I miei occhi sono pieni delle cicatrici dei mille e mille film che hanno visto.
Il mio cuore ancora porta i segni di tutte le emozioni provate.
La mia anima è la tabula rasa impressionata giorno per giorno,a 24 fotogrammi al secondo.
Cinema vicino e lontano, visibile e invisibile ma quello lontano e invisibile un po' di più.

venerdì 31 maggio 2013

Clint Eastwood day- Hereafter ( 2010 )





George, operaio americano timido e un po' represso ha un dono che non vorrebbe avere. comunica con i morti anche se cerca di evitarlo il più possibile. Intanto una giornalista francese sta cercando risposte a tutte le visioni avute durante il coma sofferto a causa dello tsunami e una donna londinese, tossicodipendente e single, cerca di riprendersi dalla morte del figlio di dieci anni a causa di un incidente stradale. Le storie magicamente, o forse no, si intersecheranno tra di loro.
Se qualcuno mi chiedesse che cosa è per me Hereafter non saprei rispondere subito. Dovrei come minimo raccogliere le idee. Questo perchè  Eastwood pone tutta una serie di interrogativi ai quali non è così semplice rispondere. Grossolanamente potrei dire che questa pellicola è il frutto della mente di un agnostico ottantenne (ma in realtà il film non è scritto da lui ma da Peter Morgan anche se si suppone che il vecchio Clint sposi in pieno le tesi dello script) che si incomincia a interrogare su che cosa c'è dopo. E la sua apparizione a poca distanza a quello che è stato l'epitaffio della sua carriera d'attore, Gran Torino , rappresenta materiale idoneo per riflessioni supplementari. In realtà il film di Eastwood non è solo questo: è un film su quella sottile linea candida, impalpabile che divide l'here dal there il before dall'after .
L'aldilà che nelle  lovelybones jacksoniane è un limbo color pastello qui diventa qualcosa di indeterminato, dai contorni appositamente sfumati, tutto in controluce in modo che non è possibile mettere a fuoco ciò che si vede. E'un'altra dimensione spirituale, un modo diverso di esistere. E coloro che hanno loro malgrado vissuto esperienze di premorienza ne hanno avuto solo un'impressione parziale, fallace.
Eastwood si chiede cosa ci sia oltre ma non deborda nel misticismo d'accatto, è sempre quieto come all'interno di un confortevole amnios, punto di osservazione privilegiato e ci dice la sua riguardo all'argomento .La morte incombe su questo film come incombeva su Mystic River o in quella stupenda ballata sudista che era Mezzanotte nel giardino del bene e del maleMa qui il punto di vista è plurimo, le varie vicende umane vanno a formare un puzzle (in verità non così complicato) che si ricompone nel finale. E si parla di solitudine, di dolore che lacera da dentro, di elaborazione del lutto, del clima rovente dovuto agli attentati terroristici.

I vari personaggi portano all'interno del film tutto il loro dolore pregresso, sia esso frutto di esperienze violente (lo tsunami per la giornalista/scrittrice Marie che vive un temporaneo trapasso, la perdita del fratello gemello per Marcus), sia diretta conseguenza del dolore altrui di cui ci si fa carico (George con il suo shining sensitivo percepisce le morti e le voci dei cari delle pesone a cui stringe le mani).E ripercorrendo le traiettorie curve dei primi film di Inarritu, la vicenda da trina si fa una. E ognuno trova la propria serenità per continuare a vivere non sentendosi schiacciato dal peso del'attesa per quello che c'è dopo. Soprattutto ognuno riesce a trovare un antidoto (nel caso di George e Marie forse è addirittura troppa grazia sfociando quasi nel fiabesco) alla solitudine che fino ad ora li ha attanagliati. Dal punto di vista stilistico sorprende lo tsunami dei primi minuti, un grido in digitale strozzato in gola, mentre il resto del film è un ripercorrere il classico Eastwood/style: un susseguirsi di sequenze fluide e armoniose nella loro musicalità, senza inutili accelerazioni in fase di montaggio ,lasciando tutta la responsabilità alla spontaneità degli attori colti nelle loro sfumature con una cinepresa che riesce a frugare nelle loro emozioni: stupisce la Howard con i suoi occhi di gatta che intristiscono, stupisce Damon  lontano dal modello all american boy tutto palestra e torta di mele , ma uomo prostrato, quasi incurvato dai dubbi e dalla coscienza.
Pur se prodotto da Spielberg questa pellicola ha poco di hollywoodiano eccetto forse per il gusto dolciastro di alcune parti.
Ed è probabilmente per questo che gli incassi americani sono stati molto fiacchi.
Hereafter  è un film che non fornisce risposte su quello che c'è dopo: il vecchio Clint se ha queste benedette risposte se le tiene per sè.
E un pò forse ridacchia di noi....

( VOTO : 7+ / 10 )  Hereafter (2010) on IMDb


Da buon bradipo scordarello arrivo buon ultimo....oggi avevo completamente dimenticato l'omaggio al grande Clint, forse perchè in questo mese ne erano un po' troppi ma tanto me li sono scordati tutti.
Questo post entra da ultimo e anche un po' abusivamente nel novero di posts dedicati a Eastwood per il suo compleanno da un pugno di valorosi fancazzisti bloggers. Questa la lista:
Montecristo
Cinquecentofilminsieme
Ho voglia di cinema
Triccotraccofobia
Movies Maniac
Il Cinema Spiccio
50/50 Thriller
In Central Perk
viaggiando ( meno)
White Russian
Scrivenny
Director's cult
Pensieri Cannibali
La fabbrica dei sogni
Combinazione Casuale
Era meglio il libro
Bollalmanacco di cinema
Bette Davis Eyes

Snitch-L'infiltrato ( 2013)

