Roma 128 d.C.: l'architetto Lucius Modestus, specialista in progettazione di bagni termali, sta vivendo una crisi creativa che sembra irreversibile. Perde il lavoro , è sempre triste e pensieroso ma quando un suo amico lo porta alle terme per fare un bagno caldo rilassante Lucius viene risucchiato in un grosso buco nella parete della piscina e scivolando attraverso il tempo viene catapultato nel Giappone ai giorni nostri in un moderno bagno pubblico dove si sta rilassando un gruppo di anziani. Assieme a quelli che definisce il popolo dalla faccia piatta conosce Mami , aspirante disegnatrice di Manga alla ricerca di una storia che la faccia entrare nel mondo del fumetto dopo tante porte sbattute in faccia. Lucius è colpito dalle innovazioni tecnologiche di quello strano popolo, Mami da Lucius che sarà il soggetto della sua storia. Intanto Lucius continua a fare avanti e indietro nel tempo e porta nell'antica Roma tutte le innovazioni che ha osservato. Diventa così l'architetto di maggior successo a Roma e attira le attenzioni dell'irascibile imperatore Adriano che gli fa progettare delle terme personali che però dovranno essere straordinariamente innovative....
Non so voi , ma io quando solo leggo nelle sinossi dei vari film un qualcosa che li faccia avvicinare ai paradossi temporali e ai viaggi nel tempo, scatta l'impulso irrefrenabile alla visione.
E così è stato per questo Thermae Romae, film giapponese tratto da un manga scritto da Mari Yamazaki e incredibile successo al box office giapponese ( secondo posto assoluto del 2012 con un incasso di circa 75 milioni di dollari ), già presentato con successo al Far East di Udine e in attesa di una distribuzione italiana.
A mio parere ci sono due modi per fare un film sui viaggi del tempo: o cercare di annodare scientificamente tutte le fila del paradosso temporale oppure fregarsene beatamente e pensare solo al divertimento sfrenato usando l'espediente del confronto delle varie culture in epoche diverse.
Thermae Romae fa parte del secondo tipo di film: nessuna pretesa di credibilità ma tutto viene usato per rendere lo spettacolo più fruibile per il grosso pubblico senza arrivare mai alla volgarità gratuita che sembra sia l'unico grimaldello ( almeno dalle nostre parti ) per divertire la platea.
Del resto far interpretare a giapponesi le parti più importanti anche per quanto riguarda gli antichi Romani ( il protagonista interpretato da Hiroshi Abe, da più parti definito il Raul Bova nipponico ma ha recitato anche per Hirokazu Kore-eda, che comunque a vederlo non è un giapponese tipico, molto alto e ben messo fisicamente oltre che dotato di indubbio sex appeal nonostante sia arrivato quasi alle 50 primavere, l'imperatore Adriano, Antonino) e lasciare a caucasici le parti di contorno e le comparsate è testimonianza del fatto che Thermae Romae non ha alcuna pretesa di essere qualcosa di plausibile.
Il film dell'esperto Hideki Takeuchi è una macchina da intrattenimento perfetta: ottime ricostruzioni dell'antica Roma in parte digitali ma in parte fornite da Cinecittà dove è stato girata una parte consistente del film, situazioni paradossali gestite con tempi comici perfetti, un continuo confrontare gli usi e i costumi dell'antica Roma, catturata in un periodo di assoluta opulenza ed edonismo sfrenato, con quelli del Giappone odierno, popolato di arrivisti senza scrupoli e in cui la creatività di ognuno fa fatica ad emergere.
La molla della comicità è scatenata soprattutto dalle situazioni assurde in cui si viene a trovare Lucius quando è catapultato nel Giappone di oggi, dal suo latino maccheronico e dagli incontri con la buffa Mami.
E proprio per questo i suoi viaggi nel tempo sono reiterati nel film annunciati dagli intermezzi in cui è protagonista uno strano cantante lirico.
Col procedere del film si perde l'effetto sorpresa e la comicità risulta meno efficace in quanto ripetitiva ma poco importa, ci si continua a divertire lo stesso.
Thermae Romae è un inno alla stravaganza , del resto parlare di un peplum nipponico non è già di per se abbastanza estroso?
Un intrattenimento perfetto, ben confezionato, mai volgare e senza troppe cadute di tono.
Visione consigliatissima perchè permette di divertirsi un paio di orette con i neuroni a nanna.
Già programmato un sequel per il 2014.
( VOTO : 7 / 10 )
I miei occhi sono pieni delle cicatrici dei mille e mille film che hanno visto.
Il mio cuore ancora porta i segni di tutte le emozioni provate.
La mia anima è la tabula rasa impressionata giorno per giorno,a 24 fotogrammi al secondo.
