nei dintorni di Los Angeles, è di fatto una produzione americana fatta da attori iraniani ( o come minimo di origine iraniana) e diretta da una regista persiana trapiantanta negli USA, Amy Lily Amipour che , dopo una caterva di corti, esordisce finalmente nel lungometraggio.
Ed esordisce col botto con un film che ha fatto il giro del mondo in molti festival specializzati raggranellando parecchi premi.
A Girl Walks Home Alone at Night è un film che è riduttivo definire horror.
Girato in un bianco e nero molto contrastato, parecchio stiloso, stracolmo di citazioni intelligenti e mai pedanti , è una storia d'amore in cui il vampirismo è parte fondamentale ma viene raccontato cercando di sottolineare la sua aura romantica e decadente più che la carica orrorifica , di tensione e di paura.
Si può fare un bellissimo film appartenente formalmente al genere horror ma senza uso ed abuso di sangue e frattaglie e il film di Amy Lily Amipour ne è la testimonianza sfavillante.
Ambientato in un non luogo di perdizione , una Bad City che riecheggia da vicino una versione live action della Sin City milleriana, è un film che sceglie più il silenzio e la suggestione che i dialoghi , ridotti all'osso , o la suspense spicciola fatta di trucchi beceri per innalzare la soglia della paura.
Sequenze genuinamente paurose ce ne sono anche , vedere per credere il primo incontro tra la ragazza vampiro e il ragazzino con lo skateboard ma sembrano più un vezzo per spezzare il ritmo placido della narrazione, un ulteriore sottolineatura dell'atmosfera sulfurea che si respira in una Bad City di nome e di fatto, nascosta nei dintorni di Los Angeles, oltre l'ultima frontiera western.
Situata proprio lì dove il confine del western finisce, appena fuori delle sue colonne d'Ercole.
Amy Lily Amipour è regista cinefila e si vede, come si vede dalle sue foto che si specchia nella protagonista, Sheila Vand, bella ma di una bellezza intensa e sfuggente, ragazza emancipata , molto hipster che però non rinuncia al suo chador quando nella notte si aggira per le vie deserte della città alla ricerca di prede.
Un vampiro con lo chador, abbigliato un po' come il Belfagor del famoso sceneggiato francese anni '60, ma accompagnato da un senso di colpa che le impedisce di predare un ragazzo come Arash, conosciuto a una festa in maschera in cui lui, ironia della sorte , impersonava il vampiro supremo, Dracula.
Accompagnato da una colonna sonora che va da echi morriconiani all'indie rock riletto con melodie arabeggianti, girato con uno stile che occhiegga da una parte al Jarmusch di Dead Man ( per l'uso di un bianco e nero molto contrastato) e di Solo gli amanti sopravvivono ( altro modo originale di raccontare una storia di vampiri, intensa e rarefatta allo stesso tempo), dall'altra al Coppola di Rumble Fish ma anche alla cinematografia di Sergio Leone, fatta di silenzi e di tempi dilatati e a quella on the road di Alexander Payne ( in fondo Bad City è un non luogo come il Nebraska o come l'America che si intravede dai finestrini dell'auto di Jack Nicholson in A proposito di Schmidt), A Girl Walks Home Alone at Night è un film ad alto contenuto di meafore che riesce comunque a essere originale non limitandosi solo a citare le influenze proposte ma rielaborandole in uno stile nuovo con punte inaspettate di kitsch ( Arash è un appassionato di anni '50 in Iran e va in giro conciato come un James Dean dei poveri) incastonate perfettamente in un idea di cinema ben salda, rigorosa.
E poi vedere un vampiro donna con lo chador e che usa lo skateboard è qualcosa di veramente mai visto.
Così come è dannatamente puccioso quel gattone che accompagna i due nella loro fuga e nella loro improbabile storia d'amore.
Già, una storia d'amore tra una vampira e un umano.
Ricorda qualcosa?
Ebbene si , ricorda uno dei più bei film sui vampiri di questi ultimi anni, Lasciami entrare.
E questo film ci è entrato, nel mio cuore.
PERCHE' SI : un film di vampiri originale, stilosissimo, protagonista che non si dimentica tanto facilmente , ottima fotografia in bianco e nero
PERCHE' NO : il fan puro e crudo dell'horror forse si annoierà, di sangue se ne vede veramente poco
LA SEQUENZA : il primo incontro con il bambino e l'uso dello skateboard, la sequenza con loro due in macchina e il gatto in mezzo a loro.
DA QUESTO FILM HO CAPITO CHE :
si può fare un film americano recitato in persiano scritto , diretto e recitato da persiani trapiantati negli USA
Il filone dell'horror vampiresco ha un nuovo modello da seguire
Sangue e frattaglie in un horror possono essere accessori non indispensabili
Vorrei sapere che cosa penserà l'ayatollah di turno dopo aver visto questo film.
( VOTO : 8 + / 10 )
Saeed spacciatore di pochi scrupoli che fornisce droga la padre di Arash gliela toglie in nome dei debiti che il padre ha , ma incontra una misteriosa ragazza che lui tenta di sedurre.
O forse è il contrario, la ragazza che indossa un lungo chador nero in realtà è un vampiro che succhia il sangue ai derelitti e un delinquente come Saeed è perfetto per essere vampirizzato e derubato.
Restituisce la macchina ad Arash e lui si innamora di lei a una festa in maschera.
Lei non sa che cosa fare, il suo è un istinto predatorio e lui le offre il suo collo su un vassoio d'argento, ma è anche attratta da lui, in fondo il sangue può cercarlo in altra maniera.
Una cosa è certa, devono abbandonare Bad City...
Ok se fino a qualche tempo fa mi avessero detto che tra le mie visioni si sarebbe inserito un film di vampiri iraniano, recitato in persiano, ebbene lo avrei escluso in maniera categorica.
E invece...non c'entra l'alcool o qualche erba proibita...ho appena visto un film di vampiri persiano, recitato in persiano in cui il protagonista è un vampiro. Donna.
Quindi un bel calcione agli estremisti e agli integralisti religiosi, un film in cui la donna è il cardine di tutto.
Se andiamo a vedere i credits c'è però qualcosa che non quadra: tra i produttori c'è Elijah Wood, è girato nei dintorni di Los Angeles, è di fatto una produzione americana fatta da attori iraniani ( o come minimo di origine iraniana) e diretta da una regista persiana trapiantanta negli USA, Amy Lily Amipour che , dopo una caterva di corti, esordisce finalmente nel lungometraggio.