John Matthews è un onesto imprenditore che ha una ditta di autotrasporti: va tutto bene finchè suo figlio poco più che adolescente, è arrestato per traffico di droga, reato per cui non è colpevole. Ma le leggi sono chiare: se non fa nomi di altri spacciatori rischia di farsi anche trenta anni di galera. E così John, da bravo papà maltrattato anche dalla sua ex moglie, fa un patto con un procuratore federale che ha ambizioni politiche: si infiltra in un cartello di narcos che fa capo al temibile El Topo ( ma che razza di soprannome per un  pericolosissimo spacciatore) per assicurarli alla giustizia e vedere così libero suo figlio.
Due cose da far notare prima di tutto: il film pare che sia tratto da una storia vera ( dico pare perchè si sa come a Hollywood non sempre sia ben visibile il confine tra la realtà e la fantasia degli sceneggiatori) e una scritta in cui si cita espressamente una norma federale negli USA che ha innalzato a livelli quasi thailandesi le pene per il traffico di droga ma che possono diminuire fortemente se si fanno i nomi di altri spacciatori.
E si capisce bene che implicazione ha questa norma: infatti il film parte proprio da un amico del figlio di John che lo incastra per avere una riduzione di pena. Nonostante sia un ragazzo normalissimo, in attesa di entrare al college e che col traffico di droga non ha nulla a che fare.
The Snitch .L'infiltrato è il film con The Rock che non ti aspetti. E per stavolta non è proprio un bene. Quello in cui il nostro vuole fare l'ambizioso, vuole recitare una parte che andrebbe benissimo per uno con gli addominali scolpiti dai ravioli e non dal fitness ( o forse anche da qualche altra cosa) come i suoi.
Sarà un mio limite ma io The Rock lo voglio vedere mentre picchia, mentre mena e mulina le braccia tanto da sembrare una dea Kalì o un bravo Simac.
Appena ho cominciato a vedere il film mi sono subito ben predisposto: una bella scena di inseguimento ( del resto il regista viene dal mondo degli stunts quindi sotto questo profilo sa il fatto suo) che si conclude con l'arresto dell'inerme pischelletto ad opera di un Barry Pepper formato teppista metropolitano con la barbetta caprina che gli arriva fin sotto il petto.
E poi entra in scena The Rock : è coperto insolitamente da una camicia scura che ne maschera le forme debordanti e incappa subito in una scena in cui viene maltrattato da quella che scopriamo essere la sua ex moglie.
Due cose sono subito palesi: The Rock non riesce a piangere per esigenze di scena neanche se gli fanno un'overdose di bucce di cipolla e un film dove si dominare così dalla sua ex moglie ha evidentemente qualcosa di strano.
Il sospetto aumenta, ma proseguiamo: ha la bella idea di infiltrarsi tra gli spacciatori di droga e così si fa un giretto nella downtown col suo SUV da riccone per vedere che aria tira. Incontra un gruppetto di spacciatori da angolo di strada, pesci piccolissimi, avannotti insomma.
Penso subito: ora scende e gli rompe il culo. Per uno che si è fatto le ossa con quel bisonte impazzito di Stone Cold Steve Austin è uno scherzo malmenare quella banda  bassotti che neanche gli arriva al gomito.
E invece viene picchiato e lasciato lì come un lenzuolo sull'asfalto.
E io allibisco sempre più e impallidisco. Penso che ora si incazza , si alza e scrive sull'asfalto quanto vuole bene a quegli spacciatorucoli usando come penna la loro faccia. E invece nulla.
Si va a leccare le ferite e basta.
E si prosegue così con l'epopea del bravo padre di famiglia che si incastra in un meccanismo molto più grande di lui. Senza neanche un muscolo che guizza, un cazzotto, un vertical suplex. E da che mondo e mondo , dall'autostrada del Brennero alla Salerno Reggio Calabria e oltre, The Rock deve menare e non essere menato.
Nel finale qualcosa viene aggiustato però il nostro usa un fucile a pompa per sparare ai narcos ( anche un paio di pallottole no look che centrano pieno il bersaglio per dare un senso allo stunt) e non i suoi bicipiti a mappamondo che vengono tenuti coperti per tutto il film.
The Snitch-L'infiltrato è troppo poco tamarro, ha un po' troppe ambizioni sociali per i miei gusti e The Rock si rivela fatalmente inadeguato, coperto malamente da abiti scuri e che cercano di mascherare tutta la sua massa muscolare.
Il problema è che presto questo film si rivela uguale a centinaia di altri e neanche tra i più brillanti.
E ha l'effetto collaterale di mandarmi dritto dritto al cinema a vedere il nuovo Fast And Furious per vedere un po' di mazzate date e prese dal nostro Dwayne Johnson.
E io che non lo volevo neanche fare.

( VOTO : 5 / 10 )

Snitch (2013) on IMDb

giovedì 30 maggio 2013

Nothing personal ( 2009 )

Interno olandese. Una donna dai capelli ramati sta accoccolata in un angolo di un appartamento vuoto, senza mobili in cui il colore dominate è il verde acqua e dopo aver fissato per un pò un punto indefinito nel vuoto si leva una fede nuziale dal dito.
Non sappiamo nulla di lei ,del suo passato, sappiamo solo che zaino in spalla lascia l'Olandae , dopo averla raggiunta,  comincia a viaggiare con l'autostop nella verde Irlanda dormendo all'aperto sotto una tenda da campeggio, cibandosi di avanzi e facendo anche incontri poco piacevoli. I ruvidi e poetici scenari naturali del Connemara la circondano, la accompagnano, quasi la tengono per mano e la guidano fino a una solitaria casa situata su una lingua di terra in mezzo a due bracci di mare. 
Dall'alto un'immagine da cartolina.
E'abitata ma non c'è nessuno, perchè non fermarsi allora? Conosce in un momento successivo il padrone di casa con cui all'inizio ha solo una relazione di mutuo scambio: cibo per lavoro, niente nomi, niente contatti di nessun tipo. Ma la loro relazione è destinata a progredire a piccoli passi fino a che dovranno venire meno alle loro intenzioni.
La pellicola d'esordio della Antoniak è un film fatto più di silenzi che di parole, più di elementi naturali che umani. La cinepresa si posa incantata su scenari naturali di impressionante bellezza ma tutto questo non si trasforma nel solito film/cartolina.
Nothing personal è il classico racconto delle due solitudini che si infrangono l'una sull'altra, un rapporto ispido dominato dalla paura dell'altro perchè in fondo stando da soli non si hanno sorprese. La vita dei due è catturata negli attimi della routine quotidiana, nel rituale dei pasti (soprattutto la colazione), nel lavoro di raccogliere le alghe o pescare le aragoste, addirittura un furtiva sortita al pub del paese a ridere, ballare al suono della musica folk irlandese e a bere birra.
Sembrerebbe una di quelle storie d'amore che finisce con il "..e tutti vissero felici e contenti" ma non è così. La Antoniak è brava a disseminare il film di false piste, di passi avanti in una reciproca conoscenza alternati a fasi di regressione (lei ha scoperto come si chiama, lo chiama per nome e lui si arrabbia perchè lui , anche se sa come si chiama lei l'ha continuata sempre a chiamare "You"-tu-).
Il film è fatto di sguardi, di piccoli gesti di enorme significato come le mani di lei che vanno quasi a cercare conforto nelle mani di lui, oppure lei che in una scena in cui lui non è a letto si spoglia e si rigira tra le lenzuola come per lasciare il suo odore e regalarlo a lui.
Forse i due non stanno cercando neanche amore, stanno cercando semplicemente empatia, calore umano, compagnia che non sia quella della musica lirica o dei rumori della natura. Del resto è nella natura dell'animale uomo la tendenza a vivere in compagnia, organizzarsi in nuclei regolati da gerarchia.
Per riassumere in poche parole il film della Antoniak non è un film d'amore ma di sentimenti.
E forse sta qui il significato (che si vuole caricare di universalità) del rifiuto di darsi nomi.
Anche se poi la natura dell'uomo porta ad altri, prevedibili, sviluppi.
Nothing personal è un film che sembra fatto apposta per chi soffre del mal d'Irlanda, ideale per animi romantici ma non ruffiano, ambientato in un posto da sogno valorizzato da una fotografia di grandissima qualità (di Daniel Bouquet) e recitato con grande partecipazione dall'attore feticcio di Neil Jordan (quel Stephen Rea per cui il tempo sembra essersi fermato da un pò a questa parte)e da una vera visione, Lotte Verbeek, attrice olandese bellissima con occhi che raccontano d'Irlanda (tra l'azzurro del cielo e il verde delle colline) e capelli ramati che la fanno sembrare più una sirena evocata in un libro delle fiabe che una donna reale.

