Una donna col vizio del gioco d'azzardo, moglie di un facoltoso industriale viene trovata morta in uno dei quartieri periferici più malfamati di Parigi. Sul caso si trovano a investigare il capitano Monge, susseguioso aspirante commissario della sezione omicidi sempre molto attento a dire di si a chi gli è superiore in grado e il tenente Diakitè ,della sezione crimini finanziari di Bobigny, figlio nero della banlieue che usa metodi di investigazione un filo meno ortodossi. Le indagini li portano a conoscenza di uno squallido sottobosco di accordi sottobanco tra industria e sindacati e soprattutto vengono a capo di quello che sembrava un caso irrisiolvibile rischiando la loro stessa vita. Non male per due che sembravano abitare su due pianeti diversi, cioè il centro e la periferia di Parigi.
Il successo planetario di Quasi Amici ha sdoganato il talento comico di quell'armadio d'ebano pieno di muscoli che corrisponde al nome di Omar Sy, col rischio sempre più concreto che quel magico personaggio che gli ha regalato la notorietà diventi una specie di scheletro nell'armadio da portarsi nel proseguio della carriera.
L'Ousmane Diakitè di questo film appare infatti come figlio naturale del Driss dell'altro film,uno indurito dai casi della vita però capace sempre di sorridere davanti a tutto, impegnato in una storia un po' diversa che cerca di contaminare la commedia con la classica struttura del polar francese.
Ne esce fuori un poliziesco all'acqua di rose che rispetta in pieno i canoni del buddy movie americano , quello che si riconosce nei canoni stilistici mostrati da film come 48 ore o Arma Letale.
Due agenti molto speciali gioca interamente , pregio e limite allo stesso tempo, sulle contrapposizioni dei due protagonisti: uno bianco e uno nero, uno ama il Belmondo di Joss il professionista, l'altro ha come idolo incontrastato Eddie Murphy ( al punto da avere il tema portante della colonna sonora di Beverly Hills Cop come suoneria al telefonino) , uno che aspira a frequentare il salotto buono della società parigina, l'altro che frequenta posti meno raccomandabili e se ne frega beatamente dell'alta società.
Con la progressione del film ci si accorge di quanto il figlio della banlieue sia quello più rigido moralmente, attento a crescere da solo un figlio che si dimostra molto sveglio, mentre quello che dovrebbe essere quello più inserito in codici comportamentali più conformisti sia in realtà protagonista di una vita notturna sregolata e piena di eccessi.
L'alchimia che si crea tra Omar Sy e Laurent Lafitte è comunque buona e proprio per questo il film indugia più sulla descrizione dei suoi protagonisti che sulla vicenda criminosa che li ha visti riuniti.
Anzi l'intreccio poliziesco è piuttosto maltrattato preferendo inserire gags divertenti in una narrazione che per il resto regala poche sorprese.
La cosa che evidentemente interessa ai produttori e realizzatori di questo film è una dose di sano e robusto intrattenimento al costo di prendere in giro un genere cinematografico sacro in Francia , quale il polar, anzi contaminandolo col classico poliziesco/buddy movie all'americana.
Un film fatto esclusivamente per il pubblico che abiura consapevolmente da qualsiasi ambizione autoriale ma che dimostra come l'industria francese abbia raggiunto un livello di confezione tale che non ha nulla da invidiare al modello hollywoodiano.
Il pubblico ha risposto positivamente: in Francia nonostante a Natale si scontrasse con grossi calibri ha incassato oltre 15 milioni di euro.
Nulla di paragonabile all'exploit dell'anno prima con Quasi Amici ma non male per essere un prodotto totalmente autoctono.
In questi tempi di crisi poi....
( VOTO : 6 + / 10 )
I miei occhi sono pieni delle cicatrici dei mille e mille film che hanno visto.
Il mio cuore ancora porta i segni di tutte le emozioni provate.
La mia anima è la tabula rasa impressionata giorno per giorno,a 24 fotogrammi al secondo.
Cinema vicino e lontano, visibile e invisibile ma quello lontano e invisibile un po' di più.
martedì 30 aprile 2013
lunedì 29 aprile 2013
The Gerber syndrome- Il contagio ( 2011 )
La sindrome di Gerber è una malattia virale trasmessa da un misterioso agente patogeno che fa la sua comparsa per la prima volta in Germania nel 2008 : esordisce come una banale influenza , progredisce rapidamente come malattia esantematica e poi esita in tutta una serie di sintomi nervosi legati alla meningite che provoca. Non è sempre mortale ma chi ne è colpito perde la totalità delle sue qualità intellettive e soprattutto diventa violento, un specie di zombie che attacca i suoi simili .
Il film segue il dottor Ricardi che , pedinato da una crew televisiva , assiste una contagiata dalla sindrome e un operatore "sanitario" ( seguito da un'altra troupe televisiva sempre mnell'ambito del progetto di un documentario sulla sindrome), dipendente della Central Security, un'organizzazione parasanitaria che si occupa del recupero degli infetti e che li porta in una specie di sanatorio a vivere il resto della loro povera vita.
Spesso le crew televisive, sempre al centro dell'azione, diventano parte integrante agli avvenimenti....
E' veramente con vivo piacere che mi accingo a parlare bene di un film horror italiano, il solito prodotto no budget ( si parla di 20 mila euro) girato con la tecnica del mockumentary e che testimonia, ancora una volta, che se c'è un'idea forte alla base si possono bypassare anche i soliti , sempiterni , problemi economici nella realizzazione di qualcosa di artisticamente valido.
Intendiamoci , The Gerber Syndrome-Il contagio non è nulla di eclatante o di particolarmente eccitante, spesso dà l'impressione che il film vada dove lo porta il budget, scegliendo soluzioni "economiche", ma fa enorme piacere trovarsi di fronte a un prodotto professionale, onesto e animato da sincera passione.
E girato veramente con un pugnetto di euro. Già faremmo un grosso passo avanti se il Ministero della Cultura si ricordasse di sovvenzionare giovani cineasti che hanno bisogno veramente di un aiuto concreto per i loro progetti , smettendo di foraggiare produzioni di vecchi dinosauri che non si sa dove buttino i loro soldi ( ogni riferimento ai 7 milioni di euro spesi per il Dracula 3 D è puramente voluto, film classificato come prodotto di interesse culturale nazionale).
Chissà quanti progetti interessanti di giovani cineasti sono morti sul nascere proprio per la mancanza di fondi e di qualcuno che non sovvenzionasse i soliti noti.
Ma stiamo divagando e non rendendo giustizia al film: The Gerber Syndrome-Il contagio racconta con le cadenze del falso documentario la storia di una malattia contagiosa che ha creato psicosi nella popolazione, ha determinato un cambiamento delle forme di aggregazione sociale ( chiusi molti luoghi di divertimento come locali notturni e discoteche) e soprattutto un clima di sospetto reciproco che può esplodere sotto forma di violenza cieca da un momento all'altro.
La regia alterna brillantemente le vicende del dottor Ricardi che assiste a domicilio la figlia di un suo amico e la notte di Luigi una specie di operatore destinato al recupero di infetti che più o meno ha la stessa attrezzatura di un accalappiacani-
Il pregio del film sta nel non scegliere una strada già battuta da moltissimi altri film: se già in passato sono stati narrate storie di contagi e di malattie che hanno sterminato gran parte della popolazione, qui si vede tutto dalla prospettiva di chi assiste il malato in questione ( il dottor Ricardi) e di chi si occupa della loro neutralizzaione. Niente derive zombistiche ma anche un azzardo di discorso sociale ( vedi le riflessioni sulle discoteche e sui luoghi di aggregazione delle giovani leve ) che implica una certa interazione da parte dello spettatore che non subisce passivamente lo spettacolo ma è invitato alla riflessione.
Lo stile documentaristico inoltre permette di far leva su quelle che sarebbero le debolezze di un film normale: parliamo di una recitazione abbastanza rustica che però inserita in un linguaggio cinematografico del genere diventa assai credibile e comunque molto più credibile di un qualsiasi guitto che infarcirebbe di melodramma il suo recitato, l'illuminazione che va e che viene per via delle numerose scene notturne che dà al tutto un impronta molto più realistica e l'intelligente scelta di locations, poche ma buone, in cui anche una Facoltà di Medicina Veterinaria diventa un'ottima controfigura di una struttura sanitaria a uso umano.
Ci sono alcuni evidenti debiti da pagare ( [Rec] in primis ), la limatura di qualche particolare avrebbe giovato ma The Gerber Syndrome-Il contagio funziona soprattutto perchè è qualcosa di credibile, qualcosa di tangibile che potrebbe succedere anche alla porta accanto.
E proprio per questo determina una certa inquietudine.
Il suo aspetto "povero" paradossalmente diventa uno dei suoi punti di forza proprio perchè rafforza la verosimiglianza della storia raccontata
E fare un prodotto che può essere tranquillamente esportato con un budget così ridotto è veramente qualcosa che ha dello straordinario in un panorama asfittico come quello del cinema italiano.
Onore al regista Maxi Dejoie e a chi è stato coinvolto in questo progetto , realizzato nel 2011, con un buon bagaglio di presenze nei festival nazionali e internazionali e approdato finalmente in dvd il 23 aprile di quest'anno.
Supportate il cinema italiano. Stavolta ne vale la pena.
( VOTO : 6,5 / 10 )
Il film segue il dottor Ricardi che , pedinato da una crew televisiva , assiste una contagiata dalla sindrome e un operatore "sanitario" ( seguito da un'altra troupe televisiva sempre mnell'ambito del progetto di un documentario sulla sindrome), dipendente della Central Security, un'organizzazione parasanitaria che si occupa del recupero degli infetti e che li porta in una specie di sanatorio a vivere il resto della loro povera vita.
Spesso le crew televisive, sempre al centro dell'azione, diventano parte integrante agli avvenimenti....
E' veramente con vivo piacere che mi accingo a parlare bene di un film horror italiano, il solito prodotto no budget ( si parla di 20 mila euro) girato con la tecnica del mockumentary e che testimonia, ancora una volta, che se c'è un'idea forte alla base si possono bypassare anche i soliti , sempiterni , problemi economici nella realizzazione di qualcosa di artisticamente valido.
Intendiamoci , The Gerber Syndrome-Il contagio non è nulla di eclatante o di particolarmente eccitante, spesso dà l'impressione che il film vada dove lo porta il budget, scegliendo soluzioni "economiche", ma fa enorme piacere trovarsi di fronte a un prodotto professionale, onesto e animato da sincera passione.
E girato veramente con un pugnetto di euro. Già faremmo un grosso passo avanti se il Ministero della Cultura si ricordasse di sovvenzionare giovani cineasti che hanno bisogno veramente di un aiuto concreto per i loro progetti , smettendo di foraggiare produzioni di vecchi dinosauri che non si sa dove buttino i loro soldi ( ogni riferimento ai 7 milioni di euro spesi per il Dracula 3 D è puramente voluto, film classificato come prodotto di interesse culturale nazionale).
Chissà quanti progetti interessanti di giovani cineasti sono morti sul nascere proprio per la mancanza di fondi e di qualcuno che non sovvenzionasse i soliti noti.
Ma stiamo divagando e non rendendo giustizia al film: The Gerber Syndrome-Il contagio racconta con le cadenze del falso documentario la storia di una malattia contagiosa che ha creato psicosi nella popolazione, ha determinato un cambiamento delle forme di aggregazione sociale ( chiusi molti luoghi di divertimento come locali notturni e discoteche) e soprattutto un clima di sospetto reciproco che può esplodere sotto forma di violenza cieca da un momento all'altro.
La regia alterna brillantemente le vicende del dottor Ricardi che assiste a domicilio la figlia di un suo amico e la notte di Luigi una specie di operatore destinato al recupero di infetti che più o meno ha la stessa attrezzatura di un accalappiacani-
Il pregio del film sta nel non scegliere una strada già battuta da moltissimi altri film: se già in passato sono stati narrate storie di contagi e di malattie che hanno sterminato gran parte della popolazione, qui si vede tutto dalla prospettiva di chi assiste il malato in questione ( il dottor Ricardi) e di chi si occupa della loro neutralizzaione. Niente derive zombistiche ma anche un azzardo di discorso sociale ( vedi le riflessioni sulle discoteche e sui luoghi di aggregazione delle giovani leve ) che implica una certa interazione da parte dello spettatore che non subisce passivamente lo spettacolo ma è invitato alla riflessione.
Lo stile documentaristico inoltre permette di far leva su quelle che sarebbero le debolezze di un film normale: parliamo di una recitazione abbastanza rustica che però inserita in un linguaggio cinematografico del genere diventa assai credibile e comunque molto più credibile di un qualsiasi guitto che infarcirebbe di melodramma il suo recitato, l'illuminazione che va e che viene per via delle numerose scene notturne che dà al tutto un impronta molto più realistica e l'intelligente scelta di locations, poche ma buone, in cui anche una Facoltà di Medicina Veterinaria diventa un'ottima controfigura di una struttura sanitaria a uso umano.
Ci sono alcuni evidenti debiti da pagare ( [Rec] in primis ), la limatura di qualche particolare avrebbe giovato ma The Gerber Syndrome-Il contagio funziona soprattutto perchè è qualcosa di credibile, qualcosa di tangibile che potrebbe succedere anche alla porta accanto.
E proprio per questo determina una certa inquietudine.
Il suo aspetto "povero" paradossalmente diventa uno dei suoi punti di forza proprio perchè rafforza la verosimiglianza della storia raccontata
E fare un prodotto che può essere tranquillamente esportato con un budget così ridotto è veramente qualcosa che ha dello straordinario in un panorama asfittico come quello del cinema italiano.
Onore al regista Maxi Dejoie e a chi è stato coinvolto in questo progetto , realizzato nel 2011, con un buon bagaglio di presenze nei festival nazionali e internazionali e approdato finalmente in dvd il 23 aprile di quest'anno.
Supportate il cinema italiano. Stavolta ne vale la pena.
( VOTO : 6,5 / 10 )
domenica 28 aprile 2013
The Host ( 2013 )
In un futuro prossimo ma imprecisato gli alieni , più o meno dei colonizzatori intergalattici, si sostituiscono agli umani prendendone il corpo e annullandone la personalità. Il loro segno di riconoscimento è la pupilla lucente.Dei veri e propri ultracorpi il cui unico scopo e cercare altri umani a cui prendere "in prestito " il corpo.
Melanie ha sperimentato questo "sfratto" ma la sua personalità rimane nel suo corpo assieme al neoinquilino alieno che viene chiamato Wanda ( abbreviazione di wanderer, vagabondo, dai suoi colleghi extraterrestri). Vuole ritrovare il fidanzato e il fratellino e per questo scappa nel deserto per fuggire agli altri alieni che la stanno già cercando per completare il trattamento.Viene trovata da un gruppo di sopravvissuti umani che si sono organizzati per essere autosufficienti , una piccola comunità nascosta in anfratti reconditi a ogni sguardo indiscreto. La sua posizione è difficile , meticcia in mezzo a umani, ma si sa l'amore vince tutto e una futura integrazione è possibile. Bisogna però spiegarlo ai cacciatori di corpi spietati che le stanno dando la caccia...