Ed esordisce col botto con un film che ha fatto il giro del mondo in molti festival specializzati raggranellando parecchi premi.
A Girl Walks Home Alone at Night è un film che è riduttivo definire horror.
Girato in un bianco e nero molto contrastato, parecchio stiloso, stracolmo di citazioni intelligenti e mai pedanti , è una storia d'amore in cui il vampirismo è parte fondamentale ma viene raccontato cercando di sottolineare la sua aura romantica e decadente più che la carica orrorifica , di tensione e di paura.
Si può fare un bellissimo film appartenente formalmente al genere horror ma senza uso ed abuso di sangue e frattaglie e il film di Amy Lily Amipour ne è la testimonianza sfavillante.
Ambientato in un non luogo di perdizione , una Bad City che riecheggia da vicino una versione live action della Sin City milleriana, è un film che sceglie più il silenzio e la suggestione che i dialoghi , ridotti all'osso , o la suspense spicciola fatta di trucchi beceri per innalzare la soglia della paura.
Sequenze genuinamente paurose ce ne sono anche , vedere per credere il primo incontro tra la ragazza vampiro e il ragazzino con lo skateboard ma sembrano più un vezzo per spezzare il ritmo placido della narrazione, un ulteriore sottolineatura dell'atmosfera sulfurea che si respira in una Bad City di nome e di fatto, nascosta nei dintorni di Los Angeles, oltre l'ultima frontiera western.
Situata proprio lì dove il confine del western finisce, appena fuori delle sue colonne d'Ercole.
Amy Lily Amipour è regista cinefila e si vede, come si vede dalle sue foto che si specchia nella protagonista, Sheila Vand, bella ma di una bellezza intensa e sfuggente, ragazza emancipata , molto hipster che però non rinuncia al suo chador quando nella notte si aggira per le vie deserte della città alla ricerca di prede.
Un vampiro con lo chador, abbigliato un po' come il Belfagor del famoso sceneggiato francese anni '60, ma accompagnato da un senso di colpa che le impedisce di predare un ragazzo come Arash, conosciuto a una festa in maschera in cui lui, ironia della sorte , impersonava il vampiro supremo, Dracula.
Accompagnato da una colonna sonora che va da echi morriconiani all'indie rock riletto con melodie arabeggianti, girato con uno stile che occhiegga da una parte al Jarmusch di Dead Man ( per l'uso di un bianco e nero molto contrastato) e di Solo gli amanti sopravvivono ( altro modo originale di raccontare una storia di vampiri, intensa e rarefatta allo stesso tempo), dall'altra al Coppola di Rumble Fish ma anche alla cinematografia di Sergio Leone, fatta di silenzi e di tempi dilatati e a quella on the road di Alexander Payne ( in fondo Bad City è un non luogo come il Nebraska o come l'America che si intravede dai finestrini dell'auto di Jack Nicholson in A proposito di Schmidt), A Girl Walks Home Alone at Night è un film ad alto contenuto di meafore che riesce comunque a essere originale non limitandosi solo a citare le influenze proposte ma rielaborandole in uno stile nuovo con punte inaspettate di kitsch ( Arash è un appassionato di anni '50 in Iran e va in giro conciato come un James Dean dei poveri) incastonate perfettamente in un idea di cinema ben salda, rigorosa.
E poi vedere un vampiro donna con lo chador e che usa lo skateboard è qualcosa di veramente mai visto.
Così come è dannatamente puccioso quel gattone che accompagna i due nella loro fuga e nella loro improbabile storia d'amore.
Già, una storia d'amore tra una vampira e un umano.
Ricorda qualcosa?
Ebbene si , ricorda uno dei più bei film sui vampiri di questi ultimi anni, Lasciami entrare.
E questo film ci è entrato, nel mio cuore.
PERCHE' SI : un film di vampiri originale, stilosissimo, protagonista che non si dimentica tanto facilmente , ottima fotografia in bianco e nero
PERCHE' NO : il fan puro e crudo dell'horror forse si annoierà, di sangue se ne vede veramente poco
LA SEQUENZA : il primo incontro con il bambino e l'uso dello skateboard, la sequenza con loro due in macchina e il gatto in mezzo a loro.
DA QUESTO FILM HO CAPITO CHE :
si può fare un film americano recitato in persiano scritto , diretto e recitato da persiani trapiantati negli USA
Il filone dell'horror vampiresco ha un nuovo modello da seguire
Sangue e frattaglie in un horror possono essere accessori non indispensabili
Vorrei sapere che cosa penserà l'ayatollah di turno dopo aver visto questo film.
( VOTO : 8 + / 10 )
venerdì 27 marzo 2015
CUB-Piccole prede
Un gruppo di boyscout parte con il loro camion vecchio e scassato verso il campo estivo. Lo trovano occupato da due giovinastri per cui per non avere problemi si spostano in un bosco adiacente , una volta teatro di misteriosi fatti di sangue ( suicidi di operai di una vecchia fabbrica di autobus).Tra i boyscout c'è il dodicenne Sam , vittima di scherzi da parte dei suoi compagni e umiliato più volte in pubblico da Peter, uno dei tre adulti del gruppo, assieme a Chris e Jasmine.Parlano della leggenda di un bambino licantropo, Kai, ma Sam scopre che non si tratta di leggenda.
Il problema è che non gli crede nessuno che ci sia un mostro nel bosco.
Anche se i ragazzi cominciano a morire...
Man mano che vado avanti vedo che la cinematografia belga di genere, dal thriller all'horror, sta inanellando tutta una serie di buoni film e che stanno avendo buona risonanza internazionale.
Non esistono solo di Dardenne , insomma.
CUB-Piccole prede si inserisce in quella fascia di horror francofoni che vede in titoli come Calvaire, Frontiers e molti altri che hanno rianimato la scena horror europea.
Non è un caso che sia ambientato in un bosco al confine tra la Francia e il Belgio, non è un caso che la componente ambientale sia fondamentale per la costruzione del meccanismo orrorifico e che si inserisca in quegli stilemi che vanno dallo slasher al torture porn che hanno caratterizzato questa nuova ondata di horror all'europea.
Tutte pellicole con aspetto brutto , sporco e cattivo, peculiare, immediatamente riconoscibili dagli omologhi di oltroceano.