( VOTO : 7,5 / 10 ) 

Nothing Personal (2009) on IMDb

mercoledì 29 maggio 2013

Mask- Dietro la maschera ( 1985 )

Roy "Rocky " Dennis è un sedicenne malato di leontiasi, una malattia che provoca un abnorme crescita delle ossa del volto a causa di un disordine del metabolismo del calcio con il risultato di deformarlo in maniera orribile. Ma Rocky non si abbatte: è uno studente brillante , ha una madre a cui bada che sembra molto meno cresciuta di lui per via di problemucci di droga, la sua famiglia è una masnada di bikers che lo difende in tutto e per tutto. Ma la malattia gli provoca anche dei feroci mal di testa e i medici dicono che gli rimane poco da vivere...
Mask- Dietro la maschera è relegato tra le opere minori di Peter Bogdanovich ma è il classico piccolo grande film da cui non si riesce a stare a distanza sufficiente.
La storia ( vera) di Rocky Dennis è una di quelle storie che ti strappano il cuore dal petto, che ti estorce a forza le lacrime dai canali lacrimali eppure non lo fa in maniera disonesta e ruffiana.
Bogdanovich racconta la storia di un ragazzo normale, anzi anche più brillante della media, che supera , o almeno cerca di farlo con l'ironia e l'arguzia che lo animano, il problema della diversità.
Lui è sicuramente diverso fisicamente ma una volta superato lo scoglio della sua "particolarità" si rivela in tutta la sua bellezza interiore.
Perchè Rocky è bello e tutti quelli che arrivano a conoscerlo un po' più in profondità se ne rendono conto subito.
E tutti quanti vorrebbero che un giorno o l'altro lui si potesse imbarcare per quel viaggio in Europa in motocicletta che sogna da tanto tempo.
Mask-Dietro la maschera è anche un intenso ritratto di una donna anche lei un po' particolare, un personaggio a cui Cher dona carne e sangue dimostrando la sua bravura da attrice, una madre che non ha la vocazione di esserlo ma che ama incondizionatamente suo figlio al di là dei suoi problemi sentimentali e di droga che la affliggono.
Il film di Bogdanovich è quindi anche la descrizione qua e là poetica del rapporto ispido tra una madre e un figlio un po' diversi dalla media, al centro di una famiglia allargata di bikers , un po' brutti a vederli ma decisamente buoni e di compagnia. La stessa famiglia orgogliosa del diploma di Rocky e che approva rumorosamente il giorno che glielo consegnano.
Per me è difficile giudicare questo film: all'epoca mi commosse profondamente e magari pensavo che essendo poco più che un ragazzo era normale che mi una storia del genere mi colpisse così al cuore.
Però col passare degli anni l'ho rivisto più e più volte e l'effetto è sempre stato lo stesso: quando vedo questo film mi metto sempre a piangere come un vitello e non è decisamente un bello spettacolo.
Ma sinceramente non mi importa molto nascondere il piccolo effetto collaterale che questa pellicola mi provoca.
Molti sommariamente hanno bollato questo film come una sorta di Elephant man versione light: la tematica di base è  la stessa ma se Lynch si richiamava seriosamente all'espressionismo cinematografico nel narrare la storia di un freak dolorosamente consapevole di esserlo, Bogdanovich usa toni molto più lievi cercando di esorcizzare un destino che per Rocky è ormai scritto.
Mask - Dietro la maschera è la storia di un "Elephant" boy che è molto rock'n'roll come la musica di Bob Seger che percorre trasversalmente tutto il film.
E questa è la sua storia: magari romanzata, magari solo ispirata alla vita del vero Rocky Dennis ma non importa.
Meglio chiudere con le sue parole, una piccola poesia lasciata alla madre:
"“Queste cose sono belle: 
un gelato e una torta, una corsa sull’Harley, le scimmie che giocano sugli alberi, la pioggia sulla lingua e il sole che splende sul mio viso. 
Queste cose invece non sono belle: 
i buchi nei calzini, la polvere nei capelli, niente soldi nelle mie tasche e il sole che splende sul mio viso".

Rocky Dennis è morto due mesi prima del suo diciassettesimo compleanno.

( VOTO : 9 / 10 )  Mask (1985) on IMDb

martedì 28 maggio 2013

Bedevilled ( 2010 )

Hae Won giovane e bella funzionaria di banca single in quel di Seul.Un giorno assiste involontariamente a un tentativo di omicidio. Lo stress le complica il lavoro ed è costretta a prendersi delle ferie forzate. Decide di andare a trovare una sua vecchia amica, Bok nam, che vive nell'isola di Moodo. Quello che vede lì la scuote ancora di più: la sua amica, unica donna giovane dell'isoletta abitata solo dalla sua famiglia ( piuttosto allargata) è l'oggetto sessuale ad uso e consumo degli uomini ed è praticamente una schiava al servizio delle altre donne più anziane di lei. Bok nam chiede ad Hae Won di aiutarla a fuggire ma lei è praticamente paralizzata dalla paura e vuole tenersi fuori dalla faccenda.
Ma è praticamente impossibile. La violenza scoppia improvvisa e avrà conseguenze per tutti gli abitanti della piccola isola.
L'incipit è curiosamente vicino a quello di Drag me to hell di Sam Raimi: una vecchia che sembra aver vissuto momenti migliori nella sua vita chiede un prestito( e non sembra neanche il primo) all'altezzosa impiegata Hae-won.
Non c'è verso di ottenerlo, anzi la vecchia è praticamente abbandonata a se stessa mentre è ancora lì.
Ma Hae-won non se la passa tanto meglio: lo stress le fa brutti scherzi ed è costretta dal suo capo a prendersi una vacanza forzata. E se non bastasse assiste anche a un tentativo di omicidio, ma decide di non denunciare i responsabili.
Vive da sola nel suo appartamento, ha ormai la cassetta della posta invasa da lettere che non ha mai letto e decide di andare a trovare la sua amica d'infanzia Bok nam che vive sull'isola di Moodo assieme alla famiglia del marito e alla figlia, unici residenti di un'isola collegata al resto del mondo da un battello che attracca lì una volta al giorno.
Quello che Hae won trova è qualcosa al di fuori della sua comprensione di donna forte, libera ed emancipata.
Nel micorcosmo di Moodo Bok nam è l'ultima nella gerarchia, maltrattata dalle altre donne dell'isola( madre e zie del marito) e sistematicamente prevaricata dagli uomini con l'aggravante che il marito la picchia selvaggiamente e la umilia facendo spesso venire dal continente una prostituta per soddisfare le sue voglie. 
Senza contare che Bok nam sospetta che il marito abbia intenzioni morbose verso la figlia.
In questa situazione Hae Won e Bok Nam cercano di rinsaldare nel ricordo la loro vecchia amicizia. Sono  donne a cui la vita ha riservato tratamento e fortune diverse: la donna indipendente di città con la sua pelle chiara, liscia e le mani delicate sembra quasi una bambola di porcellana in confronto alla sua amica che non ha mai potuto prendersi cura di se stessa, ha la pelle scottata dal sole e le mani callose tipiche di chi lavora.
Bok nam vuole fuggire.