Ho visto questo film i preda a umori nettamente contrastanti.
Punto a favore: Andrew Niccol. Beh io a quest'uomo sarò sempre grato per aver regalato al globo terracqueo quel gioiello di fantascienza distopica che risponde al nome di Gattaca e per aver sceneggiato quell'altro film epocale di The Truman Show. Poi la sua carriera , tra alti e bassi, forse non si è confermata a quegli altissimi livelli ma un suo nuovo film di science fiction è sempre da vedere, caso mai ritorni la magia di quei film irripetibili.
Punto a sfavore: Stephanie Meyer. Ora da una che è responsabile di quello scempio che è la saga di Twilight ti aspetti il peggio. E se nella saga del vampiro da asporto c'era una triangolazioone sentimentale tra umani, licantropi e vampiri, qui la triangolazione sentimentale è tra due umani e una mezza aliena.
Quindi sempre amore come il manuale Cencelli del cinema hollywoodiano prescrive, sempre sentimenti usati come corpi contundenti per fracassare le aspettative di avere un buon film e accontentare le platee adolescenziali con la solita storia da romanzetto d'appendice.
In The Host purtroppo la Meyer prevale nettamente su Niccol: trattasi di fantascienza distopica for dummies con generose spruzzate new age che intriga all'inizio ( in fondo molti cinefili appassionati di sci fi sono cresciuti a pane e ultracorpi) ma che poi fa decisamente imbestialire per come getta alle ortiche uno spunto potenzialmente idoneo a ricavarne una grande storia.
E invece no, l'ammmmmore( quello con tante m ) vince su tutto anche quando si sfiora il ridicolo con i due galletti maschi con una cresta alta così che si contendono le grazie dell'aliena meticcia baciandola in rapida successione per scoprire se è umana o aliena. Oppure solo per vedere l'effetto che fa.
Anche l'impalcatura visiva non è delle migliori: a parte gli imponenti scenari naturali dei canyons e del deserto ( che però hanno una "faccia" ampiamente conosciuti in millemila altre produzioni soprattutto western), il film più che avere un aspetto minimalista , ce l'ha proprio povero con scenografie ridotte all'osso rese asettiche da una fotografia dai toni gelidi. Mentre quando la cinepresa è nella "tana" degli umani il film cromaticamente si accende e non solo per il bel colore biondo del grano che loro coltivano.
Parlando del cast diciamo che è una bella idea usare la bellezza un po' ruspante di Saoirse Ronan contrappuntandola a quella algida di Diane Kruger perfetta per la parte dell'aliena ultracorpizzata senza troppe espressioni facciali, mentre il resto del cast naviga un po' a vista con un William Hurt filosfeggiante che evacua perle di saggezza a cadenza regolare manco fosse sotto cura con la dolce Euchessina e i due maschietti che si contendono l'aliena Wanda / Melanie che sono i classici manzetti a stelle e strisce che hanno i pettorali più espressivi dell'intero pacchetto di muscoli del volto.
Tirando le somme The Host parte discretamente ma poi si perde per strada banalizzando malamente uno spunto potenzialmente interessante e talvolta oltrepassando la soglia del ridicolo involontario ( vedi la scena del doppio bacio ma anche le parti in cui le voci di Melanie e Wanda si rincorrono non sono il massimo...).
Purtroppo stavolta la Meyer ha sconfitto Niccol su tutta la linea.
( VOTO : 4,5 / 10 )
Melanie ha sperimentato questo "sfratto" ma la sua personalità rimane nel suo corpo assieme al neoinquilino alieno che viene chiamato Wanda ( abbreviazione di wanderer, vagabondo, dai suoi colleghi extraterrestri). Vuole ritrovare il fidanzato e il fratellino e per questo scappa nel deserto per fuggire agli altri alieni che la stanno già cercando per completare il trattamento.Viene trovata da un gruppo di sopravvissuti umani che si sono organizzati per essere autosufficienti , una piccola comunità nascosta in anfratti reconditi a ogni sguardo indiscreto. La sua posizione è difficile , meticcia in mezzo a umani, ma si sa l'amore vince tutto e una futura integrazione è possibile. Bisogna però spiegarlo ai cacciatori di corpi spietati che le stanno dando la caccia...
Ho visto questo film i preda a umori nettamente contrastanti.
Punto a favore: Andrew Niccol. Beh io a quest'uomo sarò sempre grato per aver regalato al globo terracqueo quel gioiello di fantascienza distopica che risponde al nome di Gattaca e per aver sceneggiato quell'altro film epocale di The Truman Show. Poi la sua carriera , tra alti e bassi, forse non si è confermata a quegli altissimi livelli ma un suo nuovo film di science fiction è sempre da vedere, caso mai ritorni la magia di quei film irripetibili.
Punto a sfavore: Stephanie Meyer. Ora da una che è responsabile di quello scempio che è la saga di Twilight ti aspetti il peggio. E se nella saga del vampiro da asporto c'era una triangolazioone sentimentale tra umani, licantropi e vampiri, qui la triangolazione sentimentale è tra due umani e una mezza aliena.
Quindi sempre amore come il manuale Cencelli del cinema hollywoodiano prescrive, sempre sentimenti usati come corpi contundenti per fracassare le aspettative di avere un buon film e accontentare le platee adolescenziali con la solita storia da romanzetto d'appendice.
In The Host purtroppo la Meyer prevale nettamente su Niccol: trattasi di fantascienza distopica for dummies con generose spruzzate new age che intriga all'inizio ( in fondo molti cinefili appassionati di sci fi sono cresciuti a pane e ultracorpi) ma che poi fa decisamente imbestialire per come getta alle ortiche uno spunto potenzialmente idoneo a ricavarne una grande storia.
E invece no, l'ammmmmore( quello con tante m ) vince su tutto anche quando si sfiora il ridicolo con i due galletti maschi con una cresta alta così che si contendono le grazie dell'aliena meticcia baciandola in rapida successione per scoprire se è umana o aliena. Oppure solo per vedere l'effetto che fa.
Anche l'impalcatura visiva non è delle migliori: a parte gli imponenti scenari naturali dei canyons e del deserto ( che però hanno una "faccia" ampiamente conosciuti in millemila altre produzioni soprattutto western), il film più che avere un aspetto minimalista , ce l'ha proprio povero con scenografie ridotte all'osso rese asettiche da una fotografia dai toni gelidi. Mentre quando la cinepresa è nella "tana" degli umani il film cromaticamente si accende e non solo per il bel colore biondo del grano che loro coltivano.
Parlando del cast diciamo che è una bella idea usare la bellezza un po' ruspante di Saoirse Ronan contrappuntandola a quella algida di Diane Kruger perfetta per la parte dell'aliena ultracorpizzata senza troppe espressioni facciali, mentre il resto del cast naviga un po' a vista con un William Hurt filosfeggiante che evacua perle di saggezza a cadenza regolare manco fosse sotto cura con la dolce Euchessina e i due maschietti che si contendono l'aliena Wanda / Melanie che sono i classici manzetti a stelle e strisce che hanno i pettorali più espressivi dell'intero pacchetto di muscoli del volto.
Tirando le somme The Host parte discretamente ma poi si perde per strada banalizzando malamente uno spunto potenzialmente interessante e talvolta oltrepassando la soglia del ridicolo involontario ( vedi la scena del doppio bacio ma anche le parti in cui le voci di Melanie e Wanda si rincorrono non sono il massimo...).
Purtroppo stavolta la Meyer ha sconfitto Niccol su tutta la linea.
( VOTO : 4,5 / 10 )
sabato 27 aprile 2013
Le streghe di Salem ( 2012 )
Heidi è una dj radiofonica che conduce un programma musicale rock assieme a Whitey ed Herman.
Un giorno in redazione arriva espressamente per lei un disco in vinile, dentro un cofanetto di legno , da parte di una band locale, i Lords. prontamente ribattezzati The Lords of Salem da Herman.
Porta il disco a casa e lo ascolta assieme a Whitey. Afferma che musica del genere le fa venire il mal di testa ma quel riff ha qualcosa di trascinante.Subito dopo comincia ad avere incubi e visioni ma nonostante questo decide assieme ai colleghi di passare il disco per radio. Inaspettatamente il disco riscuote parecchio successo tra gli ascoltatori e tutto questo crea la possibilità di organizzare un concerto dei Lords proprio nel teatro di Salem.
Stavolta alla radio arrivano inviti e biglietti omaggio per il concerto ma naturalmente non sarà un concerto come gli altri.....
Alla fine doveva pur succedere: dopo anni in cui il suo bulimico citazionismo aveva infarcito i suoi film , dopo la rilettura postmoderna di quello che è il capostipite degli slasher con relativo seguito ( fatto più per esigenze di pagnotta che per altro), finalmente arriva il teatro personale degli orrori targato Rob Zombie.
Una sinfonia visiva mefistofelica in cui il regista si erge ad autore tentando la strada impervia di creare un nuovo modo di fare horror: una sorta di art horror in cui la cosa più importante è l'atmosfera creata e non gratuite sequenze per far sobbalzare gli astanti sulla sedia.
A Zombie non interessa mettere paura , crea un'atmosfera sulfurea rancida che vuole mettere solo disagio e mette in piazza tutto il campionario ossessivo/compulsivo che ha animato i suoi sogni da metallaro intransigente appassionato di un certo tipo di iconografia.
Le streghe di Salem è un flusso di coscienza a 24 fotogrammi al secondo in cui scorrono incubi disturbanti oltre a un (in)sano amore per la Settima Arte.
Ho letto di Kubrick ( ormai quando si vede un corridoio o un ballo in maschera tutti a citare il maestro), Lynch , Russell e tanti altri: tutto assolutamente vero.
Ci sono le lunghe e lente carrellate del maestro, le scatole cinesi aggrovigliate del grande David, anche il cromatismo aggressivo e la visionarietà apparentemente fuori controllo di Ken Russell senza nominare l'anarchia di Jodorowski o un paio di maestri italiani sicuramente riveriti dal regista come Bava o Fulci citati a piene mani in questa pellicola.
Però si vede soprattutto Polanski: se in precedenza Rob Zombie aveva riletto l'Halloween carpenteriano,un film che da solo aveva creato un nuovo genere, ora ritorna alla radice di tutto, a quel Rosemary's baby che al tramonto degli anni '60 diede un nuovo impulso al genere, facendolo uscire dal ghetto della serie B in cui oramai stava cominciando a marcire e donandogli una patina autoriale che non aveva mai avuto prima.
E ritorna anche a prima, sempre Polanski, perchè vedere quella stupenda creatura di Sheri Moon, nascosta dietro occhiali e un'acconciatura rasta veramente ingombrante, che deperisce giorno dopo giorno è un salto ancora più indietro , a Repulsion, film in cui un'altra bellissima visione come Catherine Deneuve, imboccava con un biglietto di sola andata la strada verso l'abisso.
Esattamente come fa Sheri Moon in questo film.
Anche lo stile registico è volutamente vintage: la fotografia che esplora cromatismi desaturati per poi virare improvvisamente al rosso del fuoco nel finale si incastra alla perfezione con lo stile registico di Zombie che sceglie lo stile dei long takes e non del montaggio iperframmentato a prova di antiemetico che sembra il verbo del regista horror moderno.
Le streghe di Salem è un concept di arte visuale che quasi maltratta la storia da narrare: si parla di streghe, di sabba demoniaci nella città di Salem, di un disco maledetto all'interno dei cui solchi ci sono messaggi subliminali.
Oltre che da vedere inoltre c'è molto da ascoltare con una colonna sonora da urlo , Velvet Underground in testa.
Tutti spunti già esplorati da altri in precedenza: eppure da un punto di partenza trito e ritrito come questo, vecchio almeno quanto il cucco, Zombie divaga con la sua macchina da presa , prigioniero di tutte le proprie suggestioni, accarezzando voluttuosamente il corpo perfetto della sua musa e disegnando dei veri e propri tableaux vivants, una successione di immagini dai forti umori pittorici, in cui ammirare tutta la furia primigenia di un artista come Bosch per esempio.
Anche le scelte del cast sono fortemente simboliche: le streghe invecchiate, abbrutite e sdrucite dal tempo sono loro stesse icone di una stagione cinematografica che non c'è più: c'è la Meg Foster di Essi vivono, c'è la Judy Geeson icona cinematografica e televisiva soprattutto anni '70 che ritorna dopo quasi un decennio di assenza dalle scene, c'è la Pat Quinn di The Rocky horror picture show, c'è la Dee Wallace di Cujo, E. T. e de L'ululato.
Le streghe di Salem sono tornate ma non hanno conservato nulla del fascino che può evocare la figura di una fattucchiera: sono vecchie, laide, le loro carni cadenti sono un contrappunto ai loro poteri sovrannaturali.
E quando non arrivano con i loro poteri , ci arrivano direttamente con una padella a fracassare la testa di chi si impiccia un po' troppo.
Altro fattore che a tratti si nota è l'evidente autoironia sull'iconografia metal e su chi prende troppo sul serio la parte del musicista figlio naturale di Satana: l'intervista al blackster all'inizio del film è una presa di fondelli colossale di un certo modo di incarnare la parte del satanista di facciata.
Molti sono rimasti scandalizzati dagli eccessi blasfemi a cui si lascia andare Zombie durante la seconda parte film: sinceramente , essendo abituato a questo tipo di iconografia e dandole la giusta rilevanza , cioè scenica e basta, non mi sono soffermato più di tanto, magari proprio dove integralisti cristiani scaglieranno i loro anatemi contro il film e contro il suo autore.
Le streghe di Salem alla stessa maniera di Rosemary's baby è un qualcosa che cerca di travalicare il genere e di evadere dal ghetto subculturale in cui l'horror è stato immesso da molti benpensanti.
Un horror d'autore che se ne frega delle dinamiche del genere e delle sue radici politiche: benvenuti nel Luna Park targato Rob Zombie.
Lasciate ogni speranza voi che entrate.
( VOTO : 8 + / 10 )
Un giorno in redazione arriva espressamente per lei un disco in vinile, dentro un cofanetto di legno , da parte di una band locale, i Lords. prontamente ribattezzati The Lords of Salem da Herman.
Porta il disco a casa e lo ascolta assieme a Whitey. Afferma che musica del genere le fa venire il mal di testa ma quel riff ha qualcosa di trascinante.Subito dopo comincia ad avere incubi e visioni ma nonostante questo decide assieme ai colleghi di passare il disco per radio. Inaspettatamente il disco riscuote parecchio successo tra gli ascoltatori e tutto questo crea la possibilità di organizzare un concerto dei Lords proprio nel teatro di Salem.
Stavolta alla radio arrivano inviti e biglietti omaggio per il concerto ma naturalmente non sarà un concerto come gli altri.....
Alla fine doveva pur succedere: dopo anni in cui il suo bulimico citazionismo aveva infarcito i suoi film , dopo la rilettura postmoderna di quello che è il capostipite degli slasher con relativo seguito ( fatto più per esigenze di pagnotta che per altro), finalmente arriva il teatro personale degli orrori targato Rob Zombie.