Non abbiamo come protagonisti i soliti fancazzisti idioti che sono perfetti per incarnare il ruolo di carne da macello e che continuano a fare minchiate in serie nella loro casetta dispersa nei boschi.
Qui ci sono dei bambini, esseri che per definizione fanno dell'innocenza il loro tratto distintivo.
Teoricamente.
E invece no: la parte che svicola di più e meglio dai soliti cliché di genere è la prima in cui viene descritta la quotidianità di questo gruppo di boyscout che non sono proprio l'epitome dell'innocenza.
Ok, ammetto di avere un certo pregiudizio verso i boyscout : mi hanno fatto sempre abbastanza paura con il loro aspetto da piccoli soldatini in divisa, tutti sincronizzati nei movimenti e sempre ordinatissimi in fila per due.
Ma la cosa che mi faceva più paura ( e mi fa paura anche oggi ) non erano tanto i bambini ma gli adulti che guidavano il gruppo, abbigliati come bambini, una tenuta che messa su un corpo adulto francamente oltrepassa la soglia del ridicolo e che cercavano di dare ai bambini che li seguivano un ordine, un'educazione civica ed ecologica.
Ecco, uno che cerca di darmi determinati insegnamenti abbigliato in quel modo , diciamo che non riesco a prenderlo sul serio.
Ma stiamo divagando e non stiamo parlando del film dell'esordiente al cinema Jonas Govaerts.
Sicuramente non faccio testo ma a causa dei miei pregiudizi mi ha suscitato molta più inquietudine la prima parte che descrive da vicino tutti i piccoli e grandi rituali che compongono la giornata tipo del boyscout rispetto alla seconda parte, quella in cui la deriva slasher e torture è ormai innescata e non c'è via di ritorno.
E soprattutto appare riuscita la caratterizzazione del personaggio di Sam che ha un trascorso tragico di cui intuiamo solo la portata e che ha un presente fatto di confusione ormonale ( il sentimento appena abbozzato che prova per Jasmine), vessazioni assortite e spirito di rivalsa che passa necessariamente attraverso il rapporto con il bau bau dei boschi, quel Kai che diventa la sua nemesi e il suo futuro tutto insieme.
Nella seconda parte CUB- Piccole prede abbandona quasi del tutto le sue ambizioni psicologiche , sociali ( il discorso sulla fabbrica degli autobus e sulla crisi economica) e metaforiche in favore di un meccanismo horror canonico, senza troppi guizzi che si muove all'interno di canoni estetici già codificati da altri.
Il tutto è scenograficamente d'impatto, con il solito spargimento di sangue e liquidi organici oltre la media, ma con un retrogusto che sa molto di deja vu.
E anche il finale si intuisce con un buon quarto d'ora d'anticipo.
Rimane la sensazione di aver conosciuto un regista promettente che sa dosare le varie anime del racconto e che appare decisamente consapevole dell'uso del mezzo espressivo.
Lo aspetto al varco.
PERCHE' SI : la prima parte è quella più inquietante, ambizioni psicologiche e metaforiche di un certo spessore, scenograficamente efficace anche dal punto di vista orrorifico, regia di buon livello
PERCHE' NO : a me ha fatto più paura la prima parte che la seconda che si presenta senza particolari guizzi di originalità, finale che si intuisce con un buon quarto d'ora d'anticipo.
LA SEQUENZA : il magazzino con tutte le vittime di anni e anni di omicidi
DA QUESTO FILM HO CAPITO CHE
Ho sempre avuto una paura matta dei boy scout e questo film me lo conferma
Il campeggio non fa per me
Puoi trovare il bullismo dappertutto.
Non iscriverò mai i miei figli ai boyscout.
Continuo a credere che in Belgio siano discretamente malati( con affetto naturalmente!).
( VOTO : 6 + / 10 )
Il problema è che non gli crede nessuno che ci sia un mostro nel bosco.
Anche se i ragazzi cominciano a morire...
Man mano che vado avanti vedo che la cinematografia belga di genere, dal thriller all'horror, sta inanellando tutta una serie di buoni film e che stanno avendo buona risonanza internazionale.
Non esistono solo di Dardenne , insomma.
CUB-Piccole prede si inserisce in quella fascia di horror francofoni che vede in titoli come Calvaire, Frontiers e molti altri che hanno rianimato la scena horror europea.
Non è un caso che sia ambientato in un bosco al confine tra la Francia e il Belgio, non è un caso che la componente ambientale sia fondamentale per la costruzione del meccanismo orrorifico e che si inserisca in quegli stilemi che vanno dallo slasher al torture porn che hanno caratterizzato questa nuova ondata di horror all'europea.
Tutte pellicole con aspetto brutto , sporco e cattivo, peculiare, immediatamente riconoscibili dagli omologhi di oltroceano.
Non abbiamo come protagonisti i soliti fancazzisti idioti che sono perfetti per incarnare il ruolo di carne da macello e che continuano a fare minchiate in serie nella loro casetta dispersa nei boschi.
Qui ci sono dei bambini, esseri che per definizione fanno dell'innocenza il loro tratto distintivo.
Teoricamente.
E invece no: la parte che svicola di più e meglio dai soliti cliché di genere è la prima in cui viene descritta la quotidianità di questo gruppo di boyscout che non sono proprio l'epitome dell'innocenza.
Ok, ammetto di avere un certo pregiudizio verso i boyscout : mi hanno fatto sempre abbastanza paura con il loro aspetto da piccoli soldatini in divisa, tutti sincronizzati nei movimenti e sempre ordinatissimi in fila per due.
Ma la cosa che mi faceva più paura ( e mi fa paura anche oggi ) non erano tanto i bambini ma gli adulti che guidavano il gruppo, abbigliati come bambini, una tenuta che messa su un corpo adulto francamente oltrepassa la soglia del ridicolo e che cercavano di dare ai bambini che li seguivano un ordine, un'educazione civica ed ecologica.
Ecco, uno che cerca di darmi determinati insegnamenti abbigliato in quel modo , diciamo che non riesco a prenderlo sul serio.
Ma stiamo divagando e non stiamo parlando del film dell'esordiente al cinema Jonas Govaerts.
Sicuramente non faccio testo ma a causa dei miei pregiudizi mi ha suscitato molta più inquietudine la prima parte che descrive da vicino tutti i piccoli e grandi rituali che compongono la giornata tipo del boyscout rispetto alla seconda parte, quella in cui la deriva slasher e torture è ormai innescata e non c'è via di ritorno.