Cinema vicino e lontano, visibile e invisibile ma quello lontano e invisibile un po' di più.
sabato 30 novembre 2013
venerdì 29 novembre 2013
Acolytes ( 2008 )
James e Mark , ora liceali, sono stati brutalizzati quando erano bambini dal truce Gary che continua a fare il bullo con loro. Hanno così un'idea brillante per far finire tutto questo: lo vogliono uccidere tenendo all'oscuro delle proprie intenzioni la ragazza di James, Chasely , che sta sempre assieme a loro . Mark vede un uomo nel bosco che sta seppellendo qualcosa, scoprono che è il cadavere di una giovane ragazza e decidono di ricattarlo per fargli uccidere Gary. Ma le cose non andranno come previsto: in fondo se quello che hanno trovato è un serial killer, uccidere due mocciosi in più che per giunta lo stanno ricattando, non dovrebbe essere un problema....
Per quanto riguarda i miei gusti , devo dire che l'Australia si sta dimostrando sempre più una garanzia nel campo dei thriller e degli horror. Da Wolf creek in poi è stato un fiorire di titoli altamente inquietanti. Acolytes per la maggior parte della sua durata è un thriller con una regia tutt'altro che dozzinale che sfrutta al meglio un ambientazione spoglia ma efficace e dei protagonisti adolescenti che non sono i classici fighetti americani dei classici filmetti americani, vuoi che siano teen horror oppure thriller sulla scia di Ho visto cosa hai fatto e so chi sei, basati su un espediente vecchio come il cucco ma che ha sempre il suo fascino.
Hanno un cono d'ombra che li sovrasta, un'insoddisfazione verso la routine che li attanaglia che probabilmente è derivata dal trascorso di paura e di dolore che hanno avuto Mark e James, legati tra loro eppure così diversi e distanti sia fisicamente che come personalità. Attorno a loro orbita Chasely, la ragazza di James, anche lei un personaggio intenzionalmente sfocato perchè non sa decidere tra i due. Gli ormoni le dicono James con cui limona a tutto spiano e l'altro regge il moccolo in maniera anche imbarazzante, la ragione la spinge verso Mark, innamorato di lei ma che considera il classico amico con cui confidarsi e basta.
La storia di milioni di altri adolescenti insomma alle prese con le asimmetrie del sentimento amoroso.
E poi c'è il killer, a cui dà volto Joel Edgerton, ancora lontano dal successo che sarebbe arrivato da lì a poco.
La figura del killer da lui recitata è di quelle che fanno veramente paura: a prima vista fisicamente mediocre ma efferato e senza scrupoli. Anche perchè tiene famiglia e cerca di difenderla ad ogni costo.
E nella famiglia si nasconde una sorpresa che non posso rivelare altrimenti toglierei metà del piacere della visione del film .
Partendo da uno spunto semplice, anche banale se vogliamo, Jon Hewitt imbastisce una storia di ordinaria disperazione in cui vittime e carnefici si cambiano continuamente di ruolo orchestrando il tutto con una certa dose di aggraziata perversione.
Sicuramente sa il fatto suo e riesce a mantenere la tensione altissima per tutta la durata del film
Un thriller geometrico, rarefatto in cui contano più le suggestioni evocate che quanto accade che in realtà è veramente pochino.
Però quel poco è altamente destabilizzante.
I due teenagers si trovano invischiati in un gioco molto più grande di loro da cui non sanno come uscire perchè sono al centro del mirino di un uomo che non ha esitato a uccidere in passato e non esiterebbe a farlo ancora.
Ma oltre a loro evidentemente da questo gioco al massacro non sanno uscirne neanche regista e sceneggiatori che optano per un finale ad effetto, perchè il colpo di scena c'è ed è di quelli che fanno rimanere abbastanza a bocca aperta, però virare all'horror efferato, allo slasher , dopo 90 minuti di thriller psicologico con una regia di alto livello come quella di Jon Hewitt, è un qualcosa che ha del semplicistico.
Sembra quasi qualcosa da dare velocemente in pasto al pubblico, un po' come il finger food da prendere al classico take away, venuto solo per placare la sete di sangue ed efferatezze.
Si crea l'effetto sorpresa ma alla fine si resta con una sensazione amarognola perchè troppo banale far finire tutto così.
Acolytes è un film da vedere e da sentire, la bellezza delle inquadrature e la loro geometria armoniosa è parte importantissima e imprescindibile nella visione, cosa affatto scontata in un genere cinematografico, come il thriller, in cui solitamente si toccano altre corde emotive.
Se dovessi fare un parallelo tra questo film e qualche altra visione del passato quello che mi viene in mente è Snowtown, altro thriller semisconosciuto, sempre australiano, sanguinoso il giusto , basato su una storia vera che ha quasi dell'incredibile.
Perchè come al solito la realtà supera sempre e di gran lunga , la più fervida delle immaginazioni....