Una sinfonia visiva mefistofelica in cui il regista si erge ad autore tentando la strada impervia di creare un nuovo modo di fare horror: una sorta di art horror in cui la cosa più importante è l'atmosfera creata e non gratuite sequenze per far sobbalzare gli astanti sulla sedia.
A Zombie non interessa mettere paura , crea un'atmosfera sulfurea rancida che vuole mettere solo disagio e mette in piazza tutto il campionario ossessivo/compulsivo che ha animato i suoi sogni da metallaro intransigente appassionato di un certo tipo di iconografia.
Le streghe di Salem è un flusso di coscienza a 24 fotogrammi al secondo in cui scorrono incubi disturbanti oltre a un (in)sano amore per la Settima Arte.
Ho letto di Kubrick ( ormai quando si vede un corridoio o un ballo in maschera tutti a citare il maestro), Lynch , Russell e tanti altri: tutto assolutamente vero.
Ci sono le lunghe e lente carrellate del maestro, le scatole cinesi aggrovigliate del grande David, anche il cromatismo aggressivo e la visionarietà apparentemente fuori controllo di Ken Russell senza nominare l'anarchia di Jodorowski o un paio di maestri italiani sicuramente riveriti dal regista come Bava o Fulci citati a piene mani in questa pellicola.
Però si vede soprattutto Polanski: se in precedenza Rob Zombie aveva riletto l'Halloween carpenteriano,un film che da solo aveva creato un nuovo genere, ora ritorna alla radice di tutto, a quel Rosemary's baby che al tramonto degli anni '60 diede un nuovo impulso al genere, facendolo uscire dal ghetto della serie B in cui oramai stava cominciando a marcire e donandogli una patina autoriale che non aveva mai avuto prima.
E ritorna anche a prima, sempre Polanski, perchè vedere quella stupenda creatura di Sheri Moon, nascosta dietro occhiali e un'acconciatura rasta veramente ingombrante, che deperisce giorno dopo giorno è un salto ancora più indietro , a Repulsion, film in cui un'altra bellissima visione come Catherine Deneuve, imboccava con un biglietto di sola andata la strada verso l'abisso.
Esattamente come fa Sheri Moon in questo film.
Anche lo stile registico è volutamente vintage: la fotografia che esplora cromatismi desaturati per poi virare improvvisamente al rosso del fuoco nel finale si incastra alla perfezione con lo stile registico di Zombie che sceglie lo stile dei long takes e non del montaggio iperframmentato a prova di antiemetico che sembra il verbo del regista horror moderno.
Le streghe di Salem è un concept di arte visuale che quasi maltratta la storia da narrare: si parla di streghe, di sabba demoniaci nella città di Salem, di un disco maledetto all'interno dei cui solchi ci sono messaggi subliminali.
Oltre che da vedere inoltre c'è molto da ascoltare con una colonna sonora da urlo , Velvet Underground in testa.
Tutti spunti già esplorati da altri in precedenza: eppure da un punto di partenza trito e ritrito come questo, vecchio almeno quanto il cucco, Zombie divaga con la sua macchina da presa , prigioniero di tutte le proprie suggestioni, accarezzando voluttuosamente il corpo perfetto della sua musa e disegnando dei veri e propri tableaux vivants, una successione di immagini dai forti umori pittorici, in cui ammirare tutta la furia primigenia di un artista come Bosch per esempio.
Anche le scelte del cast sono fortemente simboliche: le streghe invecchiate, abbrutite e sdrucite dal tempo sono loro stesse icone di una stagione cinematografica che non c'è più: c'è la Meg Foster di Essi vivono, c'è la Judy Geeson icona cinematografica e televisiva soprattutto anni '70 che ritorna dopo quasi un decennio di assenza dalle scene, c'è la Pat Quinn di The Rocky horror picture show, c'è la Dee Wallace di Cujo, E. T. e de L'ululato.
Le streghe di Salem sono tornate ma non hanno conservato nulla del fascino che può evocare la figura di una fattucchiera: sono vecchie, laide, le loro carni cadenti sono un contrappunto ai loro poteri sovrannaturali.
E quando non arrivano con i loro poteri , ci arrivano direttamente con una padella a fracassare la testa di chi si impiccia un po' troppo.
Altro fattore che a tratti si nota è l'evidente autoironia sull'iconografia metal e su chi prende troppo sul serio la parte del musicista figlio naturale di Satana: l'intervista al blackster all'inizio del film è una presa di fondelli colossale di un certo modo di incarnare la parte del satanista di facciata.
Molti sono rimasti scandalizzati dagli eccessi blasfemi a cui si lascia andare Zombie durante la seconda parte film: sinceramente , essendo abituato a questo tipo di iconografia e dandole la giusta rilevanza , cioè scenica e basta, non mi sono soffermato più di tanto, magari proprio dove integralisti cristiani scaglieranno i loro anatemi contro il film e contro il suo autore.
Un horror d'autore che se ne frega delle dinamiche del genere e delle sue radici politiche: benvenuti nel Luna Park targato Rob Zombie.
Lasciate ogni speranza voi che entrate.
( VOTO : 8 + / 10 )
venerdì 26 aprile 2013
The Lincoln Lawyer ( 2011 )
Mick Haller è un avvocato che si aggira nei bassifondi della downtown Los Angeles difendendo delinquentelli di mezza tacca e lavorando per gran parte del suo tempo sul divano posteriore della sua Lincoln ( targata NTGUILTY cioè non colpevole), guidata da un improbabile autista factotum visto che a lui hanno sequestrato la patente da un po' di tempo. La deontologia professionale non è il suo forte, vuole solo fare quattrini fino a che gli capita il caso della vita. Deve difendere Louis Roulet, rampollo proveniente da una famiglia danarosa che sembra sia stato incastrato in una storiaccia di tentato omicidio e ricatto da una prostituta e da quello che sembra il suo pappone.
Sembra un caso semplice ma la cosa si complica e l'investigatore di cui si serve Mick è ucciso: forse Louis non è quello che sembra e tutto sembra ricollegarsi a un omicidio di parecchi anni prima.
Mick è stato incastrato in un gioco più grande di lui e anche la sua famiglia ( ex moglie e figlia ) è in pericolo....
Per prima cosa credo che un film come The Lincoln Lawyer sia un ottimo veicolo promozionale al servizio del McConaughey attore che da un po' di tempo a questa parte, dopo una lunga parentesi nell'oblio in cui si era dovuto adattare alla pubblicità (un po' come Banderas oggi ma per fortuna sua senza parlare alle galline come sta facendo il divino Antonio per esigenze di pagnotta), è ritornato alla sua statura di quasi divo.
Diciamo divo di seconda fila.
La figura di Mick Haller, avvocatucolo dei bassifondi , un vero squalo dell'aula di tribunale è perfetta per uno come McConaughey, fisico asciutto come non mai, capello abbastanza unto che rispecchia esattamente la sua personalità unta allo stesso modo e modo di fare da sbruffone.
Ad Haller non interessa minimamente se il suo cliente sia colpevole o innocente, gli interessa solo vincere la partita a scacchi che è iniziata tra lui e il procuratore.
E quando sospetta che è stato in qualche modo incastrato in un gioco più grande di lui reagisce usando tutte le armi che ha a sua disposizione, non esitando minimamente a calpestare la legge che ogni giorno cerca di deformare ai propri fini.
The Lincoln Lawyer è il classico legal thriller o procedural drama che dir si voglia senza barlumi di genio ma senza neanche cadute rovinose: si muove sulla falsariga di Schegge di paura ma se lì l'imputato Edward Norton si mangiava letteralmente l'avvocato Richard Gere anche sotto il profilo prettamente recitativo, qui non succede e McConaughey che , coadiuvato da un cast piuttosto solido e variegato , resta saldamente al centro della scena.
E' una visione piacevole e senza troppe pretese, molto ben confezionata con i twists di sceneggiatura piazzati nei punti giusti e un ritmo sostenuto che non concede pause anche perchè paga decisamente la scelta di non impantanarsi nelle sabbie mobili delle udienze del tribunale, dove cadono parecchi film di questo genere.
Qui nell'aula di tribunale si passa il tempo minimo necessario, c'è poco spazio per le chiacchiere da leguleio e quindi il film procede in maniera agile non sovraccaricandosi di troppe schermaglie da avvocati.
E se è vero che la parola come corpo contundente ne ferisce più della spada, diciamo che in The Lincoln Lawyer più della parola ferisce la pistola.
A parte McConaughey anche la Tomei è tirata come una corda di violino....
( VOTO : 6,5 / 10 )
Sembra un caso semplice ma la cosa si complica e l'investigatore di cui si serve Mick è ucciso: forse Louis non è quello che sembra e tutto sembra ricollegarsi a un omicidio di parecchi anni prima.
Mick è stato incastrato in un gioco più grande di lui e anche la sua famiglia ( ex moglie e figlia ) è in pericolo....
Per prima cosa credo che un film come The Lincoln Lawyer sia un ottimo veicolo promozionale al servizio del McConaughey attore che da un po' di tempo a questa parte, dopo una lunga parentesi nell'oblio in cui si era dovuto adattare alla pubblicità (un po' come Banderas oggi ma per fortuna sua senza parlare alle galline come sta facendo il divino Antonio per esigenze di pagnotta), è ritornato alla sua statura di quasi divo.
Diciamo divo di seconda fila.
La figura di Mick Haller, avvocatucolo dei bassifondi , un vero squalo dell'aula di tribunale è perfetta per uno come McConaughey, fisico asciutto come non mai, capello abbastanza unto che rispecchia esattamente la sua personalità unta allo stesso modo e modo di fare da sbruffone.
Ad Haller non interessa minimamente se il suo cliente sia colpevole o innocente, gli interessa solo vincere la partita a scacchi che è iniziata tra lui e il procuratore.
E quando sospetta che è stato in qualche modo incastrato in un gioco più grande di lui reagisce usando tutte le armi che ha a sua disposizione, non esitando minimamente a calpestare la legge che ogni giorno cerca di deformare ai propri fini.
The Lincoln Lawyer è il classico legal thriller o procedural drama che dir si voglia senza barlumi di genio ma senza neanche cadute rovinose: si muove sulla falsariga di Schegge di paura ma se lì l'imputato Edward Norton si mangiava letteralmente l'avvocato Richard Gere anche sotto il profilo prettamente recitativo, qui non succede e McConaughey che , coadiuvato da un cast piuttosto solido e variegato , resta saldamente al centro della scena.
E' una visione piacevole e senza troppe pretese, molto ben confezionata con i twists di sceneggiatura piazzati nei punti giusti e un ritmo sostenuto che non concede pause anche perchè paga decisamente la scelta di non impantanarsi nelle sabbie mobili delle udienze del tribunale, dove cadono parecchi film di questo genere.
Qui nell'aula di tribunale si passa il tempo minimo necessario, c'è poco spazio per le chiacchiere da leguleio e quindi il film procede in maniera agile non sovraccaricandosi di troppe schermaglie da avvocati.
E se è vero che la parola come corpo contundente ne ferisce più della spada, diciamo che in The Lincoln Lawyer più della parola ferisce la pistola.
A parte McConaughey anche la Tomei è tirata come una corda di violino....
( VOTO : 6,5 / 10 )
giovedì 25 aprile 2013
Prowl ( 2010 )
Amber vive in una piccola cittadina della provincia americana che da tempo le sta un po' troppo stretta. Cerca di trasferirsi nella grande città, il sogno si chiama Chicago,la Windy City, e pare che il destino le voglia dare una mano. C'è un appartamento che la sta aspettando , però si deve recare sul posto per prenderne possesso altrimenti lo prenderà un altro. Non avendo mezzi di trasporto decide di andarci con il suo gruppo di amici. Col furgoncino di uno di loro partono ma appena fuori della loro cittadina rimangono in panne in mezzo alla strada. Accettano il passaggio di un camionista ma il tragitto non è quello che pensano loro. Sono portati in una specie di fabbrica abbandonata che è popolata di strani esseri. Sanguinari e sembra che ognuno di loro voglia un pezzo dei malcapitati ragazzi.
Per Amber e gli altri comincia una lotta selvaggia per la sopravvivenza....
Prowl comincia come peggio non si potrebbe, cioè come milioni di altri film. Anche se non conoscessimo il genere di film che ci stiamo apprestando a vedere , riconosceremmo subito che è un horror.
Il solito gruppo di adolescentiminkia, o meglio di giovani adulti usciti da un pezzo dall'adolescenza almeno anagraficamente ma cerebralmente regrediti come se potessero rimanere teenagers a vita mantenendo però tutti i vantaggi dell'essere adulti ( tipo sfondarsi il fegato d'alcool), il solito chiacchiericcio insulso sulla sacra triade sesso, sport e rock'n'roll, i soliti frullati di testosterone testicolare da parte di maschietti abituati a pensare solo con quel toro che gli scalpita nelle mutande, pardon boxer, mentre le signorine fanno le ochette.
E naturalmente vengono servite anche montagne di due di picche al nerd di turno ( se è l'unico che porta gli occhiali un motivo ci sarà pure, anche se la mamma sicuramente gli ha spiegato che fare quelle cosacce fa diminuire la vista) che però è l'unico fornito di mezzo di locomozione.
In questo quadro desolante c'è spazio solo per il personaggio di Amber, quella che vuole fuggire perchè il paesino le sta troppo stretto, l'unica che sembra annoiata dalle chiacchiere degli altri, che sembra sopportarli a malapena...però sono suoi amici.
Dopo la mezzoretta canonica in cui succede poco o nulla, il film cambia decisamente registro e finalmente si vede qualcosa che non sia il piattume visto fino ad ora. Niente di memorabile , per carità , ma almeno Prowl raggiunge il suo scopo di intrattenere e lo fa anche decentemente.
Si vede che è fatto tutto un po' al risparmio, le creature fameliche che vogliono fare a tranci i ragazzi ( e diciamocelo, un po' tifiamo per loro perchè quei minchioni non si sopportano) sembrano dei vampiri zombizzati o degli zombi vampirizzati , fate un po' voi e sembrano portati via di peso dalle sessions di 30 giorni di buio.
Anche qui deja vù, quindi ma perlomeno il regista grazie ad alcune scelte visive azzeccate e a uno score musicale decisamente incalzante che riesce a sottolineare con vigoria i momenti clou del film, non manda tutto in vacca ma riesce a confezionare uno spettacolo accettabile.
Tra inseguimenti e fughe verso l'alto, arrampicate scarrafone/style sulle pareti dell'enorme fabbrica con qualche tremolio della cinepresa di troppo che serve più per nascondere che per mostrare, Prowl nella seconda parte, quella in cui si vedono sangue, fegatini e frattaglie varie, scorre che è una bellezza, anche in virtù di un minutaggio decisamente ridotto ( 80 minuti scarsi).
La rivelazione che cambia tutta la prospettiva del film non disturba più di tanto, così come è positivo che rimanga un alone di mistero su quelle creature, su chi le ha create e sul perchè invece di invadere qualche città piena di sangue fresco di giugulare, si autoconfinino in una fabbrica abbandonata nutrendosi con sacche di plasma.