E soprattutto appare riuscita la caratterizzazione del personaggio di Sam che ha un trascorso tragico di cui intuiamo solo la portata e che ha un presente fatto di confusione ormonale ( il sentimento appena abbozzato che prova per Jasmine), vessazioni assortite e spirito di rivalsa che passa necessariamente attraverso il rapporto con il bau bau dei boschi, quel Kai che diventa la sua nemesi e il suo futuro tutto insieme.
Nella seconda parte CUB- Piccole prede abbandona quasi del tutto le sue ambizioni psicologiche , sociali ( il discorso sulla fabbrica degli autobus e sulla crisi economica) e metaforiche in favore di un meccanismo horror canonico, senza troppi guizzi che si muove all'interno di canoni estetici già codificati da altri.
Il tutto è scenograficamente d'impatto, con il solito spargimento di sangue e liquidi organici oltre la media, ma con un retrogusto che sa molto di deja vu.
E anche il finale si intuisce con un buon quarto d'ora d'anticipo.
Rimane la sensazione di aver conosciuto un regista promettente che sa dosare le varie anime del racconto e che appare decisamente consapevole dell'uso del mezzo espressivo.
Lo aspetto al varco.
PERCHE' SI : la prima parte è quella più inquietante, ambizioni psicologiche e metaforiche di un certo spessore, scenograficamente efficace anche dal punto di vista orrorifico, regia di buon livello
PERCHE' NO : a me ha fatto più paura la prima parte che la seconda che si presenta senza particolari guizzi di originalità, finale che si intuisce con un buon quarto d'ora d'anticipo.
LA SEQUENZA : il magazzino con tutte le vittime di anni e anni di omicidi
DA QUESTO FILM HO CAPITO CHE
Ho sempre avuto una paura matta dei boy scout e questo film me lo conferma
Il campeggio non fa per me
Puoi trovare il bullismo dappertutto.
Non iscriverò mai i miei figli ai boyscout.
Continuo a credere che in Belgio siano discretamente malati( con affetto naturalmente!).
( VOTO : 6 + / 10 )
giovedì 26 marzo 2015
Plus One ( aka + 1 , 2013 )
David viene sorpreso dalla fidanzata Jill a sbaciucchiarsi con un' altra e non sa come farsi perdonare. L'occasione ci sarebbe ed è il megaparty organizzato da un suo compagno di scuola. Ci va col suo amico Teddy, nerd che più nerd non si può che ha come unico scopo quello di portarsi a letto più ragazze possibili.
Strani fenomeni elettrici durante la festa provocano la creazione di veri e propri doppi dei partecipanti alla festa che vivono in leggera differita rispetto agli originali.
E a ogni sbalzo di corrente la distanza tra le due vite dello stesso soggetto diminuisce: che cosa succederà quando si ritroveranno allineati nello stesso tempo?
Ognuno cerca di risolvere la questione a modo suo.
Dennis Iliadis è un regista di origine greca ma americano d'adozione che ha già avuto modo di farsi conoscere con un paio di corti, un film che ha avuto un buon riscontro come Hardcore del 2004 e il remake del craveniano L'ultima casa a sinistra datato 2009.
Plus One ( o se preferite + 1 titolo alternativo con cui è possibile reperirlo) è un tentativo , come minimo ambizioso, di fondere il teen movie, sottogenere feste selvagge un po' come Project X che pian piano si sta trasformando in un archetipo del genere ( con mio grande scorno), con il thriller , l'horror e la sci fi d'annata che richiama al cult siegeliano L'invasione degli ultracorpi.
Spunti sulla carta interessantissimi e che donano al film un che di intrigante che rende molto più che appetibile la parte centrale del film, quella in cui i personaggi principali ancora non sanno bene come gestire la presenza del loro doppio.
La tensione si affetta col coltello, i trucchi per riconoscersi non vanno a buon fine e anche lo spettatore in un certo senso vive la confusione che attanaglia i personaggi in scena alle prese con una situazione misteriosa e assolutamente inaspettata .
Per non dire potenzialmente pericolosa perché all'inizio del film David vede uno dei suoi amici uccidere con una pistolettata in fronte il suo doppio.
O è il suo doppio che uccide lui.
Sono affascinato all'ennesima potenza dalle tematiche inerenti i doppelganger così come dai film incentrati sui paradossi temporali e speravo ardentemente che il film di Iliadis si sarebbe addentrato nella tematica del doppio e sulle sue conseguenze.
In realtà in Plus One il doppio evocato, o meglio materializzato in carne, ossa e sangue, è poco più di un espediente narrativo utilizzato per alimentare un clima ansiogeno.
E in questo senso va vista anche la deriva splatter che il film prende nei pressi del finale, un modo semplice per risolvere la questione della vita del doppio in leggera differita.
E soprattutto un modo per non addentrarsi in riflessioni che vadano oltre la banalità.
Plus One è comuque una visione che passa veloce e indolore ma rimane la sensazione di un film che avrebbe potuto essere molto di più, ha l'acre sapore dell'occasione sprecata e questo è dovuto anche ad attori non particolarmente carismatici che non riescono a dare quel quid in più alla pellicola.
La cosa che si può imputare a Iliadis è proprio questa sua incapacità nel fondere le due anime del film, quella della commedia adolescenziale sboccata e irriverente, nonchè pruriginosa, e quella che va dal thriller alla sci fi passando per l'horror.
Passato e piuttosto maltrattato ( ingenerosamente ) al Torino Film Festival del 2013.
PERCHE' SI : ottima l'idea di partenza di fondere commedia, thriller, sci fi e horror, la parte centrale del film è molto efficace per via del clima ansiogeno che riesce a creare, visione veloce e indolore.
PERCHE' NO :il tema del doppelganger è uno spunto poi non sfruttato, attori non particolarmente carismatici, Iliadis non riesce a fondere le diverse anime del film.
LA SEQUENZA : Teddy si accorge che la sua bella conquista ha un doppio e che vuole fare sesso con lui. La sua faccia è tutto un programma.
DA QUESTO FILM HO CAPITO CHE :
Se mai esistesse un mio doppio, vista la mia velocità, vivrebbe senza problemi tutta la vita al posto mio,sarebbe la mia la vita in differita.
Se tu, nerd che più nerd non si può vai a letto con una biondona con fisico da playmate stai vivendo un sogno e sei troppo ubriaco per svegliarti oppure è un film di fantascienza
Meglio frequentare sempre feste morigerate e assicurarsi che si serbi il ricordo della serata.