Vendetta, tremenda vendetta.

Bedevilled è ricco di molteplici sottotesti che ne sfumano la narrazione: narra il maschilismo patriarcale della società coreana perfettamente riprodotto nel piccolo dell'isola mascherato da rito ancestrale, il ricordo di un'infanzia e di coni d'ombra rimossi come i primi approcci sessuali ( rimossi probabilmente perchè saffici e quindi contrari a quella che è considerata la morale imparata negli anni a venire:infatti il neanche tanto velato approccio di Bok Nam ad Hae Won sortisce effetti diametralmente opposti a quello vissuto nell'infanzia, in cui  la prima responsabile era stata Hae Won), il desiderio di fuga frustrato che si trasforma  in vendetta polverizzante contro uno spicchio di società in cui stupro e pedofilia appaiono quasi normali e non crimini odiosi quali realmente sono.
Dal dramma della solitudine passando per la narrazione di terribili segreti di famiglia si passa allo slasher all'arma bianca.
Cheol So Jang è stato assistente di Kim Ki Duk e si vede nella plastica composizione dell'inquadratura che non perde mai il suo nitore sia nelle apparentemente sbrigative scene di sesso, sia nell'ultima parte in cui vengono letteralmente affettate carni e sentimenti.
Bok nam matura la volontà di  ribellarsi al suo status di solo oggetto( soprattutto sessuale ad uso e consumo degli uomini dell'isola) quando vede che anche la figlia è vittima delle attenzioni di un padre che ha dato già segni di squilibrio. E il regista è bravissimo a inquadrare quelle che potrebbero essere semplici carezze tra padre e figlia come un gesto morbosamente delittuoso.
Bedevilled non è un semplice vendetta movie o uno slasher, è un qualcosa di più complesso: un film delicato e allusivo quando si tratta di sfiorare la memoria dell'infanzia con l'affetto, tremendamente fisico nella parte finale e nell'epilogo.
Le due protagoniste sono ottime nel caratterizzare in modo così antitetico i loro personaggi modificati, scarnificati dall'ambiente in cui si sono trovate a vivere.
Entrambe  con la volontà di scardinare lo schema precostituito che sembra imprigionarle.
Ed è splendidamente simbolica, nonchè affettuosa citazione del maestro Kim Ki Duk, la scena con al centro quel magnifico corpo di donna che distendendosi sul pavimento assume come per magia  il profilo di un'isola....

( VOTO: 7,5 / 10 )

Bedevilled (2010) on IMDb

lunedì 27 maggio 2013

Nympha ( 2007 )

Una ragazza americana di nome Sarah arriva in Italia per meditare in un convento di clausura e prendere i voti. Deve rimuovere un passato doloroso e le suore del convento che ha scelto hanno dei modi piuttosto strani per cercare di metterla in comunicazione con Dio. La privano infatti dell'udito, della vista del tatto e della parola mediante indicibili torture fisiche portate a termine da un medico/macellaio. Nella solitudine totale in cui è lasciata , Sarah però comincia a non essere più così sola perchè "vede" attraverso gli occhi della mente la storia di Ninfa, bambina cresciuta in una spettrale con una soffitta carica di male inimmaginabile.
E' arrivato il momento della comunione con Dio e anche di andare fino in fondo con la storia di Ninfa, cresciuta da un nonno fanatico religioso....
E' il secondo film che vedo di Ivan Zuccon ed è il secondo centro: nonostante i cronici problemi di budget, nonostante l'evidente povertà di mezzi che si appalesa con un'ambientazione scarna e delle scenografie piuttosto spartane, il regista italiano riesce a fare di necessità virtù e rendere evidente la sua concezione di orrore viscerale usando al meglio il mezzo espressivo.
Nympha è comunque una produzione altamente professionale in cui gli aspetti tecnici sono curatissimi e che lascia intravedere il luminoso talento di Zuccon che si occupa brillantemente anche della fotografia ( in digitale ma con una resa ottima per come rende spettrali gli interni del convento), della produzione e del montaggio.
Insomma Nympha sembra un po' una di quelle cose fatte in casa, ma realizzate con la cura e il talento degli artigiani di una volta , quelli che infondevano vero e proprio amore in quello che facevano.
Pur usando una star della Troma come protagonista, la scream queen Tiffany Shepis, veramente bella ed espressiva che qui si immola anima e corpo in un personaggio doloroso, Zuccon lavora sull'estetica in modo assolutamente antitetico rispetto alla famosa ( o famigerata a seconda dei pareri ) factory americana.
Se per la Troma la ricerca  del weird equivale all'anelito verso un'attitudine trash capace di catturare fini esteti e dicitori della bruttezza che diventa armonia nel lavoro del regista italiano si respira un'aria contraria: Zuccon è un fine intarsiatore di immagini e suggestioni che pur scontrandosi con un budget misero riesce a dare al suo film un'impronta visiva raffinata nel nome di una ricerca dell'estetica dell'inquadratura che è assolutamente al di fuori della filosofia della Troma.
E poi ancora una volta al centro di tutto c'è un discorso religioso per certi versi iconoclasta: se in Colour from the dark il male si insinuava nel bene, scompaginando la fede in Dio dei protagonisti andando ad infangare letteralmente i simboli cattolici, qui sembra che sia proprio l'eccesso di fede a generare il tutto.
Prima del finale ( a sorpresa che naturalmente mi guarderò bene dal rivelare) l'orrore nasce proprio dalla volontà ottusa delle monache di questo strano convento, di arrivare alla totale deprivazione sensoriale ai danni di Sarah perchè , così dicono, quello è l'unico modo per avere una stretta comunione con Dio.
E anche un altro dei personaggi cardine della vicenda di Ninfa, il nonno, è animato da una fosca concezione religiosa nel nome della quale si sente come "autorizzato" a commettere atti di incredibile crudeltà.
Accanto a queste suggestioni religiose di stampo iconoclasta c'è l'orrore un po' più classico, vero quello fatto da crepe nelle porte, da scricchiolii, da sangue e da torture, da cadaveri decomposti e da sciami di mosche che assalgono per uccidere.
Un campionario di estetica horror applicata, centellinato abilmente per provocare ancora più spavento e raccapriccio.
Ivan Zuccon è regista di talento adamantino. Spero che prima o poi qualche produttore volenteroso si accorga di lui e gli permetta di lavorare con un budget adeguato.
E che questo budget non snaturi il suo stile.
Perchè Zuccon ha stile, cosa che molti suoi colleghi più acclamati sognano ad occhi aperti di avere....