Certo ci potevano risparmiare la lezione di filosofia spicciola fatta da Veronica a Amber...ma dura poco...
Non me la sento di condannare un prodotto come questo, perchè è fatto con un pugnetto di dollari ma non sfigura accanto a produzioni ben più blasonate e di questo va dato merito al regista che fa di necessità virtù e usa benissimo la clamorosa location che gli fornisce la produzione, un capolavoro di archeologia industriale trovato da qualche parte della Bulgaria.
Ultima notazione tecnica: ma quanto è bella Ruta Gedmintas e perchè non è la protagonista visto che Cortney Hope di fronte a lei sembra un gatto scorticato o una cozza appena staccata da uno scoglio?
( VOTO : 6 / 10 )
Per Amber e gli altri comincia una lotta selvaggia per la sopravvivenza....
Prowl comincia come peggio non si potrebbe, cioè come milioni di altri film. Anche se non conoscessimo il genere di film che ci stiamo apprestando a vedere , riconosceremmo subito che è un horror.
Il solito gruppo di adolescentiminkia, o meglio di giovani adulti usciti da un pezzo dall'adolescenza almeno anagraficamente ma cerebralmente regrediti come se potessero rimanere teenagers a vita mantenendo però tutti i vantaggi dell'essere adulti ( tipo sfondarsi il fegato d'alcool), il solito chiacchiericcio insulso sulla sacra triade sesso, sport e rock'n'roll, i soliti frullati di testosterone testicolare da parte di maschietti abituati a pensare solo con quel toro che gli scalpita nelle mutande, pardon boxer, mentre le signorine fanno le ochette.
E naturalmente vengono servite anche montagne di due di picche al nerd di turno ( se è l'unico che porta gli occhiali un motivo ci sarà pure, anche se la mamma sicuramente gli ha spiegato che fare quelle cosacce fa diminuire la vista) che però è l'unico fornito di mezzo di locomozione.
In questo quadro desolante c'è spazio solo per il personaggio di Amber, quella che vuole fuggire perchè il paesino le sta troppo stretto, l'unica che sembra annoiata dalle chiacchiere degli altri, che sembra sopportarli a malapena...però sono suoi amici.
Dopo la mezzoretta canonica in cui succede poco o nulla, il film cambia decisamente registro e finalmente si vede qualcosa che non sia il piattume visto fino ad ora. Niente di memorabile , per carità , ma almeno Prowl raggiunge il suo scopo di intrattenere e lo fa anche decentemente.
Si vede che è fatto tutto un po' al risparmio, le creature fameliche che vogliono fare a tranci i ragazzi ( e diciamocelo, un po' tifiamo per loro perchè quei minchioni non si sopportano) sembrano dei vampiri zombizzati o degli zombi vampirizzati , fate un po' voi e sembrano portati via di peso dalle sessions di 30 giorni di buio.
Anche qui deja vù, quindi ma perlomeno il regista grazie ad alcune scelte visive azzeccate e a uno score musicale decisamente incalzante che riesce a sottolineare con vigoria i momenti clou del film, non manda tutto in vacca ma riesce a confezionare uno spettacolo accettabile.
Tra inseguimenti e fughe verso l'alto, arrampicate scarrafone/style sulle pareti dell'enorme fabbrica con qualche tremolio della cinepresa di troppo che serve più per nascondere che per mostrare, Prowl nella seconda parte, quella in cui si vedono sangue, fegatini e frattaglie varie, scorre che è una bellezza, anche in virtù di un minutaggio decisamente ridotto ( 80 minuti scarsi).
La rivelazione che cambia tutta la prospettiva del film non disturba più di tanto, così come è positivo che rimanga un alone di mistero su quelle creature, su chi le ha create e sul perchè invece di invadere qualche città piena di sangue fresco di giugulare, si autoconfinino in una fabbrica abbandonata nutrendosi con sacche di plasma.
Certo ci potevano risparmiare la lezione di filosofia spicciola fatta da Veronica a Amber...ma dura poco...
Non me la sento di condannare un prodotto come questo, perchè è fatto con un pugnetto di dollari ma non sfigura accanto a produzioni ben più blasonate e di questo va dato merito al regista che fa di necessità virtù e usa benissimo la clamorosa location che gli fornisce la produzione, un capolavoro di archeologia industriale trovato da qualche parte della Bulgaria.
Ultima notazione tecnica: ma quanto è bella Ruta Gedmintas e perchè non è la protagonista visto che Cortney Hope di fronte a lei sembra un gatto scorticato o una cozza appena staccata da uno scoglio?
( VOTO : 6 / 10 )
mercoledì 24 aprile 2013
Nella casa ( 2012 )
Il professore di letteratura Germain , stanco e annoiato dal suo lavoro, assegna alla classe un tema apparentemente innocuo: chiede ai suoi alunni di mettere per iscritto come abbiano trascorso il fine settimana precedente. In un mare di mediocrità emerge il tema di Claude Garcia che descrive come si sia introdotto nella famiglia del suo amico Rapha a cui sta dando una mano per i compiti di matematica. Il ragazzo ha talento per la scrittura e il professore , forse anche per una forma implicita di voyeurismo o solo per vedere come va a finire , lo incoraggia apertamente. Claude continua in questo che si trasforma in un gioco al massacro fino a che la situazione sfugge di mano a tutti i protagonisti in campo con conseguenze anche pesanti per il proseguire delle rispettive vite.Se la madre di Rapha, pur affascinata dalle attenzioni di Claude riesce a mantenere un equilibrio familiare soddisfacente la stessa cosa non succede a Germain e a sua moglie,proprietaria di una galleria d'arte moderna sull'orlo del fallimento, sempre più presi dal loro nuovo passatempo che ravviva un matrimonio altrimenti senza scossoni.
Nelle mani di Hitchcock Claude Garcia sarebbe stato semplicemente una finestra che si affaccia sul menage familiare stanco e prigioniero della routine quotidiana della famiglia di Rapha, nelle mani di Allen il film di Ozon sarebbe diventato un piccolo saggio acido di metacinematografia o metateatro per come i personaggi interagiscono concretamente con i protagonisti della vicenda narrata, nelle mani di Chabrol si sarebbe trasformato nell'ennesimo excursus sulla vita nascosta della provincia francese tra troppi vizi privati e poche pubbliche virtù, nelle mani di Fassbinder le fiamme del melodramma avrebbero divampato e letteralmente divorato i vari personaggi.
Nella casa è un po' tutto questo: non un semplice saggio sul voyeurismo o una vicenda torbida di amori proibiti e giochi poco raccomandabili.
Si parte dal potere di suggestione della pagina scritta ( non tutti possono ambire a essere scrittori e Germain vede in Claude lo scrittore di talento che lui avrebbe voluto essere e invece non è mai diventato, con un libro scritto anni prima che per il suo insuccesso si è trasformato in uno scheletro nell'armadio) e si finisce per parlare di equilibri instabili che vengono messi a nudo da un semplice fattore perturbante: un ragazzo sveglio e che non sembra tirarsi indietro di fronte a nulla.
Nella casa è un oggetto filmico anomalo che si situa tra la commedia e il dramma psicologico con venature dark, scritto in punta di fioretto, in cui una vicenda normalissima nelle mani di un sedicenne curioso e di un professore che cerca qualcosa a cui appassionarsi in una vita che gli regala poche soddisfazioni nella vita privata e professionale, diventa un qualcosa di sottilmente inquietante per come si entri nell'intimità di una casa e la si scompagini dall'interno.
Se la famiglia di Claude è già disastrata per conto suo, visto che vive solo con il padre invalido, quelle di Rapha e di Germain vanno incontro a modificazioni profonde e il film di Ozon, ne esamina le dinamiche che diventano il fulcro di tutto il racconto dentro e fuori delle pagine scritte dal giovane studente.
Tratto da una piece teatrale spagnola, El chico de la ultima fila, Nella casa si affranca quasi del tutto dalla sua origine con una regia vivace e volitiva , con movimenti di macchina morbidi e sinuosi in cui sembra quasi che la cinepresa accarezzi i vari personaggi in scena.
Fantastica la direzione degli attori con un Luchini strepitoso e una Seigner con cui il tempo è stato decisamente galantuomo. Sono passati molti anni da Frantic e da Luna di fiele e la sua bellezza selvaggia è stata addomesticata dal passare degli anni rendendola ora forse più affascinante e raffinata di prima.
Ma tutto il cast è a livelli strepitosi.
Nella casa è un caleidoscopio in cui fioccano umori e sensazioni, una matassa praticamente inestricabile così come sembra senza uscita il circolo vizioso che si viene a creare tra la casa di Rapha e la vita del professor Germain.
In filigrana si può notare anche un certo , velenoso sarcasmo sugli intellettuali, meglio se gauchisti che hanno sempre un'aria di superiorità e invece non riescono a capire la differenza tra una crosta e un dipinto di un artista di talento ( vedi l'arte improbabile proposta nella galleria della moglie di Germain).
Nella casa è un altro tassello importante nella carriera di un cineasta di talento come Ozon, uno che fin da Swimming pool sembrava saperla già lunga sulle perturbazioni delle dinamiche familiari.
Cinema raffinato e cerebrale ma è come leggere un libro di cui non si riesce a interrompere la lettura perchè la pagina sucessiva è sempre la migliore.
L'ultimo film di Ozon è esattamente questo: una costante crescita dal primo all'ultimo minuto.
( VOTO : 8 / 10 )
Nelle mani di Hitchcock Claude Garcia sarebbe stato semplicemente una finestra che si affaccia sul menage familiare stanco e prigioniero della routine quotidiana della famiglia di Rapha, nelle mani di Allen il film di Ozon sarebbe diventato un piccolo saggio acido di metacinematografia o metateatro per come i personaggi interagiscono concretamente con i protagonisti della vicenda narrata, nelle mani di Chabrol si sarebbe trasformato nell'ennesimo excursus sulla vita nascosta della provincia francese tra troppi vizi privati e poche pubbliche virtù, nelle mani di Fassbinder le fiamme del melodramma avrebbero divampato e letteralmente divorato i vari personaggi.
Nella casa è un po' tutto questo: non un semplice saggio sul voyeurismo o una vicenda torbida di amori proibiti e giochi poco raccomandabili.
Si parte dal potere di suggestione della pagina scritta ( non tutti possono ambire a essere scrittori e Germain vede in Claude lo scrittore di talento che lui avrebbe voluto essere e invece non è mai diventato, con un libro scritto anni prima che per il suo insuccesso si è trasformato in uno scheletro nell'armadio) e si finisce per parlare di equilibri instabili che vengono messi a nudo da un semplice fattore perturbante: un ragazzo sveglio e che non sembra tirarsi indietro di fronte a nulla.
Nella casa è un oggetto filmico anomalo che si situa tra la commedia e il dramma psicologico con venature dark, scritto in punta di fioretto, in cui una vicenda normalissima nelle mani di un sedicenne curioso e di un professore che cerca qualcosa a cui appassionarsi in una vita che gli regala poche soddisfazioni nella vita privata e professionale, diventa un qualcosa di sottilmente inquietante per come si entri nell'intimità di una casa e la si scompagini dall'interno.
Se la famiglia di Claude è già disastrata per conto suo, visto che vive solo con il padre invalido, quelle di Rapha e di Germain vanno incontro a modificazioni profonde e il film di Ozon, ne esamina le dinamiche che diventano il fulcro di tutto il racconto dentro e fuori delle pagine scritte dal giovane studente.
Tratto da una piece teatrale spagnola, El chico de la ultima fila, Nella casa si affranca quasi del tutto dalla sua origine con una regia vivace e volitiva , con movimenti di macchina morbidi e sinuosi in cui sembra quasi che la cinepresa accarezzi i vari personaggi in scena.
Fantastica la direzione degli attori con un Luchini strepitoso e una Seigner con cui il tempo è stato decisamente galantuomo. Sono passati molti anni da Frantic e da Luna di fiele e la sua bellezza selvaggia è stata addomesticata dal passare degli anni rendendola ora forse più affascinante e raffinata di prima.
Ma tutto il cast è a livelli strepitosi.
Nella casa è un caleidoscopio in cui fioccano umori e sensazioni, una matassa praticamente inestricabile così come sembra senza uscita il circolo vizioso che si viene a creare tra la casa di Rapha e la vita del professor Germain.
In filigrana si può notare anche un certo , velenoso sarcasmo sugli intellettuali, meglio se gauchisti che hanno sempre un'aria di superiorità e invece non riescono a capire la differenza tra una crosta e un dipinto di un artista di talento ( vedi l'arte improbabile proposta nella galleria della moglie di Germain).
Nella casa è un altro tassello importante nella carriera di un cineasta di talento come Ozon, uno che fin da Swimming pool sembrava saperla già lunga sulle perturbazioni delle dinamiche familiari.
Cinema raffinato e cerebrale ma è come leggere un libro di cui non si riesce a interrompere la lettura perchè la pagina sucessiva è sempre la migliore.
L'ultimo film di Ozon è esattamente questo: una costante crescita dal primo all'ultimo minuto.
martedì 23 aprile 2013
L'ipnotista ( 2012 )
Nella fredda Stoccolma d'inverno, in piena atmosfera natalizia, il commissario Jonna Linna comincia ad indagare su un triplice brutale omicidio. Una intera famiglia massacrata a colpi di coltellaccio da cucina, il padre al lavoro, la madre e la figlia piccola in casa dove c'era anche l'altro figlio ferito gravemente e miracolosamente scampato al massacro. C'è anche un'altra figlia grande da qualche parte della Svezia ma è da tanto tempo che sembra non avere contatti col resto della famiglia.Il ragazzo scampato alla strage però non può essere interrogato, almeno non con i metodi tradizionali così a Linna viene in testa un'idea meravigliosa: interrogarlo tramite ipnosi condotta dal controverso professor Bark che aveva smesso di esercitare la professione per via di uno scandalo che ne aveva spazzato via la reputazione.Cominciano le sedute di ipnosi, qualcosa si comincia a capire della vicenda ma il figlio di Bark è rapito....
Lasse ( Hallstrom) è tornato a casa: in fuga da quei melodrammi hollywoodiani molto leccati e anche un po' patetici di cui era ormai diventato uno specialista, prigioniero di una sorta di ghetto artistico, una gabbia dalle sbarre dorate visto che i suoi incassi più o meno li ha portati sempre a casa, tornato nella natia Svezia si tuffa nel genere che va tanto di moda ora in Scandinavia, più o meno dal successo della saga Millennium creata su carta dal compianto Stieg Larsson e poi trasposta su piccolo e grande schermo un po' in tutte le salse e addirittura rifatta anche in quel di Hollywood da Fincher.
Non vorrei sbagliare ma in principio fu il romanzo Il senso di Smilla per la neve di Peter Hoeg a sdoganare il thriller scandinavo, con relativa trasposizione cinematografica ( un po' zoppicante ma di ambientazione assai suggestiva) di Bille August.
E' indubbio che il thriller scandinavo abbia un passo diverso da quello hollywoodiano e non è un caso che il passo lungo che ha è quasi più adatto al piccolo schermo che non al grande schermo.