Se mai si incontrasse il proprio doppio che vive la tua vita in leggera differita, meglio farselo amico.
( VOTO : 6 + / 10 )
Strani fenomeni elettrici durante la festa provocano la creazione di veri e propri doppi dei partecipanti alla festa che vivono in leggera differita rispetto agli originali.
E a ogni sbalzo di corrente la distanza tra le due vite dello stesso soggetto diminuisce: che cosa succederà quando si ritroveranno allineati nello stesso tempo?
Ognuno cerca di risolvere la questione a modo suo.
Dennis Iliadis è un regista di origine greca ma americano d'adozione che ha già avuto modo di farsi conoscere con un paio di corti, un film che ha avuto un buon riscontro come Hardcore del 2004 e il remake del craveniano L'ultima casa a sinistra datato 2009.
Plus One ( o se preferite + 1 titolo alternativo con cui è possibile reperirlo) è un tentativo , come minimo ambizioso, di fondere il teen movie, sottogenere feste selvagge un po' come Project X che pian piano si sta trasformando in un archetipo del genere ( con mio grande scorno), con il thriller , l'horror e la sci fi d'annata che richiama al cult siegeliano L'invasione degli ultracorpi.
Spunti sulla carta interessantissimi e che donano al film un che di intrigante che rende molto più che appetibile la parte centrale del film, quella in cui i personaggi principali ancora non sanno bene come gestire la presenza del loro doppio.
La tensione si affetta col coltello, i trucchi per riconoscersi non vanno a buon fine e anche lo spettatore in un certo senso vive la confusione che attanaglia i personaggi in scena alle prese con una situazione misteriosa e assolutamente inaspettata .
Per non dire potenzialmente pericolosa perché all'inizio del film David vede uno dei suoi amici uccidere con una pistolettata in fronte il suo doppio.
O è il suo doppio che uccide lui.
Sono affascinato all'ennesima potenza dalle tematiche inerenti i doppelganger così come dai film incentrati sui paradossi temporali e speravo ardentemente che il film di Iliadis si sarebbe addentrato nella tematica del doppio e sulle sue conseguenze.
In realtà in Plus One il doppio evocato, o meglio materializzato in carne, ossa e sangue, è poco più di un espediente narrativo utilizzato per alimentare un clima ansiogeno.
E in questo senso va vista anche la deriva splatter che il film prende nei pressi del finale, un modo semplice per risolvere la questione della vita del doppio in leggera differita.
E soprattutto un modo per non addentrarsi in riflessioni che vadano oltre la banalità.
Plus One è comuque una visione che passa veloce e indolore ma rimane la sensazione di un film che avrebbe potuto essere molto di più, ha l'acre sapore dell'occasione sprecata e questo è dovuto anche ad attori non particolarmente carismatici che non riescono a dare quel quid in più alla pellicola.
La cosa che si può imputare a Iliadis è proprio questa sua incapacità nel fondere le due anime del film, quella della commedia adolescenziale sboccata e irriverente, nonchè pruriginosa, e quella che va dal thriller alla sci fi passando per l'horror.
Passato e piuttosto maltrattato ( ingenerosamente ) al Torino Film Festival del 2013.
PERCHE' SI : ottima l'idea di partenza di fondere commedia, thriller, sci fi e horror, la parte centrale del film è molto efficace per via del clima ansiogeno che riesce a creare, visione veloce e indolore.
PERCHE' NO :il tema del doppelganger è uno spunto poi non sfruttato, attori non particolarmente carismatici, Iliadis non riesce a fondere le diverse anime del film.
LA SEQUENZA : Teddy si accorge che la sua bella conquista ha un doppio e che vuole fare sesso con lui. La sua faccia è tutto un programma.
DA QUESTO FILM HO CAPITO CHE :
Se mai esistesse un mio doppio, vista la mia velocità, vivrebbe senza problemi tutta la vita al posto mio,sarebbe la mia la vita in differita.
Se tu, nerd che più nerd non si può vai a letto con una biondona con fisico da playmate stai vivendo un sogno e sei troppo ubriaco per svegliarti oppure è un film di fantascienza
Meglio frequentare sempre feste morigerate e assicurarsi che si serbi il ricordo della serata.
Se mai si incontrasse il proprio doppio che vive la tua vita in leggera differita, meglio farselo amico.
( VOTO : 6 + / 10 )
Etichette:
Cinema americano,
commedia,
horror,
sci-fi,
thriller
mercoledì 25 marzo 2015
Policeman ( 2011 )
Yaron è un membro della squadra antiterrorismo della polizia israeliana. Ha un forte legame con gli altri membri della squadra, stanno assieme con le famiglie anche nel tempo libero. Yaron ha a casa una moglie che sta per dargli il primo figlio e ha un collega, Ariel che è malato ormai terminale di cancro ed è proprio per questo che la squadra lo sacrifica alla disciplinare per evitare una sicura condanna per la loro condotta troppo violenta in un'azione in terra palestinese.
Tra un massaggio alla moglie per favorire il parto, una birra con gli amici e un barbecue in giardino, Yaron e la sua squadra si preparano intanto a liberare un gruppo di persone prese in ostaggio a un matrimonio da un gruppetto di giovani radicali ebrei.
E Yaron e la sua squadra quando si tratta di sparare non fanno tante distinzioni di razza e di religione.
Leggevo qualche tempo fa che nel mondo ogni anno vengono prodotti circa 25 mila film , più o meno, mentre in Italia ne vengono importati circa 500 tra uscite cinematografiche e in dvd o bluray che dir si voglia.
Forse per vie traverse gli appassionati possono recuperarne altrettanti, diciamo altri 500 l'anno ma mi pare cifra spropositata.
Quindi al di fuori del nostro radar visivo restano fuori sicuramente più di ventimila film l'anno.
Questo Policeman scritto e diretto dall'allora poco più che trentacinquenne Navid Lapid fa parte, per quanto mi riguarda, di quel grosso buco nero che è la cinematografia israeliana.
Buco nero perché praticamente conosciamo poco di quel cinema , anzi direi nulla a parte qualche titolo sporadico arrivato qui in Occidente ( parlo ad esempio di Amos Gitai) o qualche exploit ai vari festival specializzati come i due film di Keshales e Papushado, Rabies e il pluriosannato Big Bad Wolves.
Ora ci troviamo di fronte a questo Policeman che ha fatto incetta di premi in giro per il mondo e che comunque non è stato importato in Italia.