( VOTO : 7 / 10 )  Nympha (2007) on IMDb

domenica 26 maggio 2013

Come un tuono ( 2012 )

Luke è un motociclista di quelli che fanno spettacoli acrobatici nei circhi itineranti. Ritrovando una sua vecchia fiamma in una delle città che ha toccato per l'ennesima volta con il suo tour scopre che ha avuto un figlio da lei. Per riuscire a essere un buon padre decide di fermarsi ma la situazione è complicata sia dal punto di vista sentimentale ( la donna è legata a un altro uomo),sia economica perchè Luke non ha il becco di un dollaro. Comincia allora a rapinare banche finchè gli mettono alle costole l'agente Avery Cross. Passano quindici anni , Cross è diventato procuratore pagando un carissimo prezzo a livello personale e comincia ad avere problemi con il figlio AJ , ormai 17enne che è venuto a vivere, si fa per dire perchè lui  è  sempre fuori per lavoro, con lui. Conosce Jack un ragazzo disadattato come lui e dopo un po' sapranno entrambi che curioso disegno il destino ha riservato a loro.
Bisogna fare salti mortali carpiati per raccontare la trama del film senza svelarne i punti nodali che , se rivelati, farebbero diminuire della metà il piacere della visione.
Come un tuono è un film uno e trino che azzarda una finta coralità un po' come l'Haggis di Crash che raccontando varie storie alla fine ne narrava una sola.
E qui è lo stesso: viene narrato in varie tonalità , dal fosco all'elegiaco ( quella corsa con la moto respirando l'aria che gli si para davanti a pieni polmoni per arrivare a quel The place beyond the pines del magnifico titolo originale che è luogo di sogno e di liberazione allo stesso tempo) un percorso che va dalla profondità dell'abisso fino alla luce della catarsi, nascosta lì dove meno te lo aspetti.
Luke è un irresponsabile, riedizione su due ruote del marinaio che ha la donna in ogni porto, che sente finalmente la necessità di mettere radici ma purtroppo per lui le mette nel modo sbagliato visto che imputridiscono in fretta, Avery è un poliziotto che viene meno continuamente ai principi sui quali ha posto giuramento per fare carriera, il giovane Jack vuole scoprire chi era veramente suo padre e corre verso la libertà.
Il tema della paternità percorre come un fil rouge trasversale tutto il film ed è  sviscerato in vari modi tutti col minimo comune denominatore di dimostrare quanto è difficile essere genitori nel mondo di oggi.
Tre storie variamente legate tra di loro che narrano un percorso comune verso una catarsi che arriva per ognuno in forme inattese.
Il film di Cianfrance esteticamente è potentissimo soprattutto nella prima parte , quella abbagliata dallo sguardo magnetico di un Gosling( letteralmente sepolto sotto un'infinità di tatuaggi) che ormai sembra abbonato a personaggi laconici da ultima frontiera americana. Vederlo su quella moto e pensare a Steve McQueen è un flash che attraversa la mente fermandosi lì, in un angolino pronto a ritornare fuori in tutta la sua luce accecante quando sfreccia per le strade con il suo destriero a due ruote.
Le altre due storie narrate accanto ( e oltre ) la prima sono più nell'alveo di certo cinema americano che narra di percorsi personali verso la redenzione e di ricerca delle proprie radici. La corruzione personale e del sistema con cui convive Avery è descritta forse troppo per sommi capi mettendo una  sorta di cuscinetto di quindici anni di intervallo che serve ad ammortizzare il racconto di qualcosa già visto in molti altri film ( e forse anche trattato meglio di quanto faccia Come un tuono) mentre il percorso di (de) formazione e di crescita a cui va incontro il giovane ma già rotto a molte esperienze Jack rientra in una tendenza canonica del genere coming of age, tipica di certo cinema indie americano.
In 140 minuti Come un tuono forse vuole raccontare troppo comprimendo avvenimenti e schiacciando personaggi ( trattato assolutamente male il personaggio di Eva Mendes utilizzato solo per la classica scena madre e doppiato malissimo, mentre il bad fella Liotta lascia il rimpianto di un'apparizione troppo breve).
Una cosa è certa: Derek Cianfrance sa lavorare con gli attori perchè li spinge tutti ad ottimi livelli.
Come un tuono pur lavorando sugli arzigogoli del destino riesce alla fine a dimostrare la sua tesi: è dannatamente difficile essere genitori nel mondo di oggi.
E' dannatamente difficile anche solo viverci.


( VOTO : 7 / 10 )

The Place Beyond the Pines (2012) on IMDb

sabato 25 maggio 2013

Straw dogs - Cani di paglia ( 2011 )