L'ipnotista non sfugge a questa considerazione: dopo un incipit virato al rosso sangue in cui Hallstrom dà sfoggio anche di un certo estro visivo, il film si sofferma soprattutto sulla caratterizzazione dei personaggi in campo e non moltissimo sull'indagine che procede abbastanza stancamente. I colpi di scena , pur presenti in buon numero sono diluiti dall'elevato minutaggio ( siamo alle due ore piene, durata rischiosa per un genere in cui si deve mantenere sempre alta la tensione) e ci si sofferma forse troppo sulle crisi personali dei vari protagonisti, soprattutto la figura dell'ipnotista e della moglie che alla perdita del figlio scontano tutta una serie di problemi interni al loro matrimonio che deflagrano improvvisamente.
Altri personaggi sono lasciati un po' in disparte , tipo quello della sorella maggiore , dimostrandosi sostanzialmente inutili alla progressione drammaturgica del racconto.
L'ipnotista può contare su una confezione di lusso con una fotografia e una regia che fanno pensare a una matrice televisiva , di una discreta caratterizzazione dei protagonisti e di un buon livello recitativo, si avvale inoltre di ambientazioni suggestive soprattutto in un finale al calor bianco in cui registicamente Hallstrom si scrolla di dosso il torpore che lo aveva attanagliato nella parte centrale.
Latitano speigazioni e moventi del massacro ( trincerarsi dietro la pazzia è troppo comodo) ma mancano anche quelle svolte sentimentali tanto care agli script hollywoodiani e questo può essere visto solo positivamente.
L'ipnotista è il classico film medio , senza infamia nè lode, che non brilla certo per originalità o per altre doti particolari.
E' un compitino però fatto bene con una bella parte iniziale e una parte finale veramente thrilling ma che nel mezzo mostra inutili digressioni melodrammatiche.
A parte questo non me la sento proprio di condannarlo.
C'è di molto peggio in giro .
Certo, c'è anche di meglio ma talvolta bisogna accontentarsi...
Un'ultima cosa perchè utilizzare il termine ipnotista ( ai confini della lingua italiana ) e non ipnotizzatore?
( VOTO : 6 / 10 )
Lasse ( Hallstrom) è tornato a casa: in fuga da quei melodrammi hollywoodiani molto leccati e anche un po' patetici di cui era ormai diventato uno specialista, prigioniero di una sorta di ghetto artistico, una gabbia dalle sbarre dorate visto che i suoi incassi più o meno li ha portati sempre a casa, tornato nella natia Svezia si tuffa nel genere che va tanto di moda ora in Scandinavia, più o meno dal successo della saga Millennium creata su carta dal compianto Stieg Larsson e poi trasposta su piccolo e grande schermo un po' in tutte le salse e addirittura rifatta anche in quel di Hollywood da Fincher.
Non vorrei sbagliare ma in principio fu il romanzo Il senso di Smilla per la neve di Peter Hoeg a sdoganare il thriller scandinavo, con relativa trasposizione cinematografica ( un po' zoppicante ma di ambientazione assai suggestiva) di Bille August.
E' indubbio che il thriller scandinavo abbia un passo diverso da quello hollywoodiano e non è un caso che il passo lungo che ha è quasi più adatto al piccolo schermo che non al grande schermo.
L'ipnotista non sfugge a questa considerazione: dopo un incipit virato al rosso sangue in cui Hallstrom dà sfoggio anche di un certo estro visivo, il film si sofferma soprattutto sulla caratterizzazione dei personaggi in campo e non moltissimo sull'indagine che procede abbastanza stancamente. I colpi di scena , pur presenti in buon numero sono diluiti dall'elevato minutaggio ( siamo alle due ore piene, durata rischiosa per un genere in cui si deve mantenere sempre alta la tensione) e ci si sofferma forse troppo sulle crisi personali dei vari protagonisti, soprattutto la figura dell'ipnotista e della moglie che alla perdita del figlio scontano tutta una serie di problemi interni al loro matrimonio che deflagrano improvvisamente.
Altri personaggi sono lasciati un po' in disparte , tipo quello della sorella maggiore , dimostrandosi sostanzialmente inutili alla progressione drammaturgica del racconto.
L'ipnotista può contare su una confezione di lusso con una fotografia e una regia che fanno pensare a una matrice televisiva , di una discreta caratterizzazione dei protagonisti e di un buon livello recitativo, si avvale inoltre di ambientazioni suggestive soprattutto in un finale al calor bianco in cui registicamente Hallstrom si scrolla di dosso il torpore che lo aveva attanagliato nella parte centrale.
Latitano speigazioni e moventi del massacro ( trincerarsi dietro la pazzia è troppo comodo) ma mancano anche quelle svolte sentimentali tanto care agli script hollywoodiani e questo può essere visto solo positivamente.
L'ipnotista è il classico film medio , senza infamia nè lode, che non brilla certo per originalità o per altre doti particolari.
E' un compitino però fatto bene con una bella parte iniziale e una parte finale veramente thrilling ma che nel mezzo mostra inutili digressioni melodrammatiche.
A parte questo non me la sento proprio di condannarlo.
C'è di molto peggio in giro .
Certo, c'è anche di meglio ma talvolta bisogna accontentarsi...
Un'ultima cosa perchè utilizzare il termine ipnotista ( ai confini della lingua italiana ) e non ipnotizzatore?
( VOTO : 6 / 10 )
lunedì 22 aprile 2013
Jack Nicholson day - Professione: reporter ( 1974 )
David Locke, reporter di una certa fama durante un suo viaggio in Africa si imbatte nel cadavere del trafficante d'armi David Robertson. Nota con una punta di sgomento che sono quasi sosia e decide di sostituirsi a lui, di appropriarsi della sua vita. Rientra in Spagna ed è aiutato da una misteriosa ragazza a fuggire dalla vita di Robertson che si sta rivelando molto più complicata del previsto..
Ma i guai sono appena iniziati.
Due vite ,un solo destino.Come è facile appropriarsi della vita altrui, basta essere in uno sperduto alberghetto africano e falsificare qualche documento.
Il più è fatto? No,perchè appropriarsi della vita altrui vuol dire prendere anche possesso di tutti i buchi neri della vita dell'altro. L'incipit, il reporter (abituato a dire sempre la sua verità) falsifica il suo trapasso,finge la sua morte,quasi si bea a leggerla dai giornali.
E all'inizio non ci viene fornita alcuna spiegazione: Locke è morto, viva Robertson.
Ma forse quest'ultimo non è quello che sembra, è un trafficante d'armi, abituato a trattare con gente pericolosa, una vita non esattamente comoda da vivere. Figuriamoci sotto mentite spoglie.
In più la moglie di Locke scatena il finimondo per parlare con il falso Robertson (e qui intuiamo forse le ragioni della scelta di Locke,alle prese con una moglie siffatta e con una professione stancamente tollerata) e con la sua ottusa pervicacia gli scatena dietro una muta di cani feroci.
E, nonostante aiuti terreni o quasi divini il destino si compie....
Antonioni parte da un soggetto che è quasi un giallo, il film comincia come una sorta di spystory in cui il novello Robertson è costretto a spostarsi per l'Europa e per l'Africa, incontrando perfetti sconosciuti, leggendo gli appunti dell'altro su una specie di agendina.
Ma ,come spesso accade, nei film del maestro ferrarese si parte parlando di una cosa e poi in realtà ci si interessa a tuttaltro. Come ne L'avventura all'inizio ci si mobilitava per ritrovare Anna e poi gradualmente questa ricerca scivolava nell'oblio,come in Blow up la ricerca della verità gradualmente si confondeva con l'immaginazione, come in Zabriskie point si cominciava a parlare delle contestazioni studentesche e poi il racconto si spostava sempre sull'uomo e il suo destino, qui l'intrigo giallo spionistico è solo un punto di inizio di un viaggio dai contorni metafisici del suo protagonista costretto a vagare ramingo attraverso scenari di indubbia suggestione ma che restano inerti , sullo sfondo , siano esse le architetture curvilinee di Gaudi, siano essi gli scorci di un deserto ciottoloso, siano esse le quattro misere pareti di un albergo africano a zero stelle.
Il viaggio di Locke/Robertson è un viaggio alla ricerca della solitudine, un rifiuto della propria verità giornalistica per abbracciare la verità assoluta, l'anelito a liberarsi di tutti i legami terreni (sia quello con la moglie che quello con la ragazza che invece riesce praticamente a trovarlo ovunque), un tentativo utopistico di essere solo e libero da tutto e da tutti, da tutte le convenzioni sociali, da tutte le relazioni.
La sua fuga è alimentata dal velo di inquietudine di non sapere realmente cosa cercare, dall'incapacità di frugare nelle pieghe del proprio animo alla ricerca di risposte coerenti e definitive.
Sa da cosa fugge, sa forse perchè,ma non sa che cosa cerca. Ed è qui che il destino si compie,
Locke è costretto a morire una seconda volta. Ma stavolta non lo leggerà sui giornali....
Dal punto di vista stilistico Professione reporter è forse l'apice della visionarietà di Antonioni.
La sua cinepresa si muove fluidamente eppure indugia in un incredibile e definitivo pianosequenza finale, il più famoso della storia del cinema anche se anni dopo è stato svelato che c'è qualche ritocco in postprouzione. A volte sembra che il regista ferrarese sia come un bambino alle prese con il suo nuovo giocattolo (vedi la sequenza dalla funivia in cui dall'alto si inquadra Nicholson a braccia aperte sporgersi fuori dal finestrino che per cromatismo ricorda moltissimo la celeberrima sequenza della spiaggia di Budelli in Deserto rosso ).
Come quasi sempre gli succede i suoi silenzi valgono molto più delle parole.
Stupisce la misura di Nicholson alle prese con un personaggio stratificato e poi quei lunghi minuti del piano sequenza finale,non è più tempo delle esplosioni di Zabriskie point,finisce tutto nel silenzio....nel nulla....
( VOTO : 10 / 10 )
Questo post fa parte di un omaggio collettivo da parte di un gruppo di
Leggete , leggete , leggete ma soprattutto commentate!
50 / 50 Thriller
Aloha los pescadores
White Russian
Montecristo
The Obsidian Mirror
Cinquecentofilminsieme
Direzione errata
Triccotraccofobia
Combinazione casuale
Movies Maniac
viaggiando ( meno)
Pensieri cannibali
Ho voglia di cinema
Il Bollalmanacco di cinema
Life Functions Terminated
La fabbrica dei sogni
Il Cinema Spiccio
In Central Perk
Director's cult
Cooking Movies
Scrivenny
domenica 21 aprile 2013
Absentia ( 2011 )
Periferia di Los Angeles: Tricia sta preparando i documenti per dichiarare morto "in absentia" suo marito Daniel che è sparito misteriosamente sette anni prima senza lasciare tracce.Per sostenerla in un momento emotivamente così difficile arriva a casa sua la sorella Callie , ex tossicodipendente,con cui ha avuto sempre un rapporto difficile. Una volta che ha firmato i documenti necessari per dichiarare morto il marito, Daniel comincia ad apparire come un fantasma in casa .
Intanto Callie scopre che nel quartiere ci sono state molte persone scomparse in modo inspiegabile e pare che l'epicentro di tutto sia il tunnel pedonale costruito proprio nelle vicinanze della casa di Tricia.
Una zona dominata da strane forze su cui bisogna indagare....
E' bello e soddisfacente quando perlustrando l'underground cinematografico e girando per la rete ti imbatti in piccoli gioielli nascosti di cui non verresti mai a conoscenza. E allora che Dio benedica la blogosfera che grazie ai soliti noti ( Eddy di Direzione Errata, Frank di Combinazione Casuale , psichetechne di Ulteriorità precedente e scusate se ho dimenticato qualcuno) fa venire alla luce queste perle.
Perchè Absentia nel suo genere è una piccola perla, costata pochissimo ( si parla di un budget di 70 mila dollari) e che è tuttavia capace di regalare moltissime soddisfazioni.
Dietro il tutto c'è un giovane regista poco più che trentenne , Mike Flanagan, nome che ho già appuntato sul mio taccuino per seguirlo in futuro.
Per essere un film girato al risparmio c'è veramente tanta roba: mancano quasi del tutto gli effetti speciali ma questo film è la dimostrazione di come il cinema si fa per prima cosa con le idee e secondariamente con il budget che aiuta , altrochè se aiuta, un po' come con il discorso che i soldi non fanno la felicità . Sarà vero ma aiutano parecchio.
Ma come al solito sto divagando: Absentia abiura dall'orrore plastificato e ricco di effetti speciali in favore di un concetto di paura più sottile e insinuante che si fa strada lentamente ma inesorabilmente lungo tutto il film.
Se all'inizio la narrazione si dilunga sulla difficoltà di Tricia a mettere la firma su quei documenti per dichiarare morto il marito scomparso da sette anni ( una firma che equivale a chiudere definitivamente un capitolo doloroso della sua vita, qualcosa che fa rima con rassegnazione di aver perso il compagno della sua vita per sempre) e sul suo rapporto con la sorella molto diversa da lei, anche fisicamente , poi l'orrore arriva toccando corde intime, profonde: le apparizioni fantasmatiche del marito ( boo sequences piuttosto efficaci che regalano brividi nella schiena e sobbalzi sulla poltrona) provocano un maelstrom di sentimenti che va dalla paura alla speranza che deflagra alla massima potenza quando Flanagan all'incirca a metà film ti piazza il twist di sceneggiatura che non ti aspetti.
Se prima era un tripudio di apparizioni fantasmatiche in puro stile J-horror ( ma qui niente donne con capelli corvini a coprire la faccia, anzi Daniel è piuttosto stempiatello ) , il film cambia improvvisamente tono portandosi su lidi battuti da film come Il sesto senso e relativi epigoni.
Una svolta che arricchisce il film di suggestioni potentissime , in cui esplode il senso di colpa di Tricia che nel frattempo aveva cercato tra mille difficoltà di rifarsi una vita.
E poi c'è quel tunnel misterioso,.illuminato malamente, mette paura solo a guardarlo eppure Callie quando va a fare jogging lo percorre sempre aumentando la tensione a livelli insostenibili perchè sappiamo benissimo che in quella colata di cemento si nasconde qualcosa di brutto, di veramente brutto.
Se il fine ultimo del genere horror è quello di provocare paura in chi sta fruendo dello spettacolo, Absentia raggiunge perfettamente il suo scopo: fa correre brividi veri lungo la schiena e senza il becco di un effetto speciale a parte qualcosina in computer grafica sempre giocato sul vedo/ non vedo.
Soprattutto non vedo.
Ma fa paura proprio per quello.
( VOTO : 7,5 / 10 )
Intanto Callie scopre che nel quartiere ci sono state molte persone scomparse in modo inspiegabile e pare che l'epicentro di tutto sia il tunnel pedonale costruito proprio nelle vicinanze della casa di Tricia.
Una zona dominata da strane forze su cui bisogna indagare....