Avevo grosse aspettative per questo film, sulla scorta di recensioni sul filo dell'entusiasmo e forse proprio per questo al termine della visione si è manifestato un pizzico di delusione.
Intendiamoci è visione da consigliare ma non è quel quasi capolavoro che mi aspettavo.
Policeman è un film praticamente diviso in due: la prima parte in cui la cinepresa segue Yaron e la sua squadra, la loro cura per la preparazione fisica, i loro rituali di preparazione, il loro senso di appartenenza, il culto per una certa ostentazione machista fatta di bicipiti gonfi e addominali a tartaruga, una dedizione totale a un lavoro in cui ogni giorno potrebbe essere l'ultimo.
A casa è marito premuroso per la moglie che si sta avvicinando al parto, sul lavoro è veloce e letale come il suo ruolo richiede.
Nella seconda parte invece la cinepresa di Navid Lapid segue un gruppo di radicali ebrei, insofferenti delle regole e di come viene gestito il potere che decidono di organizzare il rapimento di un ricco uomo d'affari israeliano durante il matrimonio della figlia.
Inevitabile che le due anime del film si scontrino in un finale ineluttabile.
Definitivo.
Per Navid Lapid che il film lo ha anche scritto, sarebbe stato facile narrare del nemico arabo che minacciosamente sta alle porte di Israele.
E invece racconta di un nemico che viene da dentro, che trae linfa vitale dalle contraddizioni di una società complessa e stratificata come quella israeliana in cui sono presenti anime molteplici e incompatibili almeno a quanto si apprende da Policeman.
Non viene affrontata la questione palestinese, non viene neanche nominata, quello che preme al giovane regista è raccontare la questione israeliana, la protesta che sorge spontanea in tutta la nazione contro una classe politica corrotta e autoritaria, contro una crisi economica che anche lì addenta ai polpacci.
Da una parte il potere, rappresentato da Yaron e la sua squadra, potere usato anche in modo illecito ( vedi il caso della disciplinare in cui per evitare la condanna gettano le colpe di tutto al loro collega malato terminale di cancro), dall'altra il moto di protesta antagonista alla democrazia che cerca di fare sentire la propria voce commettendo un reato gravissimo che pertanto non può passare sottotraccia.
Policeman mette in scena una quotidianità scialba e ripetitiva, una routine che non ha nulla di attraente e non riesce a fondere in un unico corpo le due anime del film che si incontreranno solo nei pochi secondi finali.
E il non riuscire ad armonizzare i due racconti , presentati in sequenza, è la colpa maggiore del film che forse risulta un po' troppo costruito in funzione della scena finale.
Non hanno nulla di attraente i personaggi di questo film, anzi mettono paura per la loro asetticità in un contesto esplosivo come quello israeliano , una nazione percorsa trasversalmente da fermenti politici che vanno oltre la questione araba o palestinese che sono agitate come vero spauracchio contro tutti coloro che vogliono cambiare qualcosa.
Il merito principale di Policeman è di raccontare da dentro queste contraddizioni.
E si può perdonare il fatto che tutto venga narrato in modo piuttosto schematico.
Il pericolo dell'autoassoluzione è comunque dietro l'angolo.
PERCHE' SI : sguardo diverso sulle contraddizioni della società israeliana, finale di quelli che si fa fatica a dimenticare, per una volta l'arabo e il palestinese non sono il nemico da condannare.
PERCHE' NO : le due anime del film non riescono a fondersi, racconto piuttosto schematico, ritmo compassato nel raccontare una quotidianità che non ha nulla di attraente.
LA SEQUENZA : il saluto con abbraccio tra tutti i membri della squadra dell'antiterrorismo, anche nelle riunioni informali nel tempo libero.
DA QUESTO FILM HO CAPITO CHE :
I magazzini sono pieni di film che non abbiamo visto e che forse non vedremo mai
Israele è un posto molto meno brutto di quello che immaginassi
Anche in Israele esistono le Fiat Punto e i punk
Gli agenti dell'antiterrorismo quando si tratta di sparare non fanno distinzioni di razza o di religione.
( VOTO : 7 / 10 )
Tra un massaggio alla moglie per favorire il parto, una birra con gli amici e un barbecue in giardino, Yaron e la sua squadra si preparano intanto a liberare un gruppo di persone prese in ostaggio a un matrimonio da un gruppetto di giovani radicali ebrei.
E Yaron e la sua squadra quando si tratta di sparare non fanno tante distinzioni di razza e di religione.
Leggevo qualche tempo fa che nel mondo ogni anno vengono prodotti circa 25 mila film , più o meno, mentre in Italia ne vengono importati circa 500 tra uscite cinematografiche e in dvd o bluray che dir si voglia.
Forse per vie traverse gli appassionati possono recuperarne altrettanti, diciamo altri 500 l'anno ma mi pare cifra spropositata.
Quindi al di fuori del nostro radar visivo restano fuori sicuramente più di ventimila film l'anno.
Questo Policeman scritto e diretto dall'allora poco più che trentacinquenne Navid Lapid fa parte, per quanto mi riguarda, di quel grosso buco nero che è la cinematografia israeliana.
Buco nero perché praticamente conosciamo poco di quel cinema , anzi direi nulla a parte qualche titolo sporadico arrivato qui in Occidente ( parlo ad esempio di Amos Gitai) o qualche exploit ai vari festival specializzati come i due film di Keshales e Papushado, Rabies e il pluriosannato Big Bad Wolves.
Ora ci troviamo di fronte a questo Policeman che ha fatto incetta di premi in giro per il mondo e che comunque non è stato importato in Italia.
Avevo grosse aspettative per questo film, sulla scorta di recensioni sul filo dell'entusiasmo e forse proprio per questo al termine della visione si è manifestato un pizzico di delusione.
Intendiamoci è visione da consigliare ma non è quel quasi capolavoro che mi aspettavo.
Policeman è un film praticamente diviso in due: la prima parte in cui la cinepresa segue Yaron e la sua squadra, la loro cura per la preparazione fisica, i loro rituali di preparazione, il loro senso di appartenenza, il culto per una certa ostentazione machista fatta di bicipiti gonfi e addominali a tartaruga, una dedizione totale a un lavoro in cui ogni giorno potrebbe essere l'ultimo.
A casa è marito premuroso per la moglie che si sta avvicinando al parto, sul lavoro è veloce e letale come il suo ruolo richiede.