David Sumner, sceneggiatore losangelino, torna con la moglie Amy, attrice conosciuta sul set della sit com in cui lavoravano assieme, al paese natio di lei, nel profondo sud degli Stati Uniti . Hanno una casa isolata e per lui è un posto perfetto per scrivere la sua nuova sceneggiatura incentrata sulla battaglia di Stalingrado. Assumono dei manovali locali ( tra cui un focoso ex della moglie) per sistemare il tetto del granaio ma le cose non vanno come previsto. David è un corpo estraneo e la conflittualità verso di lui aumenta giorno per giorno.
Finchè un incidente in cui sono involontariamente coinvolti scatenerà la violenza assoluta.
Straw dogs-Cani di paglia è il remake di un film che ho amato e amo tuttora moltissimo, Cane di paglia ( stesso titolo in originale che in italiano chissà perchè è stato tradotto al singolare) del mio adoratissimo Sam Peckinpah, film di cui possiedo il dvd e che ogni tanto rimetto nel lettore per riconciliarmi col grande cinema. E quindi partiamo male.
E' diretto da Rod Lurie, ex critico cinematografico di grido che poi è passato dall'altra parte della barricata per realizzare cinema e televisione. E anche questo non depone a favore perchè un regista di questa estrazione non attira certo le mie simpatie, ha sempre quell'aria un po' da raccomandato che non ha fatto la gavetta come tutti gli altri.
Vedendo la locandina del film si nota anche che è ricalcata carta carbone su quella originale con il solo accorgimento di sostituire il faccione di James Marsden a quello di Dustin Hoffman. Quindi peggio di così non si può partire.
Altra cosa da notare è che l'ambientazione inglese rurale che era un personaggio aggiunto nel film di Peckinpah è sostituita dal profondo sud degli Stati Uniti che sarà bello e tutto ma non regge minimamente il confronto.
Aggiungiamo anche che James Marsden è messo piuttosto bene fisicamente, certo antropometricamente meno dotato dei suoi contendenti ma sicuramente di un'altra taglia fisica rispetto al brevilineo Hoffman che solo a vederlo diresti che non sarebbe stato capace di fare male a una mosca. E anche questo è un punto a sfavore perchè nel primo il corto circuito di violenza cieca che veniva creato traeva linfa vitale dall'aspetto inoffensivo di Hoffman, mentre Marsden non sembra così inoffensivo.
E per finire parliamo pure delle protagoniste femminili: se Susan George aveva dalla sua un erotismo forse anche inconsapevole, Kate Bosworth sa benissimo di essere una bomba sexy e non lo nasconde risultando un oggetto del desiderio conclamato a differenza della malizia un po' ingenua che animava l'altra.
E la sequenza dello stupro è molto più soft in questa nuova versione che non in quella di Peckinpah che all'epoca ebbe molti problemi con la censura. E questo sorprende perchè oggi l'asticella del mostrabile è molto più alta di quello che era nell'anno di grazia 1971.
Quindi sembra che con questo remake andiamo male, malissimo anzi...eppure...
Straw dogs-Cani di paglia del 2011 non è così brutto come sembra: Rod Lurie sa benissimo che non può confrontarsi con l'originale e pur rispettandone lo script cerca di fare qualcosa altro con una costruzione drammaturgica in crescendo che per uno spettatore " vergine" ( cioè che non ha visto l'altro) può risultare gradita.
Il film è recitato in maniera più che decente( fa macchia il personaggio recitato da un irriconoscibile , almeno all'inizio James Woods, talmente sovraccarico da essere caricaturale) e viene inoculato di tutta una serie di suggestioni che forse non appartenevano all'altro: se l'intellettuale è una sorta di femminuccia  agli occhi dei buzzurri locali solo perchè sa articolare due parole e magari ha una cognizione seppur vaga delle buone maniere, il rapporto che i ragazzi locali hanno con Amy è piuttosto controverso. Lei è fuggita da quel posto ( uno dei personaggi dice che fin da piccola conosceva tutti gli orari degli autobus per andare via ) , ha avuto successo, è diventata famosa. E loro sono rimasti lì, a ingozzarsi di birra a vedere la partita della locale squadra di football il venerdì sera e a ritrovarsi la domenica mattina tutti in chiesa e magari ci scappa anche una benedizione collettiva insieme a quella data dal prete all'intero parco giocatori.
Amy diventa un qualcosa su cui vendicarsi, su cui rivalersi proprio perchè lei è arrivata dove loro non arriveranno mai.
E la profonda provincia del sud americano, quella nei dintorni del fiume Mississippi, non ci fa affatto una bella figura dipinta come un coacervo di razzisti e di gente che conosce unicamente la giustizia fai da te, meglio se amministrata secondo la sempiterna legge del taglione.
Straw dogs-Cani di paglia è in fondo di qualità accettabile ma ne esce irrimediabilmente con le ossa rotte da qualsiasi confronto fatto con l'originale.Quindi l'avvertenza per l'uso è quella di non fare troppi paragoni.
Ecco perchè cerca di svicolare per altri lidi.
Fatta la tara al suo essere sostanzialmente superfluo non è un remake così pedestre.

( VOTO : 5,5 / 10 )  Straw Dogs (2011) on IMDb

venerdì 24 maggio 2013

The tree of life ( 2011 )

A Jack bimbo undicenne del Texas sembra di vivere una vita incantevole assieme ai genitori e ai fratelli.Questo nonostante dai genitori arrivino messaggi e insegnamenti di tenore diverso:inerenti alla grazia e alla spiritualità quelli della madre, più inclini all'autoritarismo quelli del padre . Verrà il tempo per Jack di perdere l'innocenza e questo a causa del suo incontro con la malattia, la sofferenza e la morte. Comincerà una nuova consapevolezza verso quello che lo circonda. Il suo percorso di crescita ha avuto inizio e terminerà quando adulto si troverà a vivere una vita di disllusione e rimpianto..
Piccola nota: queste sono impressioni che furono scritte a caldo appena dopo la visione al cinema: più che una recensione , il racconto di una serata.
Dopo aver aspettato a lungo e osservato incredulo il suo successo al box office (probabilmente più per deficienze di incassi altrui che per meriti propri) finalmente mi decido ad andare a vedere l'ultima discussa opera del misterioso Malick. Oddio, più che misterioso sembra solo che voglia fare il fenomeno visto che qualche foto lo ha immortalato mentre festeggiava sotto la curva con Brad Pitt in quel di Cannes. E allora perchè non andare a ritirare il premio?
Perchè non farsi intervistare piuttosto che farsi fotografare di nascosto col teleobiettivo? Domande senza risposta,ma almeno queste sono di bassa lega. La biglietteria è quasi deserta pur essendo  un giorno festivo e mi aspetto di trovare una sala vuota o quasi.
E invece no, la sala è piena almeno per metà. Facendo una rapida ricognizione delle facce, conoscendo anche i tipi che stanno dietro a quelle facce devo dire che non sono tipi da Malick e la mia non è una distinzione manichea.
Forse hanno sbagliato sala o forse è l'effetto Brad Pitt che attira mandrie di blockbustivori.
Un pò come successe a Eyes Wide Shut di Kubrick in cui tutti avevano occhi solo per Tom e Nicole. Con tutto il resto del film che faceva loro letteralmente schifo. Ci hanno messo in ultima fila, non abbiamo neanche nessuno al piano di sotto quindi se ogni tanto ci scappa un calcio alla poltrona davanti non ci sarà nessuno che protesta.
Disinnesco la canzone dei Behemoth che ho come suoneria sul mio telefono (che se per caso parte lo squillo la sentono anche nella sala a fianco), spengo anche l'altro telefono (quello professionale) e ci accomodiamo.
Gente assortita sgranocchia e parla senza rispetto, ogni tanto le luci dei cellulari fendono il buio come traccianti quasi a voler offendere le rètine ignare.
Non proprio un'atmosfera ideale per vedere il film.
La prima domanda che mi faccio è quanti ne resteranno alla fine della visione. La classica domanda da highlander. Eppure strano a dirsi solo un paio di persone rinunciano e addirittura si beccano un sommesso "bravo" da altri spettatori che evidentemente stanno ancora avvitati sulle loro poltrone solo per poter dire che loro il film lo hanno visto tutto. Vedere Malick fa terribilmente fico, magari uno si può dare anche un tono. Addirittura a metà visione entra in sala un addetto dello staff del cinema e dà un'occhiata in giro,magari vuol vedere se ci sono morti, feriti, dispersi o semplicemente addormentati.
Dal mio punto di vista è un film che necessita di ulteriori visioni per poter essere valutato compiutamente.A una prima visione se ne possono ricavare solamente impressioni parziali perchè un film come questo deve essere obbligatoriamente fatto sedimentare.
Solo il tempo dirà. The tree of life  racconta l'ossessione che ha Malick per il ciclo della vita, cerca di descrivere in immagini (ben consapevole della fallacità, dell'inadeguatezza di ogni mezzo espressivo) l'uno che si congiunge con il tutto,l'uno che diventa il tutto e il tutto che diventa uno, ,la reazione chimica che diventa biochimica, biologica fino a parlare di vita vera e propria.
Il solito impalpabile confine tra semplice chimica e la scintilla della vita. Secondo me sono superficiali i paragoni fatti con Kubrick perchè qui in Malick il ciclo della vita è la partenza di tutto, in Kubrick diventava un punto d'arrivo della ricerca dell'entità uomo.
In Malick l'approccio è spiccatamente teosofico, in Kubrick è profondamente ancorato alla scienza,a tutto ciò che è dimostrabile.The tree of life è un film che pone domande e non dà risposte, un flusso di coscienza tradotto in immagini, un tourbillon di sensazioni e di suggestioni in cui l'entità uomo è al centro di enigmi inestricabili.
Le sue domande sono destinate a non avere risposta o meglio l'io narrante le risposte deve trovarle all'interno della propria anima errante tra religione e filosofia.
E'un discorso sfuggente,in equilibrio su un filo sottilissimo in cui Malick probabilmente infonde un carattere generosamente autobiografico. In quella famiglia disastrata dal dolore e da un padre anaffettivo evidentemente Malick racconta molto di sè. In quegli anni '50, in quelle roads molto revolutionary, in quelle Wisteria Lanes pulite e ordinate si consuma un rapporto asimmetrico tra genitori e figli: una madre che cerca di concedere tutta se stessa e tutto il suo amore ai suoi figli e un padre duro come la pietra, violento e privo di umana comprensione.