E' bello e soddisfacente quando perlustrando l'underground cinematografico e girando per la rete ti imbatti in piccoli gioielli nascosti di cui non verresti mai a conoscenza. E allora che Dio benedica la blogosfera che grazie ai soliti noti ( Eddy di Direzione Errata, Frank di Combinazione Casuale , psichetechne di Ulteriorità precedente e scusate se ho dimenticato qualcuno) fa venire alla luce queste perle.
Perchè Absentia nel suo genere è una piccola perla, costata pochissimo ( si parla di un budget di 70 mila dollari) e che è tuttavia capace di regalare moltissime soddisfazioni.
Dietro il tutto c'è un giovane regista poco più che trentenne , Mike Flanagan, nome che ho già appuntato sul mio taccuino per seguirlo in futuro.
Per essere un film girato al risparmio c'è veramente tanta roba: mancano quasi del tutto gli effetti speciali ma questo film è la dimostrazione di come il cinema si fa per prima cosa con le idee e secondariamente con il budget che aiuta , altrochè se aiuta, un po' come con il discorso che i soldi non fanno la felicità . Sarà vero ma aiutano parecchio.
Ma come al solito sto divagando: Absentia abiura dall'orrore plastificato e ricco di effetti speciali in favore di un concetto di paura più sottile e insinuante che si fa strada lentamente ma inesorabilmente lungo tutto il film.
Se all'inizio la narrazione si dilunga sulla difficoltà di Tricia a mettere la firma su quei documenti per dichiarare morto il marito scomparso da sette anni ( una firma che equivale a chiudere definitivamente un capitolo doloroso della sua vita, qualcosa che fa rima con rassegnazione di aver perso il compagno della sua vita per sempre) e sul suo rapporto con la sorella molto diversa da lei, anche fisicamente , poi l'orrore arriva toccando corde intime, profonde: le apparizioni fantasmatiche del marito ( boo sequences piuttosto efficaci che regalano brividi nella schiena e sobbalzi sulla poltrona) provocano un maelstrom di sentimenti che va dalla paura alla speranza che deflagra alla massima potenza quando Flanagan all'incirca a metà film ti piazza il twist di sceneggiatura che non ti aspetti.
Se prima era un tripudio di apparizioni fantasmatiche in puro stile J-horror ( ma qui niente donne con capelli corvini a coprire la faccia, anzi Daniel è piuttosto stempiatello ) , il film cambia improvvisamente tono portandosi su lidi battuti da film come Il sesto senso e relativi epigoni.
Una svolta che arricchisce il film di suggestioni potentissime , in cui esplode il senso di colpa di Tricia che nel frattempo aveva cercato tra mille difficoltà di rifarsi una vita.
E poi c'è quel tunnel misterioso,.illuminato malamente, mette paura solo a guardarlo eppure Callie quando va a fare jogging lo percorre sempre aumentando la tensione a livelli insostenibili perchè sappiamo benissimo che in quella colata di cemento si nasconde qualcosa di brutto, di veramente brutto.
Se il fine ultimo del genere horror è quello di provocare paura in chi sta fruendo dello spettacolo, Absentia raggiunge perfettamente il suo scopo: fa correre brividi veri lungo la schiena e senza il becco di un effetto speciale a parte qualcosina in computer grafica sempre giocato sul vedo/ non vedo.
Soprattutto non vedo.
Ma fa paura proprio per quello.
( VOTO : 7,5 / 10 )
sabato 20 aprile 2013
Take this waltz ( 2011 )
Margot scrive testi per brochures di attrazioni turistiche mentre il marito Lou è alle prese con la scrittura di un libro di cucina che si occupa solo di pollo. Mentre è al lavoro in una delle sue ricognizioni Margot incontra Daniel con cui si ritrova anche a condividere la stessa fila di sedili nell'aereo che la riporta all'estate afosa di Toronto. Parte il flirt e lei scopre con un punta di sgomento che lui le è venuto ad abitare proprio di fronte casa. E non perde occasione per dichiararle quanto sia attratto da lei.
Il problema è che il sentimento è reciproco ma Michelle è soffocata dall'indecisione e dai sensi di colpa finchè....
Take this waltz è un film che si presenta sin da subito molto attento alle istanze femminili: il personaggio di Margot è caratterizzato in modo quasi affettuoso nel suo curioso porsi tra una moderata felicità e un salto nel buio in cui lei neanche sa che cosa aspettarsi. E' una sorta di moglie bambina e in questo la regista Sarah Polley ( una che a 34 anni ha un curriculum ricchissimo e che quando non recita in brutti film come Splice ci regala dei film come questo di cui stiamo parlando oggi in cui si esime addirittura dal comparire di fronte alla macchina da presa) è brava a smorzare l'erotismo che Michelle Williams sprizza da tutti i pori, nascondendola dietro vestitini freschi e improbabili molto molto da ragazzina o dietro occhialoni non precisamente trendy.
La sua relazione col marito è senza scossoni come il mare in bonaccia tranne che quando hanno la casa invasa dai parenti di lui che sono più numerosi e rumorosi di una squadra di football , riserve e cheerleaders comprese.
E Daniel sta lì, alla casa di fronte , alle prese con i suoi quadri ,con la sua parte da artista tenebroso e incompreso oltre che con un risciò con cui cerca di sbarcare il lunario ( un risciò nel centro di Toronto? Boh!)
La relazione extraconiugale è qualcosa da assaporare con delicatezza e indecisione, ben più importante di un adulterio che è di lì a venire, quasi uno sfogo naturale della vita senza slanci della piccola Margot, così tenera e bisognosa d'affetto.
Ma se una commedia sentimentale racconterebbe solo questa parte della storia con l'amore che come al solito vince tutto, dove tutti sono felici e anche quelli che sono cornuti e mazziati se ne fanno una ragione senza problemi, Take this waltz racconta anche il dopo.
Proprio ispirandosi alla canzone di Leonard Cohen che dà il titolo alla pellicola, la Polley ci stupisce raccontando che in fondo l'amore è qualcosa di ciclico, è un giro di ballo in cui si può ritornare anche al punto di partenza. E tutto questo lo fa in una splendida sequenza in cui con movimenti circolari della macchina da presa ( però ben lontani da una muccinata qualunque) riassume lo scoppio della passione tra Margot e Daniel e il suo lento, all'inizio impercettibile ma poi inesorabile scivolamento nell'abisso della routine.
Take this waltz è una perfetta commedia sentimentale 2.0, l'amore aggiornato alla relatività ( che fa rima con precarietà) del nuovo millennio, in cui non c'è nulla di assoluto ma tutto è suscettibile di cambiamento e ripensamento. Michelle Williams è perfetta in una parte in cui si immola anima e (soprattutto) corpo, così come è perfetto Seth Rogen nella parte di Lou, marito adorabile ma con cui decisamente non c'è alchimia. Un po' più ligio allo stereotipo è il terzo vertice del triangolo di protagonisti, Luke Kirby, che comunque se la cava degnamente.
C'è spazio per le battute ( fulminanti quelle della sorella di Lou), per la tenerezza, per i giochetti erotici attorno a un tavolo , per fughe nel sogno e ritorni improvvisi alla realtà.
Emblematica in questo senso una sequenza bellissima in cui Daniel e Margot stanno in una di quelle giostre da Luna Park , accarezzano il sogno al suono di Video Killed The Radio Star e proprio quando stanno cominciando a viverlo aspettando l'esplosione liberatoria del ritornello, la musica finisce improvvisamente, un addetto sovrappeso rimuove le barre di sicurezza e si ritorna , o meglio si ricade nella realtà....
Altro fattore che rende il film accattivante e originale allo stesso tempo è che tutto il gioco è in mano a Margot: Lou e Daniel praticamente non si confrontano mai, non c'è alcuna lotta tra di loro , se l'amore è veramente un giro di ballo, in questo momento comanda l'unica donna di questo triangolo. E gli uomini non hanno molta voce in capitolo anche se hanno il vizio di non prenderla troppo sul serio, perchè in fondo Margot è come una bambina in cerca di protezione.
Però, chissà, forse neanche questo è il giro di ballo giusto.
O forse Margot a questo giro preferisce ballare da sola.
( VOTO : 7,5 / 10 )
Il problema è che il sentimento è reciproco ma Michelle è soffocata dall'indecisione e dai sensi di colpa finchè....
Take this waltz è un film che si presenta sin da subito molto attento alle istanze femminili: il personaggio di Margot è caratterizzato in modo quasi affettuoso nel suo curioso porsi tra una moderata felicità e un salto nel buio in cui lei neanche sa che cosa aspettarsi. E' una sorta di moglie bambina e in questo la regista Sarah Polley ( una che a 34 anni ha un curriculum ricchissimo e che quando non recita in brutti film come Splice ci regala dei film come questo di cui stiamo parlando oggi in cui si esime addirittura dal comparire di fronte alla macchina da presa) è brava a smorzare l'erotismo che Michelle Williams sprizza da tutti i pori, nascondendola dietro vestitini freschi e improbabili molto molto da ragazzina o dietro occhialoni non precisamente trendy.
La sua relazione col marito è senza scossoni come il mare in bonaccia tranne che quando hanno la casa invasa dai parenti di lui che sono più numerosi e rumorosi di una squadra di football , riserve e cheerleaders comprese.
E Daniel sta lì, alla casa di fronte , alle prese con i suoi quadri ,con la sua parte da artista tenebroso e incompreso oltre che con un risciò con cui cerca di sbarcare il lunario ( un risciò nel centro di Toronto? Boh!)
La relazione extraconiugale è qualcosa da assaporare con delicatezza e indecisione, ben più importante di un adulterio che è di lì a venire, quasi uno sfogo naturale della vita senza slanci della piccola Margot, così tenera e bisognosa d'affetto.
Ma se una commedia sentimentale racconterebbe solo questa parte della storia con l'amore che come al solito vince tutto, dove tutti sono felici e anche quelli che sono cornuti e mazziati se ne fanno una ragione senza problemi, Take this waltz racconta anche il dopo.
Proprio ispirandosi alla canzone di Leonard Cohen che dà il titolo alla pellicola, la Polley ci stupisce raccontando che in fondo l'amore è qualcosa di ciclico, è un giro di ballo in cui si può ritornare anche al punto di partenza. E tutto questo lo fa in una splendida sequenza in cui con movimenti circolari della macchina da presa ( però ben lontani da una muccinata qualunque) riassume lo scoppio della passione tra Margot e Daniel e il suo lento, all'inizio impercettibile ma poi inesorabile scivolamento nell'abisso della routine.
Take this waltz è una perfetta commedia sentimentale 2.0, l'amore aggiornato alla relatività ( che fa rima con precarietà) del nuovo millennio, in cui non c'è nulla di assoluto ma tutto è suscettibile di cambiamento e ripensamento. Michelle Williams è perfetta in una parte in cui si immola anima e (soprattutto) corpo, così come è perfetto Seth Rogen nella parte di Lou, marito adorabile ma con cui decisamente non c'è alchimia. Un po' più ligio allo stereotipo è il terzo vertice del triangolo di protagonisti, Luke Kirby, che comunque se la cava degnamente.
C'è spazio per le battute ( fulminanti quelle della sorella di Lou), per la tenerezza, per i giochetti erotici attorno a un tavolo , per fughe nel sogno e ritorni improvvisi alla realtà.
Emblematica in questo senso una sequenza bellissima in cui Daniel e Margot stanno in una di quelle giostre da Luna Park , accarezzano il sogno al suono di Video Killed The Radio Star e proprio quando stanno cominciando a viverlo aspettando l'esplosione liberatoria del ritornello, la musica finisce improvvisamente, un addetto sovrappeso rimuove le barre di sicurezza e si ritorna , o meglio si ricade nella realtà....
Altro fattore che rende il film accattivante e originale allo stesso tempo è che tutto il gioco è in mano a Margot: Lou e Daniel praticamente non si confrontano mai, non c'è alcuna lotta tra di loro , se l'amore è veramente un giro di ballo, in questo momento comanda l'unica donna di questo triangolo. E gli uomini non hanno molta voce in capitolo anche se hanno il vizio di non prenderla troppo sul serio, perchè in fondo Margot è come una bambina in cerca di protezione.
Però, chissà, forse neanche questo è il giro di ballo giusto.
O forse Margot a questo giro preferisce ballare da sola.
( VOTO : 7,5 / 10 )
venerdì 19 aprile 2013
The Wicked ( 2013 )
In un piccolo paese della profonda provincia americana nel Michigan, una ragazzina scompare misteriosamente dalla sua casa e le ricerche non danno alcun risultato. Un gruppo di studenti del locale liceo va in gita presso un laghetto nelle vicinanze e casualmente una ragazza del gruppo trova l'orsacchiotto che apparteneva alla bambina scomparsa. Anche un' altra coppia di teenagers è nelle vicinanze del lago e di una vecchia casa abbandonata che ha un aspetto poco rassicurante. La vecchia magione si chiama Open Hearth e pare che vi abbia soggiornato una strega che torna saltuariamente a farsi viva rapendo bambini per mangiarne le carni e così ringiovanire. Una vera e propria leggenda metropolitana proveniente dall'alba dei tempi ma che diventa troppo reale per i loro gusti.
Cominciano ad avere strane visioni nel bosco, alcuni di loro spariscono e sono tenuti prigionieri da uno strano essere incappucciato...
Sembra proprio che questa strega non sia solo una leggenda metropolitana.
Mi piacciono normalmente i film con delle streghe, sono stato sempre affascinato dalla figura della fattucchiera, un villain che ritengo pieno di potenzialità, misterioso e potente allo stesso tempo.
E quindi mi sono apprestato alla visione di questo film con una certa curiosità: certo il fatto che questo film fosse uno straight to video e il votaccio dato dagli utenti di imdb.com non rappresentava certo un bel biglietto da visita ma ho cercato di non farmi condizionare anche perchè l'utenza di imdb.com è da sempre poco generosa col genere horror.
Ma credo che stavolta non mi sento di condannare la scarsa indulgenza verso una pellicola come questa che rappresenta solo un frullatone di tutto quello che non va negli horror di oggi.
Il solito gruppo di personaggi detestabili dalla prima sequenza, un copione in cui per 45 minuti non succede assolutamente nulla fatta eccezione per la sparizione della ragazzina che ricalca praticamente l'incipit di Intruders di Fresnadillo, la solita ridda di azioni ad minchiam da parte dei protagonisti che non fa altro che accrescere il disamore nei loro confronti e la speranza che la strega li faccia morire lentamente e tra sofferenze atroci, il solito poliziotto imbecille che si accorge di tutto con il classico attimo di ritardo.
I ragazzi protagonisti sono naturalmente tutti figli naturali della A generation ( dove A sta per Arrapati) , visto che soprattutto i maschietti ragionano seguendo l'istinto del toro nelle mutande che hanno e che scalpita per le gentili donzelle ( una manica di vacchette da competizione) che si sono portati al seguito.
In più c'è anche una ragazzina più giovane che vuole zompare addosso al bel manzetto che si è portata in gita nei boschi, praticamente un clone di Justin Bieber(on), ripetendo come un mantra che lei non è lesbica.