Nella seconda parte invece la cinepresa di Navid Lapid segue un gruppo di radicali ebrei, insofferenti delle regole e di come viene gestito il potere che decidono di organizzare il rapimento di un ricco uomo d'affari israeliano durante il matrimonio della figlia.
Inevitabile che le due anime del film si scontrino in un finale ineluttabile.
Definitivo.
Per Navid Lapid che il film lo ha anche scritto, sarebbe stato facile narrare del nemico arabo che minacciosamente sta alle porte di Israele.
E invece racconta di un nemico che viene da dentro, che trae linfa vitale dalle contraddizioni di una società complessa e stratificata come quella israeliana in cui sono presenti anime molteplici e incompatibili almeno a quanto si apprende da Policeman.
Non viene affrontata la questione palestinese, non viene neanche nominata, quello che preme al giovane regista è raccontare la questione israeliana, la protesta che sorge spontanea in tutta la nazione contro una classe politica corrotta e autoritaria, contro una crisi economica che anche lì addenta ai polpacci.
Da una parte il potere, rappresentato da Yaron e la sua squadra, potere usato anche in modo illecito ( vedi il caso della disciplinare in cui per evitare la condanna gettano le colpe di tutto al loro collega malato terminale di cancro), dall'altra il moto di protesta antagonista alla democrazia che cerca di fare sentire la propria voce commettendo un reato gravissimo che pertanto non può passare sottotraccia.
Policeman mette in scena una quotidianità scialba e ripetitiva, una routine che non ha nulla di attraente e non riesce a fondere in un unico corpo le due anime del film che si incontreranno solo nei pochi secondi finali.
E il non riuscire ad armonizzare i due racconti , presentati in sequenza, è la colpa maggiore del film che forse risulta un po' troppo costruito in funzione della scena finale.
Non hanno nulla di attraente i personaggi di questo film, anzi mettono paura per la loro asetticità in un contesto esplosivo come quello israeliano , una nazione percorsa trasversalmente da fermenti politici che vanno oltre la questione araba o palestinese che sono agitate come vero spauracchio contro tutti coloro che vogliono cambiare qualcosa.
Il merito principale di Policeman è di raccontare da dentro queste contraddizioni.
E si può perdonare il fatto che tutto venga narrato in modo piuttosto schematico.
Il pericolo dell'autoassoluzione è comunque dietro l'angolo.
PERCHE' SI : sguardo diverso sulle contraddizioni della società israeliana, finale di quelli che si fa fatica a dimenticare, per una volta l'arabo e il palestinese non sono il nemico da condannare.
PERCHE' NO : le due anime del film non riescono a fondersi, racconto piuttosto schematico, ritmo compassato nel raccontare una quotidianità che non ha nulla di attraente.
LA SEQUENZA : il saluto con abbraccio tra tutti i membri della squadra dell'antiterrorismo, anche nelle riunioni informali nel tempo libero.
DA QUESTO FILM HO CAPITO CHE :
I magazzini sono pieni di film che non abbiamo visto e che forse non vedremo mai
Israele è un posto molto meno brutto di quello che immaginassi
Anche in Israele esistono le Fiat Punto e i punk
Gli agenti dell'antiterrorismo quando si tratta di sparare non fanno distinzioni di razza o di religione.
( VOTO : 7 / 10 )
martedì 24 marzo 2015
Anime Nere ( 2014 )
Africo, Aspromonte: Leo, figlio di Luciano che di professione fa il pastore di capre, con un fucile distrugge la vetrina di un bar affiliato a un clan della malavita locale e poi fugge a Milano dagli zii. Luigi e Rocco che , grazie a traffici di droga sulla rotta di Amsterdam hanno avviato un piccolo impero commerciale.
L'eco della bravata di Leo arriva anche a Milano e il padre, Luciano, viene bonariamente richiamato da un boss locale, venendo di fatto umiliato.
I fratelli tornano da Milano per dargli manforte ma di fatto innescano una faida sanguinosa in cui ci rimetteranno tutti.
E' la 'ndrangheta che funziona in questo modo.
I morti cominciano a fioccare.
Anime Nere di Francesco Munzi è il classico film italiano che mi fa incazzare come una biscia e scusate se ho detto biscia.
Perché allora se solo vogliamo noi lo sappiamo fare del bel cinema, del cinema con delle palle grosse così e che non attinga necessariamente a Gomorra, Romanzo Criminale o roba simile.
Certo si parla sempre di malavita ma si cambia contesto geografico e si entra in un campo relativamente vergine al cinema.
Francamente non ricordo di aver visto altri film incentrati sulla 'ndrangheta , un'entità misteriosa sia al cinema che nella vita reale e non ricordo di aver visto film che invece di fossilizzarsi sui fatti criminosi, per certi versi più facili da raccontare, se non altro per la presenza di innumerevoli modelli di alto spessore da seguire , sceglie di narrare altro.
Munzi preferisce raccontare le dinamiche familiari, i riti ancestrali che caratterizzano la vita di un paesino situato nel cuore di tenebra dell'Aspromonte, sfondo geografico peculiare per i suoi tratti durissimi e ingenerosi nei confronti di coloro che lo abitano.
Anime Nere non è un film di gangster pur parlando di malavita organizzata, non parla di traffici di droga pur avendone l'occasione dopo un inizio stile French Connection, parla fondamentalmente di tre fratelli e di tutto quel crocevia di diatribe, umiliazioni e veti incrociati che descrivono al meglio l'humus di Africo, il suo background che si perde nell'oblio degli anni.
Impietoso il confronto tra la Milano da bere e da sniffare tratteggiata nei primi minuti di film e il cuore dell'Aspromonte simboleggiato da un paesino incastonato tra le montagne, isolato geograficamente e culturalmente che sembra essersi fermato a vari decenni fa con le sue case semi diroccate e l'urbanizzazione come minimo rivedibile.
Sono diversi anche i tre fratelli : Luciano in un certo senso non ha mai voluto evolversi, aprirsi alle novità del mondo, imprigionato in una specie di bolla temporale che è Africo e il suo allevamento di capre.
Rocco e Luigi conoscono invece la bella vita, sono borghesi arricchiti a tutti gli effetti e mostrano in un impeto di sciovinismo barocco, tutto quello che il denaro ha permesso loro di comprare, dai bei vestiti, alle macchine costose.