Probabilmente questa sezione di film così autobiografica è l'intervista migliore che abbia mai rilasciato Malick,quella che mostra i particolari più reconditi dell'animo di uno degli ultimi grandi autori americani.
The tree of life assume per questo l'aspetto di una summa del Malick pensiero, il suo porsi incessantemente domande su Dio,sulla Grazia e sul perchè esiste un'entità superiore che permette l'accadere delle tragedie senza battere ciglio o che permette agli impuri di spirito di procedere sempre su una corsia preferenziale a scapito di chi ha sempre rispettato le regole. Le immagini si affollano in gran quantità, le parole molto meno ed è scelta meritoria perchè in una materia delicata come questa le parole possono sconfinare facilmente nella banalità risultando dissonanti rispetto a cotanta bellezza figurativa.
Due ore e venti dopo che ci siamo seduti si alzano le luci. E con l'illuminazione vengono fuori risate di scherno e una specie di sospiro di sollievo. Mi spiace. E'un film che può non piacere ma esprimere così fragorosamente il proprio dissenso ....
La maggior parte fugge a gambe levate dalla propria postazione,solo in pochissimi rimaniamo a vedere i titoli di coda. Arriva l'addetta alla pulizia della sala:non ci dice nulla ma con uno sguardo ci fa capire che in questo momento siamo di troppo, siamo solo un intralcio al suo veloce passare in mezzo alle file di sedili. Ci alziamo e cominciamo a parlare tra di noi.Non siamo d'accordo su nulla ma su una cosa conveniamo tutti: prima d'ora non avevamo mai visto nulla di simile ....

Un'ultima nota finale: da quel giorno non l'ho più rivisto. Sinceramente ho paura di farlo.

( VOTO : 8 / 10 )  The Tree of Life (2011) on IMDb

giovedì 23 maggio 2013

Colour from the dark ( 2008 )

Seconda Guerra Mondiale: Pietro, non partito per la guerra a causa di una malformazione al ginocchio, vive in una fattoria nella pianura padana assieme alla moglie Lucia e alla sorella di lei, Alice, una ragazza già adulta affetta da problemi psichici che non le permettono neanche di parlare.Un giorno Pietro e Alice per disincagliare un secchio dal fondo del pozzo liberano un qualcosa di cui all'inizio neanche si accorgono. Pietro guarisce dal suo problema al ginocchio, Alice comincia a parlare dicendo cose di senso compiuto, i campi diventano rigogliosi e ricchi di ortaggi bellissimi. Ma è solo l'inizio: Lucia comincia a mostrare preoccupanti segni di squilibrio ( tra cui uno smisurato appetito sessuale), le cose cominciano ad avvizzire , anche Pietro e Alice cominciano a mostrare sintomi inquietanti che il Male, quello con la M maiuscola si è impadronito di loro....
Cominciamo dalla fine: questo film è stato girato nel 2008 in lingua inglese con attori stranieri da un regista che più italiano non si può, Ivan Zuccon ( che lo ha anche montato e fotografato). Ha trovato addirittura una fugace distribuzione nelle sale italiane nel marzo non del 2008. Del 2012.
Si, 2012.
Noi tutti stiamo qua a lamentarci dello stato comatoso in cui versa il cinema italiano di genere ( e non) e quando abbiamo tra le mani un regista bravo ( perchè Zuccon, è un signor regista, molto meglio di certi suoi acclamatissimi colleghi) ci facciamo sfuggire così le sue opere?
Perchè il buon Ivan, già collaboratore di Avati una vita fa, giusto per rinforzare l'assioma del nemo propheta in patria, è molto più conosciuto all'estero, dove ha anche un certo manipolo di seguaci e gode di una discreta considerazione, piuttosto che da noi, praticamente costretti a fare i salti mortali per procurarci i suoi film.
Anche se forse, almeno per Zuccon , qualcosa sembra che stia cambiando.
Colour from the dark è tratto da uno dei racconti più famosi di Lovecraft, The colour out of space, ne trasferisce l'ambientazione dal New England alla pianura padana nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale, ottimo espediente per giustificare il numero limitato di attori impiegato. Del resto tutti gli uomini sono partiti per la guerra.
Già dalle prime sequenze siamo calati subito in un'atmosfera carica di elettricità negativa, il Male aleggia sin da subito e Zuccon è bravo a fare di necessità virtù: con un budget ultralimitato ( si parla di 75 mila euro) e un uso intelligente del digitale riesce a fare un prodotto veramente professionale a partire dalla recitazione( Debbie Rochon uber alles ma anche tutti gli altri sono veramente all'altezza, cosa affatto scontata in tanti filmetti horror affetti da cagneria recitativa cronica) per arrivare a tutti gli aspetti tecnici degni di una produzione molto più ricca e blasonata.
Zuccon è veramente bravissimo con la cinepresa, è autore di una fotografia bellissima che riprende magnificamente tutti i cambi di tonalità del racconto, passando dalle tonalità accese e calde della vita a quelle grigiastre del male assoluto che sta contagiando come una malattia infettiva tutto quello che è all'interno della fattoria, umani compresi.
Da notare la contrapposizione continua che c'è nel film tra la religione e il male, tra la fede e il demonio che una volta impossessatosi del corpo di Lucia cerca di distruggere tutti i simboli cattolici a partire da quel crocifisso così maltrattato per arrivare all'incontro/ scontro col prete che tenta di scacciarlo dalla malcapitata..
Sicuramente memore della lezione visiva del Friedkin de L'esorcista, Colour from the dark tuttavia cammina con le proprie gambe , figlio di uno stile e di una visione orrorifica assai personali. Anche se non nega  riferimenti ben codificati nell'immaginario horror.
E' un film ambizioso ma non presuntuoso come ad esempio La casa nel vento dei morti, altro esempio di horror padano che però fallisce proprio per il suo voler sembrare qualcosa che non è.
Colour from the dark è un horror assai piacevole che regala la sua bella compilation di spaventi e anche una congrua dose di splatter ( nonostante il budget esiguo).
Quel che stupisce di più in questa produzione nostranissima è il lavoro certosino nella costruzione dell'inquadratura ,una sorta di quadro che presto si dissolverà nel nero assoluto.
Ivan Zuccon ha talento e sarei molto curioso di vederlo all'opera con un budget adeguato.
E' triste vedere uno come lui praticamente ignorato in Italia, sempre più terzo mondo cinematografico.