E' vero che i soldi sono pochini e quindi non dobbiamo pretendere effetti speciali costosissimi, è vero che anche gli attori ( !) son venuti via a poco prezzo e quindi dobbiamo passare sopra alcune evidenti magagne a livello recitativo ma perchè buttare via in malo modo tutta l'impalcatura della leggenda metropolitana?
La strega è troppo " a vista" ( secondo me non farla visualizzare avrebbe aumentato il suo potenziale orrorifico) e veramente troppo sbadata, o idiota a seconda della gentilezza d'animo di chi avrà il coraggio di guardare questo filmetto da due soldi, visto che i ragazzi che ha fatto prigionieri per passarli nel tritacarne ( mettendogli una mela in bocca, come fossero delle porchette da banchetto medievale) continuano a scapparle dal suo antro talmente affollato da gente in entrata e in uscita che sembra un porto di mare.
E poi questi superpoteri, insomma, roba da fattucchiera di serie C visto che si fa mettere nel sacco da un gruppo di ragazzotti che non sembrano neanche tanto intelligenti.
The wicked sembra un episodio non riuscito di una qualsiasi serie tv anni '90, afflitto come è da una regia piattamente televisiva e dall'assenza praticamente totale di suspense.
A questo punto molto meglio andarsi a riguardare The Blair Witch Project.
Almeno qualche spavento genuino lo fa provare....
( VOTO : 4 / 10 )
Cominciano ad avere strane visioni nel bosco, alcuni di loro spariscono e sono tenuti prigionieri da uno strano essere incappucciato...
Sembra proprio che questa strega non sia solo una leggenda metropolitana.
Mi piacciono normalmente i film con delle streghe, sono stato sempre affascinato dalla figura della fattucchiera, un villain che ritengo pieno di potenzialità, misterioso e potente allo stesso tempo.
E quindi mi sono apprestato alla visione di questo film con una certa curiosità: certo il fatto che questo film fosse uno straight to video e il votaccio dato dagli utenti di imdb.com non rappresentava certo un bel biglietto da visita ma ho cercato di non farmi condizionare anche perchè l'utenza di imdb.com è da sempre poco generosa col genere horror.
Ma credo che stavolta non mi sento di condannare la scarsa indulgenza verso una pellicola come questa che rappresenta solo un frullatone di tutto quello che non va negli horror di oggi.
Il solito gruppo di personaggi detestabili dalla prima sequenza, un copione in cui per 45 minuti non succede assolutamente nulla fatta eccezione per la sparizione della ragazzina che ricalca praticamente l'incipit di Intruders di Fresnadillo, la solita ridda di azioni ad minchiam da parte dei protagonisti che non fa altro che accrescere il disamore nei loro confronti e la speranza che la strega li faccia morire lentamente e tra sofferenze atroci, il solito poliziotto imbecille che si accorge di tutto con il classico attimo di ritardo.
I ragazzi protagonisti sono naturalmente tutti figli naturali della A generation ( dove A sta per Arrapati) , visto che soprattutto i maschietti ragionano seguendo l'istinto del toro nelle mutande che hanno e che scalpita per le gentili donzelle ( una manica di vacchette da competizione) che si sono portati al seguito.
In più c'è anche una ragazzina più giovane che vuole zompare addosso al bel manzetto che si è portata in gita nei boschi, praticamente un clone di Justin Bieber(on), ripetendo come un mantra che lei non è lesbica.
E' vero che i soldi sono pochini e quindi non dobbiamo pretendere effetti speciali costosissimi, è vero che anche gli attori ( !) son venuti via a poco prezzo e quindi dobbiamo passare sopra alcune evidenti magagne a livello recitativo ma perchè buttare via in malo modo tutta l'impalcatura della leggenda metropolitana?
La strega è troppo " a vista" ( secondo me non farla visualizzare avrebbe aumentato il suo potenziale orrorifico) e veramente troppo sbadata, o idiota a seconda della gentilezza d'animo di chi avrà il coraggio di guardare questo filmetto da due soldi, visto che i ragazzi che ha fatto prigionieri per passarli nel tritacarne ( mettendogli una mela in bocca, come fossero delle porchette da banchetto medievale) continuano a scapparle dal suo antro talmente affollato da gente in entrata e in uscita che sembra un porto di mare.
E poi questi superpoteri, insomma, roba da fattucchiera di serie C visto che si fa mettere nel sacco da un gruppo di ragazzotti che non sembrano neanche tanto intelligenti.
The wicked sembra un episodio non riuscito di una qualsiasi serie tv anni '90, afflitto come è da una regia piattamente televisiva e dall'assenza praticamente totale di suspense.
A questo punto molto meglio andarsi a riguardare The Blair Witch Project.
Almeno qualche spavento genuino lo fa provare....
( VOTO : 4 / 10 )
giovedì 18 aprile 2013
Una famiglia perfetta (2012 )
Gruppo di famiglia in un interno : tutti riuniti a tavola facendo colazione la mattina della vigilia di Natale: c'è Leone, col suo sguardo torvo e il fare un po' dispotico, i due figli grandi Pietro e Luna, la moglie Carmen, la madre Rosa, il figlio più piccolo che è mandato dalla madre Carmen a cambiarsi il maglione per indossarne uno rosso, più adatto allo spirito natalizio. Si parla del più e del meno quando improvvisamente Leone comincia a dire strane cose del bambino: non gli piace, non gli somiglia, la famiglia è fatta anche di dettagli e quel bambino con gli occhiali e un po' pienotto lui non lo vuole. Sale la tensione e si scopre che coloro che fanno parte della famiglia di Leone sono tutti parte di una compagnia di attori ingaggiata dal misterioso Leone magari per vedere che effetto fa avere una famiglia con cui trascorrere il Natale.
Intanto sta arrivando Fortunato, il capo del gruppo di attori che fa la parte del fratello di Leone. Ha trovato anche un altro bambino per fargli fare la parte del figlio piccolo: nell'ambiente è chiamato il professionista, divo in erba, bello biondo e che costa veramente un mucchio di soldi.
Più si va avanti e più le pagine del copione degli attori si confondono con la vita reale e l'arrivo imprevisto di Alicia nella casa innesca tutta una serie di esilaranti equivoci.
Oggi sono proprio contento che posso parlare bene di una commedia italiana , diretta da Paolo Genovese ( non precisamente un curriculum registico rassicurante visto che comprende roba come i due Immaturi e La Banda dei Babbi Natale) che si è ispirato non so quanto liberamente perchè non ho visto l'originale al film spagnolo Familia, una commedia noir diretta da Fernando Leon de Aranoa ( quello del magnifico I lunedì al sole).
Il casale finemente arredato,circondato da un parco principesco è incastonato nella bellezza della campagna umbra e rappresenta un palcoscenico perfetto su cui vanno in scena diversi personaggi in cerca d'autore, orgogliosi di essere attori e della funzione della loro professione ma consapevoli che in tempi di crisi bisogna adattarsi a fare di tutto, anche recitare un copione ad uso e consumo di una persona sola, in questo caso Leone.
Perchè la realtà è proprio questa: tutto è finto ed è come una rappresentazione teatrale studiata nei minimi termini perchè allo spettatore/committente/pagante piace anche improvvisare, cospargere le varie scene di piccoli imprevisti oltre che vere e proprie trappole per delle volpi del paloscenico come quelle che ha ingaggiato.
Si assiste con una leggerissima inquietudine al crollo della facciata perbenista e natalizia che viene picconata da Leone e dalla scoperta che tutto quello che vediamo è solo un copione teatrale .
Proprio per questo Una famiglia perfetta è un film che si presta a molteplici letture , diventando un qualcosa che ha un quoziente intellettivo di molte spanne superiori rispetto a quello messo in mostra dalla commedia italiana moderna: si parla del ruolo dell'attore e della crisi economica, del fatto che non sempre possiamo essere totalmente responsabili delle nostre scelte, si parla di orgoglio e di sgomitamenti tra primedonne ( vedi la decana Rosa che si inventa il coup de theatre perchè si sente trascurata) in un meccanismo ben oliato in cui la vita reale si confonde continuamente con la rappresentazione teatrale.
Va dato atto a Genovese di non aver cercato a tutti i costi la pochade e la risata grassa, tiene al minimo sindacale il tasso di volgarità, orchestra quasi un Canto di Natale dickensiano perchè è impossibile non pensare a Ebenezer Scrooge quando ci si ferma a scrutare un po' il personaggio di Leone.
Una famiglia perfetta si riserva anche frecce avvelenate verso il tanto sbandierato spirito natalizio che contagia un po' tutti alla fine di ogni anno risultando un film oltre che piacevole anche intelligente nella sua punta di amarezza e nella vena malinconica che sopraggiunge nel finale.
Forse qualche sforbiciata gli avrebbe giovato ma alla fine non si può avere tutto , no? E poi ci si diverte comunque.
Gustosissima la partita a tombola ( anche quella frutto di un copione che però si inceppa sul più bello) e esilaranti le lezioni di immedesimazione per le scene di pianto tenute dal capo attore Fortunato.
Perfetto film natalizio però troppo intelligente per farlo uscire sotto Natale: infatti è uscito alla fine di novembre ed è stato condannato a un incasso modesto in rapporto alle ambizioni.
Ma vale comunque una visione,anche fuori stagione.
( VOTO : 7+ / 10 )
Intanto sta arrivando Fortunato, il capo del gruppo di attori che fa la parte del fratello di Leone. Ha trovato anche un altro bambino per fargli fare la parte del figlio piccolo: nell'ambiente è chiamato il professionista, divo in erba, bello biondo e che costa veramente un mucchio di soldi.
Più si va avanti e più le pagine del copione degli attori si confondono con la vita reale e l'arrivo imprevisto di Alicia nella casa innesca tutta una serie di esilaranti equivoci.
Oggi sono proprio contento che posso parlare bene di una commedia italiana , diretta da Paolo Genovese ( non precisamente un curriculum registico rassicurante visto che comprende roba come i due Immaturi e La Banda dei Babbi Natale) che si è ispirato non so quanto liberamente perchè non ho visto l'originale al film spagnolo Familia, una commedia noir diretta da Fernando Leon de Aranoa ( quello del magnifico I lunedì al sole).
Il casale finemente arredato,circondato da un parco principesco è incastonato nella bellezza della campagna umbra e rappresenta un palcoscenico perfetto su cui vanno in scena diversi personaggi in cerca d'autore, orgogliosi di essere attori e della funzione della loro professione ma consapevoli che in tempi di crisi bisogna adattarsi a fare di tutto, anche recitare un copione ad uso e consumo di una persona sola, in questo caso Leone.
Perchè la realtà è proprio questa: tutto è finto ed è come una rappresentazione teatrale studiata nei minimi termini perchè allo spettatore/committente/pagante piace anche improvvisare, cospargere le varie scene di piccoli imprevisti oltre che vere e proprie trappole per delle volpi del paloscenico come quelle che ha ingaggiato.
Si assiste con una leggerissima inquietudine al crollo della facciata perbenista e natalizia che viene picconata da Leone e dalla scoperta che tutto quello che vediamo è solo un copione teatrale .
Proprio per questo Una famiglia perfetta è un film che si presta a molteplici letture , diventando un qualcosa che ha un quoziente intellettivo di molte spanne superiori rispetto a quello messo in mostra dalla commedia italiana moderna: si parla del ruolo dell'attore e della crisi economica, del fatto che non sempre possiamo essere totalmente responsabili delle nostre scelte, si parla di orgoglio e di sgomitamenti tra primedonne ( vedi la decana Rosa che si inventa il coup de theatre perchè si sente trascurata) in un meccanismo ben oliato in cui la vita reale si confonde continuamente con la rappresentazione teatrale.
Va dato atto a Genovese di non aver cercato a tutti i costi la pochade e la risata grassa, tiene al minimo sindacale il tasso di volgarità, orchestra quasi un Canto di Natale dickensiano perchè è impossibile non pensare a Ebenezer Scrooge quando ci si ferma a scrutare un po' il personaggio di Leone.
Una famiglia perfetta si riserva anche frecce avvelenate verso il tanto sbandierato spirito natalizio che contagia un po' tutti alla fine di ogni anno risultando un film oltre che piacevole anche intelligente nella sua punta di amarezza e nella vena malinconica che sopraggiunge nel finale.
Forse qualche sforbiciata gli avrebbe giovato ma alla fine non si può avere tutto , no? E poi ci si diverte comunque.
Gustosissima la partita a tombola ( anche quella frutto di un copione che però si inceppa sul più bello) e esilaranti le lezioni di immedesimazione per le scene di pianto tenute dal capo attore Fortunato.
Perfetto film natalizio però troppo intelligente per farlo uscire sotto Natale: infatti è uscito alla fine di novembre ed è stato condannato a un incasso modesto in rapporto alle ambizioni.
Ma vale comunque una visione,anche fuori stagione.
( VOTO : 7+ / 10 )
mercoledì 17 aprile 2013
Come pietra paziente ( 2012 )
Una giovane donna musulmana alla periferia di una città che non viene mai nominata, presumibilmente siamo a Kabul per lo scenario di guerra in cui è ambientata la vicenda, accudisce il marito , molto più anziano di lei , in coma vegetativo a causa di un proiettile che lo ha colpito al collo. Le figlie le ha mandata da una zia che gestisce un bordello mentre lei sta in casa con lui, combattendo con le privazioni che le sottopone la routine quotidiana ( mancanza di soldi, di acqua e di cibo). L'uomo è un involucro apparentemente senza vita e viene trattato da lei come la pietra della pazienza ( la synguè sabour del titolo originale), cioè quella pietra della tradizione afghana a cui affidare i propri segreti più reconditi. Parlando al marito un po' per sfogo e un po' per esorcizzare la solitudine, comincia un lungo percorso di spietata autoanalisi della propria vita, del proprio matrimonio e del rapporto col marito, una progressiva presa di coscienza della propria infelicità acuita anche dagli incontri con un giovane militare che la crede una prostituta ( è lei che glielo ha fatto credere per avere salva la vita) perchè paradossaalmente , pur trattandola da prostituta e pagandola, è l'unica che l'ha fatta sentire importante.
Però un crudele colpo di scena da parte del destino la attende .
E' difficile approcciarsi a un film come questo: Come pietra paziente se volessimo parafrasare il titolo, chiede molta pazienza allo spettatore perchè all'inizio è spigoloso, respingente,straniante nell'uso di una voce narrante sempre all'opera. Ambientato quasi interamente in uno squallido interno è un muro di parole che assale uno spettatore magari non ben disposto per un cinema autoriale di siffatto genere.
In realtà cresce col passare dei minuti allo stesso modo in cui fiorisce la bellezza della protagonista ( la bellissima attrice iraniana Golshifteh Farahani, già vista in About Elly e nel recente Just like a woman) trattenuta, anzi soffocata sotto paramenti pesantissimi e un burqa per andare all'esterno della sua povera casa per procurarsi i farmaci necessari per il marito e il poco altro per vivere.
Come pietra paziente si trasforma presto in un je accuse virulento contro un marito crudele , oltre che molto più vecchio di lei, e allo stesso tempo diventa una descrizione fedele del maschilismo feroce che caratterizza una civiltà androcentrica come quella musulmana.