Anime Nere è una tragedia greca, di fatto ne rispetta tutti i crismi, girata in terra calabra , ne studia antropologicamente i caratteri del territorio, è un dramma familiare che si innesca per la più banale delle scuse, è una crudele rappresentazione dell'orgoglio e del senso di appartenenza che non permettono di fare un passo indietro, anche quando è necessario.
E' un progetto verace in cui la scelta linguistica, il calabrese ( e spesso si va di sottotitoli per chi non è avvezzo all'idioma calabro), contribuisce a regalargli quell'ulteriore aura di realismo.
Anime Nere è un noir impietoso che preferisce raccontare il silenzio prima dello sparo piuttosto che lo sparo stesso, un film doloroso e lancinante che deflagra in un finale shock, di quelli che non si dimenticano tanto facilmente.
Così come non si dimentica la faccia di Luciano, il suo sguardo assente, un uomo che da solo ha deciso a far terminare la faida innescata per una stupidaggine.
E lo fa a modo suo.
Grande successo di critica e di pubblico allo scorso Festival di Venezia.
PERCHE' SI : dramma familiare e 'ndrangheta non erano mai stati raccontati così al cinema, sfondo ambientale utilizzato nel migliore dei modi, approccio antropologico e realistico( uso della lingua), finale shock
PERCHE' NO : difficile trovare difetti: i sottotitoli necessari per l'uso del calabrese forse potranno scoraggiare qualcuno
LA SEQUENZA : a parte il finale shock direi la sequenza dell'omicidio in auto, perfetta per tempi e montaggio.
DA QUESTO FILM HO CAPITO CHE :
Il calabrese è una lingua a parte e spesso ho dovuto usare i sottotitoli
Si può fare un film in Calabria senza nominare la 'nduja, il peperoncino di Soverato e la cipolla di Tropea
Oltre Gomorra c'è di più
A volte l'idiozia non è ereditaria
( VOTO : 7 + / 10 )
L'eco della bravata di Leo arriva anche a Milano e il padre, Luciano, viene bonariamente richiamato da un boss locale, venendo di fatto umiliato.
I fratelli tornano da Milano per dargli manforte ma di fatto innescano una faida sanguinosa in cui ci rimetteranno tutti.
E' la 'ndrangheta che funziona in questo modo.
I morti cominciano a fioccare.
Anime Nere di Francesco Munzi è il classico film italiano che mi fa incazzare come una biscia e scusate se ho detto biscia.
Perché allora se solo vogliamo noi lo sappiamo fare del bel cinema, del cinema con delle palle grosse così e che non attinga necessariamente a Gomorra, Romanzo Criminale o roba simile.
Certo si parla sempre di malavita ma si cambia contesto geografico e si entra in un campo relativamente vergine al cinema.
Francamente non ricordo di aver visto altri film incentrati sulla 'ndrangheta , un'entità misteriosa sia al cinema che nella vita reale e non ricordo di aver visto film che invece di fossilizzarsi sui fatti criminosi, per certi versi più facili da raccontare, se non altro per la presenza di innumerevoli modelli di alto spessore da seguire , sceglie di narrare altro.
Munzi preferisce raccontare le dinamiche familiari, i riti ancestrali che caratterizzano la vita di un paesino situato nel cuore di tenebra dell'Aspromonte, sfondo geografico peculiare per i suoi tratti durissimi e ingenerosi nei confronti di coloro che lo abitano.
Anime Nere non è un film di gangster pur parlando di malavita organizzata, non parla di traffici di droga pur avendone l'occasione dopo un inizio stile French Connection, parla fondamentalmente di tre fratelli e di tutto quel crocevia di diatribe, umiliazioni e veti incrociati che descrivono al meglio l'humus di Africo, il suo background che si perde nell'oblio degli anni.
Impietoso il confronto tra la Milano da bere e da sniffare tratteggiata nei primi minuti di film e il cuore dell'Aspromonte simboleggiato da un paesino incastonato tra le montagne, isolato geograficamente e culturalmente che sembra essersi fermato a vari decenni fa con le sue case semi diroccate e l'urbanizzazione come minimo rivedibile.
Sono diversi anche i tre fratelli : Luciano in un certo senso non ha mai voluto evolversi, aprirsi alle novità del mondo, imprigionato in una specie di bolla temporale che è Africo e il suo allevamento di capre.
Rocco e Luigi conoscono invece la bella vita, sono borghesi arricchiti a tutti gli effetti e mostrano in un impeto di sciovinismo barocco, tutto quello che il denaro ha permesso loro di comprare, dai bei vestiti, alle macchine costose.
Anime Nere è una tragedia greca, di fatto ne rispetta tutti i crismi, girata in terra calabra , ne studia antropologicamente i caratteri del territorio, è un dramma familiare che si innesca per la più banale delle scuse, è una crudele rappresentazione dell'orgoglio e del senso di appartenenza che non permettono di fare un passo indietro, anche quando è necessario.
E' un progetto verace in cui la scelta linguistica, il calabrese ( e spesso si va di sottotitoli per chi non è avvezzo all'idioma calabro), contribuisce a regalargli quell'ulteriore aura di realismo.
Anime Nere è un noir impietoso che preferisce raccontare il silenzio prima dello sparo piuttosto che lo sparo stesso, un film doloroso e lancinante che deflagra in un finale shock, di quelli che non si dimenticano tanto facilmente.
Così come non si dimentica la faccia di Luciano, il suo sguardo assente, un uomo che da solo ha deciso a far terminare la faida innescata per una stupidaggine.
E lo fa a modo suo.
Grande successo di critica e di pubblico allo scorso Festival di Venezia.
PERCHE' SI : dramma familiare e 'ndrangheta non erano mai stati raccontati così al cinema, sfondo ambientale utilizzato nel migliore dei modi, approccio antropologico e realistico( uso della lingua), finale shock
PERCHE' NO : difficile trovare difetti: i sottotitoli necessari per l'uso del calabrese forse potranno scoraggiare qualcuno
LA SEQUENZA : a parte il finale shock direi la sequenza dell'omicidio in auto, perfetta per tempi e montaggio.
DA QUESTO FILM HO CAPITO CHE :
Il calabrese è una lingua a parte e spesso ho dovuto usare i sottotitoli
Si può fare un film in Calabria senza nominare la 'nduja, il peperoncino di Soverato e la cipolla di Tropea
Oltre Gomorra c'è di più
A volte l'idiozia non è ereditaria
( VOTO : 7 + / 10 )
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