( VOTO : 7 / 10 ) 

Colour from the Dark (2008) on IMDb

mercoledì 22 maggio 2013

Il grande Gatsby ( 2013 )

Primavera 1922:l'aspirante scrittore Nick Carraway lascia il Midwest per trasferirsi a New York in quel tempo culla del vizio e dell'edonismo più sfrenati. Va ad abitare in una piccola casa malmessa che però è vicina all'immensa villa del ricchissimo e misteriosissimo Jay Gatsby, un milionario dagli affari oscuri che è diventato famoso per le affollatissime feste all'insegna dell'eccesso che si tengono nella sua villa. Quasi non volendo gli diventa amico e lui piano piano gli svela chi veramente è Jay Gatsby: un uomo segnato da un passato ingrato: un amore intenso ma impossibilitato dalle sue condizioni economiche di quel tempo per Daisy,pusillanime moglie di un riccone che non la ama e che non perde occasione di maltrattarla. I nodi vengono al pettine, gli incroci amorosi vengono allo scoperto, ma l'ineluttabile tragedia è dietro l'angolo.
Se questa di Luhrmann è la quarta riduzione cinematografica del romanzo di Francis Scott Fitzgerald , credo che un motivo si debba essere e risiede senza dubbio in quell'alone di fascino e di mistero che è racchiuso nel carsmatico personaggio di Jay Gatsby, l'ennesimo declinatore del Sogno Americano, l'uomo fatto da sè, quello apparentemente disonesto e corrotto e che invece svela la sua personalità a suo modo candida, prigioniero di un amore impossibile che per lui è diventato allo stesso tempo ossessione e unica ragione di vita.
L'impressione che ho avuto vedendo Il grande Gatsby di Luhrmann è che il regista australiano abbia usato il romanzo di Scott Fitzgerald come un semplice trampolino per raccontare il proprio universo fatto di eccessi visivi ( i costumi da soli valgono il prezzo del biglietto), scenografie pantagrueliche, musiche dissonanti dal contesto nel tentativo continuo, forse anche pretenzioso di rielaborare , ma soprattutto di dare un'aura di nobiltà al concetto di kitsch applicato al cinema.
La pellicola nelle oltre due ore diventa una sorta di caleidoscopio itinerante della carriera di Luhrmann caratterizzata da riletture sempre al limite, se non oltre , dell'iconoclastia.
E da buon australiano demolisce alla base il Sogno Americano dipingendo la New York degli anni '20 come la culla mondiale della perversione, un piccolo mondo a parte in cui se non infrangi la legge o le regole del buon costume non sei nessuno.
La figura di Jay Gatsby ( un DiCaprio eccellente per misura e carisma) proprio per questo giganteggia, unico personaggio tridimensionale in un mondo di figurine piatte, sfocate e schiacciate da un mondo di sola apparenza e dal carisma del misterioso magnate che affascina e manipola come pochi.
Ma che, ironia della sorte, pur potendo ottenere tutto ( o quasi) con le sue immense ricchezze non riesce a ottenere quello che desidera di più nella vita: la sua amata Daisy, una Carey Mulligan ridotta alla statura infima di una pusillanime bambola di pezza inutilmente ciarliera e incapace di distaccarsi dalle sue sicurezze immanenti per fare un salto nel buio di un nuovo amore.
E proprio questa parte del film, quella che deve raccontare l'amore di Jay e Daisy , sembra quella che interessa di meno a Luhrmann, quasi la maltratta risolvendola in modo abbastanza sbrigativo ( vedi la sequenza alla suite del Plaza a New York in cui Jay finalmente confessa a tutti il suo amore, mentre Daisy mostra una volta ancora la sua codardia, oppure tutta l'affannosa corsa verso il gran finale) e toccando il cuore del melodramma in una sola fugace sequenza in cui non c'entrano Jay e Daisy ma  Myrtle che da dietro una finestra versa lacrime amare e silenziose quando finalmente capisce che è solo un sollazzo per Buchanan ( il marito di Daisy) abituato ad avere tutto e subito solo grazie al suo conto in banca.
Ecco se Il grande Gatsby avesse esplorato meglio questo lato melodrammatico della vicenda con lo stile fatto di allusioni e sottintesi di Fitzgerald forse starei qui a parlare di un capolavoro.
E invece manca quel qualcosina in questa storia che non riesce a essere una di quelle vicende larger than life che arrivano a strapparti il cuore dal petto.
Il cinema di Luhrmann si dimostra ancora una volta un unicum nel panorama internazionale: non solo lustrini e pailettes, non solo un 3 D usato poco ma bene, non solo uno stordimento multisensoriale per il bombardamento massiccio con suoni e colori.
C'è invece molto altro che sicuramente dividerà critica e pubblico proprio per il suo rifuggire dal canonico, per la sua volontà di sorprendere sempre e comunque.
Il grande Gatsby è un film bello da vedere che arriva agli occhi, forse un po' meno al cuore. Ma il modo di raccontare di Luhrmann è qualcosa che affabula, anzi affascina proprio per il suo stile postomoderno mediante il quale si sforza a fare un cinema che più classico non si può.
Sotto la patina della tecnologia Il Grande Gatsby è uno di quei classiconi che si facevano una volta e ora non si fanno più, forse anche più della versione del '74, quella con Redford e Mia Farrow che aveva la griffe di Francis Ford Coppola in sede di sceneggiatura che a mio parere soffriva di una certa inerzia soprattutto dovuta a una regia un po' piatta di un calligrafo competente come Jack Clayton che però a parte Suspense non ha mai avuto le stimmate del grande regista.
Più mi perdevo nelle stordenti scene di massa di questo film, nel suo pantagruelismo visivo e più pensavo a come Luhrmann sia avanti rispetto a tutti gli altri in quanto a scrittura e stile, per esempio anni luce avanti rispetto a un Cameron che continua a essere tanto progredito tecnologicamente quanto deteriore( se non vecchio) nel suo modo di scrivere e narrare.
Quello del folle Baz  è cinema classico e postmoderno allo stesso tempo.
E ci vuole una bella faccia tosta per proporlo in tempi di cinema usa e getta come quelli odierni.
Perchè l'epopea di Jay Gatsby non finisce con i titoli di coda ma continua.
Gatsby, l'ultimo grande eroe romantico.
Il grande Gatsby.

( VOTO : 7,5 / 10 ) The Great Gatsby (2013) on IMDb