( VOTO : 6,5 / 10 )
Per quanto riguarda i miei gusti , devo dire che l'Australia si sta dimostrando sempre più una garanzia nel campo dei thriller e degli horror. Da Wolf creek in poi è stato un fiorire di titoli altamente inquietanti. Acolytes per la maggior parte della sua durata è un thriller con una regia tutt'altro che dozzinale che sfrutta al meglio un ambientazione spoglia ma efficace e dei protagonisti adolescenti che non sono i classici fighetti americani dei classici filmetti americani, vuoi che siano teen horror oppure thriller sulla scia di Ho visto cosa hai fatto e so chi sei, basati su un espediente vecchio come il cucco ma che ha sempre il suo fascino.
Hanno un cono d'ombra che li sovrasta, un'insoddisfazione verso la routine che li attanaglia che probabilmente è derivata dal trascorso di paura e di dolore che hanno avuto Mark e James, legati tra loro eppure così diversi e distanti sia fisicamente che come personalità. Attorno a loro orbita Chasely, la ragazza di James, anche lei un personaggio intenzionalmente sfocato perchè non sa decidere tra i due. Gli ormoni le dicono James con cui limona a tutto spiano e l'altro regge il moccolo in maniera anche imbarazzante, la ragione la spinge verso Mark, innamorato di lei ma che considera il classico amico con cui confidarsi e basta.
La storia di milioni di altri adolescenti insomma alle prese con le asimmetrie del sentimento amoroso.
E poi c'è il killer, a cui dà volto Joel Edgerton, ancora lontano dal successo che sarebbe arrivato da lì a poco.
La figura del killer da lui recitata è di quelle che fanno veramente paura: a prima vista fisicamente mediocre ma efferato e senza scrupoli. Anche perchè tiene famiglia e cerca di difenderla ad ogni costo.
E nella famiglia si nasconde una sorpresa che non posso rivelare altrimenti toglierei metà del piacere della visione del film .
Partendo da uno spunto semplice, anche banale se vogliamo, Jon Hewitt imbastisce una storia di ordinaria disperazione in cui vittime e carnefici si cambiano continuamente di ruolo orchestrando il tutto con una certa dose di aggraziata perversione.
Sicuramente sa il fatto suo e riesce a mantenere la tensione altissima per tutta la durata del film
Un thriller geometrico, rarefatto in cui contano più le suggestioni evocate che quanto accade che in realtà è veramente pochino.
Però quel poco è altamente destabilizzante.
I due teenagers si trovano invischiati in un gioco molto più grande di loro da cui non sanno come uscire perchè sono al centro del mirino di un uomo che non ha esitato a uccidere in passato e non esiterebbe a farlo ancora.
Ma oltre a loro evidentemente da questo gioco al massacro non sanno uscirne neanche regista e sceneggiatori che optano per un finale ad effetto, perchè il colpo di scena c'è ed è di quelli che fanno rimanere abbastanza a bocca aperta, però virare all'horror efferato, allo slasher , dopo 90 minuti di thriller psicologico con una regia di alto livello come quella di Jon Hewitt, è un qualcosa che ha del semplicistico.
Sembra quasi qualcosa da dare velocemente in pasto al pubblico, un po' come il finger food da prendere al classico take away, venuto solo per placare la sete di sangue ed efferatezze.
Si crea l'effetto sorpresa ma alla fine si resta con una sensazione amarognola perchè troppo banale far finire tutto così.
Acolytes è un film da vedere e da sentire, la bellezza delle inquadrature e la loro geometria armoniosa è parte importantissima e imprescindibile nella visione, cosa affatto scontata in un genere cinematografico, come il thriller, in cui solitamente si toccano altre corde emotive.
Se dovessi fare un parallelo tra questo film e qualche altra visione del passato quello che mi viene in mente è Snowtown, altro thriller semisconosciuto, sempre australiano, sanguinoso il giusto , basato su una storia vera che ha quasi dell'incredibile.
Perchè come al solito la realtà supera sempre e di gran lunga , la più fervida delle immaginazioni....
( VOTO : 6,5 / 10 )
giovedì 28 novembre 2013
Il passato ( 2013 )
Ahmad arriva a Parigi dalla natìa Teheran chiamato dall'ex moglie Marie in quanto deve firmare le carte per il divorzio. Viene ospitato a casa di Marie assieme alle sue due figlie, avute da un altro uomo . Ahmad scopre così che l'ex moglie ha grossi problemi di comunicazione con la figlia più grande Lucie e una relazione con Samir, il quale ha una moglie in coma da vari mesi per un tentato suicidio.
Se la qualità del lavoro di Asghar Farhadi aveva bisogno di una qualche conferma dopo gli exploits internazionali di About Elly (etichettato forse anche superficialmente come un Grande Freddo all'iraniana) ma soprattutto di Una separazione (ancora divorzi ), con Il passato il regista iraniano prosegue nella sua strada di cesellatore di stati d'animo poi brillantemente portati su pellicola.