Inoltre è un film sulla femminilità negata, o meglio sulla sessualità negata su cui lei si sofferma nelle sue numerose dissertazioni sull'argomento ( lei non ha nessuna voce in capitolo riguardo al modo di fare l'amore per esempio e gli incontri col militare giovane e imbranato sono importanti per la propria autostima di donna proprio perchè è lei che comanda il gioco erotico) e in questo appare tutta il suo essere occidentale perchè parlare così di sessualità credo che avrebbe creato più di un problema se il film fosse stato realizzato in un Paese arabo. In realtà è diretto dallo stesso autore del libro da cui è tratto,l'afghano Atiq Rahimi,
cosceneggiato con uno dei re Mida del cinema francese, Jean Claude Carriere, un arzillo ultraottantenne con oltre un centinaio di sceneggiature all'attivo.
Come pietra paziente è un lungo flusso di coscienza, un monologo interiore che col trascorrere dei minuti acquista sempre più audacia parallelamente al sentirsi sempre più donna da parte della protagonista, senza nome( nessun personaggio del film ha nome) e che all'inizio sembra un essere asessuato, totalmente devoto a un marito che sembra morto.
Come detto prima è difficile approcciarsi a un film ristretto in pochi ambienti ( la povera casa della protagonista e la casa della zia quando va a trovare le figlie) e caratterizzato da pochissime azioni di cui la più ricorrente è quella di trincerarsi sotto il burqa per procurarsi il necessario per vivere.
Una volta superato il primo impaccio è però un film che prende, soprattutto nella seconda parte e non è solo per l'audacia sempre più evidente delle confessioni della giovane protagonista.
Magari non adatto al grosso pubblico per quel suo essere autorial /chic ma può regalare parecchie soddisfazioni.
( VOTO : 7 / 10 )
Però un crudele colpo di scena da parte del destino la attende .
E' difficile approcciarsi a un film come questo: Come pietra paziente se volessimo parafrasare il titolo, chiede molta pazienza allo spettatore perchè all'inizio è spigoloso, respingente,straniante nell'uso di una voce narrante sempre all'opera. Ambientato quasi interamente in uno squallido interno è un muro di parole che assale uno spettatore magari non ben disposto per un cinema autoriale di siffatto genere.
In realtà cresce col passare dei minuti allo stesso modo in cui fiorisce la bellezza della protagonista ( la bellissima attrice iraniana Golshifteh Farahani, già vista in About Elly e nel recente Just like a woman) trattenuta, anzi soffocata sotto paramenti pesantissimi e un burqa per andare all'esterno della sua povera casa per procurarsi i farmaci necessari per il marito e il poco altro per vivere.
Come pietra paziente si trasforma presto in un je accuse virulento contro un marito crudele , oltre che molto più vecchio di lei, e allo stesso tempo diventa una descrizione fedele del maschilismo feroce che caratterizza una civiltà androcentrica come quella musulmana.
Inoltre è un film sulla femminilità negata, o meglio sulla sessualità negata su cui lei si sofferma nelle sue numerose dissertazioni sull'argomento ( lei non ha nessuna voce in capitolo riguardo al modo di fare l'amore per esempio e gli incontri col militare giovane e imbranato sono importanti per la propria autostima di donna proprio perchè è lei che comanda il gioco erotico) e in questo appare tutta il suo essere occidentale perchè parlare così di sessualità credo che avrebbe creato più di un problema se il film fosse stato realizzato in un Paese arabo. In realtà è diretto dallo stesso autore del libro da cui è tratto,l'afghano Atiq Rahimi,
cosceneggiato con uno dei re Mida del cinema francese, Jean Claude Carriere, un arzillo ultraottantenne con oltre un centinaio di sceneggiature all'attivo.
Come pietra paziente è un lungo flusso di coscienza, un monologo interiore che col trascorrere dei minuti acquista sempre più audacia parallelamente al sentirsi sempre più donna da parte della protagonista, senza nome( nessun personaggio del film ha nome) e che all'inizio sembra un essere asessuato, totalmente devoto a un marito che sembra morto.
Come detto prima è difficile approcciarsi a un film ristretto in pochi ambienti ( la povera casa della protagonista e la casa della zia quando va a trovare le figlie) e caratterizzato da pochissime azioni di cui la più ricorrente è quella di trincerarsi sotto il burqa per procurarsi il necessario per vivere.
Una volta superato il primo impaccio è però un film che prende, soprattutto nella seconda parte e non è solo per l'audacia sempre più evidente delle confessioni della giovane protagonista.
Magari non adatto al grosso pubblico per quel suo essere autorial /chic ma può regalare parecchie soddisfazioni.
( VOTO : 7 / 10 )
martedì 16 aprile 2013
Il sospetto ( 2012 )
Lucas è un insegnante che ha perso il lavoro a causa dei tagli alla scuola e che è occupato temporaneamente in un asilo di un piccolo centro di provincia. E' separato, conduce una vita solitaria ma abbastanza normale e sta lottando legalmente con la moglie per avere più tempo da passare con l'amato figlio Marcus.Un brutto giorno , Klara , la figlia del suo migliore amico , bambina molto legata a lui perchè in famiglia l'ambiente non è dei più salutari a causa dei litigi continui tra genitori , racconta a una delle maestre una piccola bugia riguardante Lucas. La piccola menzogna si trasforma in un sospetto e poi in una comprovata colpevolezza agli occhi della piccola comunità in quanto mette in moto la macchina della giustizia.
Anche se così non è.
Tutto questo si traduce in aperto ostracismo verso Lucas che deve lottare per dimostrare la sua innocenza con al fianco il figlio e i pochi amici che continuano a credere in lui.
Il sospetto è un film che ti fa correre i brividi lungo la schiena. Brividi veri.
E riesce a sopravvivere anche al tentativo di "castrazione" da parte del titolista italiano che fa perdere all'originale Jagten ( che significa caccia) tutta la sua valenza simbolica e antropologica. Un po' come se Il cacciatore di Cimino ( in originale The Deer Hunter, il cacciatore di cervi) si fosse intitolato " L'inferno del Vietnam". Un titolo che c'entra con quello che viene raccontato ma è fortemente limitativo.
Il sospetto è un titolo che coglie solo uno dei molteplici aspetti della pellicola danese: è vero che è forse il primo film che tratta un crimine odioso come la pedofilia dalla prospettiva di un adulto innocente ma lo sguardo acido della cinepresa di Vinterberg ( che dopo l'esordio col botto di Festen sembra ritornare sul luogo del delitto, quello della comunità chiusa oltre che ipocrita e degli abusi sessuali) non si sofferma solo su questo.
Con poche pennellate degne di un impressionista ci dipinge una comunità apparentemente tranquilla in cui un uomo mite come Lucas cerca di mimetizzarsi tra gli altri riuscendoci malamente. E' gentile, premuroso coi bambini, uno dei pochi a non commettere eccessi alcolici, l'unico divorziato , ha sempre una parola di conforto per la piccola Klara testimone involontaria di un clima di violenza malcelata in casa sua , costretta suo malgrado a subire le conseguenze dei litigi dei suoi genitori che arrivano anche a dimenticarsela a scuola.
A lei piace Lucas e quando può scappa da lui non fosse altro per uscire a passeggio con lui e la cagnetta Fenny. Ma involontariamente, per una piccola ripicca infantile gli rovina la vita.
Eppure Lucas pur di non accusare Klara accetta stoicamente le violenze subite, anche in un'occasione come questa è l'unico a cui sembra stare a cuore quella bambina che gli sta facendo del male, del male vero.
L'empatia che si prova per il personaggio di Lucas è totale: in tempi in cui si deve stare attenti anche a fare un sorriso a un bambino per strada perchè potrebbe essere preso per qualcosa d'altro, un personaggio come quello creato nel film di Vinterberg che ha anche qualcosa di trascendente per come rifiuta le logiche umane per affidarsi al suo senso di giustizia, è un bagliore di luce nella tenebra.
Grande merito va a Mads Mikkelsen , attore magnifico grazie al quale un perfetto uomo medio se non mediocre come Lucas , diventa un personaggio memorabile.
Lo spettatore aspetta per tutto il film che venga ribaltato da parte di Lucas l'assioma che i bambini dicono sempre la verità, eppure non succede, non viene concessa la soddisfazione che il mite protagonista si faccia scudo della piccola Klara. sbugiardandola. La stessa Klara che viene usata dai suoi genitori come paravento per nascondere tutti i loro problemi familiari.
Vinterberg non concede questa soddisfazione ma in un crescendo di gesti inconsulti può accadere che per una volta Lucas perda il controllo ( la scena del supermercato) o che trovi il coraggio per mettere di fronte alla propria ipocrisia la comunità riunita come se niente fosse successo nella chiesa del paese durante la notte di Natale.
Inoltre è molto bello il rapporto delineato tra Lucas e Marcus, padre e figlio separati dalla vita e della burocrazia legata al divorzio, che hanno bisogno di stare uno accanto all'altro. Un rapporto all'inizio spigoloso ma poi improntato al calore umano e a un'emotività che forse sono strane da trovare in un film di provenienza scandinava.
Marcus pur non avendo vissuto con lui per un lungo periodo è uno dei pochi che non ha alcun dubbio sul comportamento del padre,accanto al quale vuole completare il proprio percorso di crescita, rappresentato dalla prima battuta di caccia al cervo con il suo fucile, regalatogli da Lucas, lo stesso fucile che suo padre aveva regalato a lui.
Eppure anche in questo finale così apparentemente riconciliato c'è spazio per una chiusura inquietante che riapre un po' tutte le questioni che sembravano risolte.
Vinterberg a livello estetico sembra aver abbandonato le velleità puriste del Dogma 95 : quindi niente camera a mano, niente montaggio nervoso anche nelle fasi più concitate di questo thriller morale che a tratti sfocia nell'horror, una fotografia calda e avvolgente ( ad opera di Charlotte Bruus Christensen) che privilegia l'illuminazione naturale anche nelle numerose scene in interni non particolarmente luminosi.
Il sospetto è il film adatto a tutti quelli che hanno il vizio di giudicare troppo in fretta e in modo assoluto. Per tutti quelli che vedono solo bianco o nero.
Perchè in mezzo ci sono tante sfumature di grigio.
Basta saperle cogliere.
( VOTO : 8 + / 10 )
Anche se così non è.
Tutto questo si traduce in aperto ostracismo verso Lucas che deve lottare per dimostrare la sua innocenza con al fianco il figlio e i pochi amici che continuano a credere in lui.
Il sospetto è un film che ti fa correre i brividi lungo la schiena. Brividi veri.
E riesce a sopravvivere anche al tentativo di "castrazione" da parte del titolista italiano che fa perdere all'originale Jagten ( che significa caccia) tutta la sua valenza simbolica e antropologica. Un po' come se Il cacciatore di Cimino ( in originale The Deer Hunter, il cacciatore di cervi) si fosse intitolato " L'inferno del Vietnam". Un titolo che c'entra con quello che viene raccontato ma è fortemente limitativo.
Il sospetto è un titolo che coglie solo uno dei molteplici aspetti della pellicola danese: è vero che è forse il primo film che tratta un crimine odioso come la pedofilia dalla prospettiva di un adulto innocente ma lo sguardo acido della cinepresa di Vinterberg ( che dopo l'esordio col botto di Festen sembra ritornare sul luogo del delitto, quello della comunità chiusa oltre che ipocrita e degli abusi sessuali) non si sofferma solo su questo.
Con poche pennellate degne di un impressionista ci dipinge una comunità apparentemente tranquilla in cui un uomo mite come Lucas cerca di mimetizzarsi tra gli altri riuscendoci malamente. E' gentile, premuroso coi bambini, uno dei pochi a non commettere eccessi alcolici, l'unico divorziato , ha sempre una parola di conforto per la piccola Klara testimone involontaria di un clima di violenza malcelata in casa sua , costretta suo malgrado a subire le conseguenze dei litigi dei suoi genitori che arrivano anche a dimenticarsela a scuola.
A lei piace Lucas e quando può scappa da lui non fosse altro per uscire a passeggio con lui e la cagnetta Fenny. Ma involontariamente, per una piccola ripicca infantile gli rovina la vita.
Eppure Lucas pur di non accusare Klara accetta stoicamente le violenze subite, anche in un'occasione come questa è l'unico a cui sembra stare a cuore quella bambina che gli sta facendo del male, del male vero.
L'empatia che si prova per il personaggio di Lucas è totale: in tempi in cui si deve stare attenti anche a fare un sorriso a un bambino per strada perchè potrebbe essere preso per qualcosa d'altro, un personaggio come quello creato nel film di Vinterberg che ha anche qualcosa di trascendente per come rifiuta le logiche umane per affidarsi al suo senso di giustizia, è un bagliore di luce nella tenebra.
Lo spettatore aspetta per tutto il film che venga ribaltato da parte di Lucas l'assioma che i bambini dicono sempre la verità, eppure non succede, non viene concessa la soddisfazione che il mite protagonista si faccia scudo della piccola Klara. sbugiardandola. La stessa Klara che viene usata dai suoi genitori come paravento per nascondere tutti i loro problemi familiari.
Vinterberg non concede questa soddisfazione ma in un crescendo di gesti inconsulti può accadere che per una volta Lucas perda il controllo ( la scena del supermercato) o che trovi il coraggio per mettere di fronte alla propria ipocrisia la comunità riunita come se niente fosse successo nella chiesa del paese durante la notte di Natale.
Inoltre è molto bello il rapporto delineato tra Lucas e Marcus, padre e figlio separati dalla vita e della burocrazia legata al divorzio, che hanno bisogno di stare uno accanto all'altro. Un rapporto all'inizio spigoloso ma poi improntato al calore umano e a un'emotività che forse sono strane da trovare in un film di provenienza scandinava.
Marcus pur non avendo vissuto con lui per un lungo periodo è uno dei pochi che non ha alcun dubbio sul comportamento del padre,accanto al quale vuole completare il proprio percorso di crescita, rappresentato dalla prima battuta di caccia al cervo con il suo fucile, regalatogli da Lucas, lo stesso fucile che suo padre aveva regalato a lui.
Eppure anche in questo finale così apparentemente riconciliato c'è spazio per una chiusura inquietante che riapre un po' tutte le questioni che sembravano risolte.
Vinterberg a livello estetico sembra aver abbandonato le velleità puriste del Dogma 95 : quindi niente camera a mano, niente montaggio nervoso anche nelle fasi più concitate di questo thriller morale che a tratti sfocia nell'horror, una fotografia calda e avvolgente ( ad opera di Charlotte Bruus Christensen) che privilegia l'illuminazione naturale anche nelle numerose scene in interni non particolarmente luminosi.
Il sospetto è il film adatto a tutti quelli che hanno il vizio di giudicare troppo in fretta e in modo assoluto. Per tutti quelli che vedono solo bianco o nero.
Perchè in mezzo ci sono tante sfumature di grigio.
Basta saperle cogliere.
( VOTO : 8 + / 10 )
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