La regia sopraffina di Fahradi che ancora una volta si fa notare come il meno iraniano dei registi di quel Paese, anzi molto più vicino alla concezione di cinema europeo d'autore, nasce da un'eccellente scrittura di personaggi e dialoghi.
Le sue non sono sceneggiature , sono intarsi psicologici finissimi in cui perdersi e ritrovarsi allo stesso tempo, hanno il sapore acre della realtà di ogni giorno colta nelle sue mille sfumature e nei suoi mille cambiamenti d'umore. E proprio per questo appassionano.
Ne Il passato cambia la cornice urbana: se in About Elly era una casa di vacanza un po' troppo vissuta, se in Una separazione era il contesto urbano tentacolare di Teheran, qui è una Parigi quasi dimessa che fa da sfondo, ma il contenuto non cambia.
I personaggi creati dalla penna di Fahradi credono di poter guardare al futuro senza tener conto del loro trascorso ma non è così, non può essere così: il passato è una zavorra che torna sempre e comunque a urlare la sua presenza.
Se ne accorge Ahmad che era tornato a Teheran per dimenticare la moglie , se ne accorge Marie che crede che una firma cancelli tutto il suo passato con Ahmad e forse anche quello precedente al matrimonio con lui, lo sperimenta sulla propria pelle Samir che ha una moglie imprigionata in un letto di ospedale impossibile da dimenticare anche alla luce della relazione con Marie.
Si parla molto e succede poco ma non c'e alcuno spazio per distrarsi o per annoiarsi, anzi si accolgono con meraviglia i colpi di scena sapientemente orchestrati in un sceneggiatura che in modo matematico determinano uno slittamento lento ma continuo degli avvenimenti in direzioni inaspettate.
Si pende letteralmente dalle labbra dei vari personaggi impegnati in un tour de force emotivo in cui gli attori si districano con grande talento e bravura.
Il passato è uno spietato kammerspiel, un thriller dei sentimenti dalle cadenze noir in cui le parole sono usate come corpi contundenti e in cui tutti hanno qualcosa da dimostrare e da nascondere.
Tutti tranne Ahmad che si comporta come un catalizzatore enzimatico,un' acceleratore di reazioni che cambiano la chimica reciproca dei vari protagonisti in campo.
Fahradi sembra ansioso di mostrare la faccia rassicurante della civiltà islamica sottolineando ( e non solo nel suo ultimo film ) che gli eccessi integralisti non fanno parte di un popolo come quello iraniano dagli usi e costumi parecchio evoluti, praticamente occidentali nonostante il tentativo oscurantista del regime degli ayatollah.
Altra cosa che avvicina ancora di più le vicende raccontate ne Il passato alla realtà cangiante di ogni giorno e che la storia di Ahmad , di Marie e di Samir è che non ci sono risposte per tutto quello che accade e non ci sono soluzioni definitive.
Tutto continua, tutto si trasforma, a volta basta un profumo che si sparge nell'aria asettica di una stanza d'ospedale....
( VOTO : 8 /10 )
Se la qualità del lavoro di Asghar Farhadi aveva bisogno di una qualche conferma dopo gli exploits internazionali di About Elly (etichettato forse anche superficialmente come un Grande Freddo all'iraniana) ma soprattutto di Una separazione (ancora divorzi ), con Il passato il regista iraniano prosegue nella sua strada di cesellatore di stati d'animo poi brillantemente portati su pellicola.
La regia sopraffina di Fahradi che ancora una volta si fa notare come il meno iraniano dei registi di quel Paese, anzi molto più vicino alla concezione di cinema europeo d'autore, nasce da un'eccellente scrittura di personaggi e dialoghi.
Le sue non sono sceneggiature , sono intarsi psicologici finissimi in cui perdersi e ritrovarsi allo stesso tempo, hanno il sapore acre della realtà di ogni giorno colta nelle sue mille sfumature e nei suoi mille cambiamenti d'umore. E proprio per questo appassionano.
Ne Il passato cambia la cornice urbana: se in About Elly era una casa di vacanza un po' troppo vissuta, se in Una separazione era il contesto urbano tentacolare di Teheran, qui è una Parigi quasi dimessa che fa da sfondo, ma il contenuto non cambia.
I personaggi creati dalla penna di Fahradi credono di poter guardare al futuro senza tener conto del loro trascorso ma non è così, non può essere così: il passato è una zavorra che torna sempre e comunque a urlare la sua presenza.
Se ne accorge Ahmad che era tornato a Teheran per dimenticare la moglie , se ne accorge Marie che crede che una firma cancelli tutto il suo passato con Ahmad e forse anche quello precedente al matrimonio con lui, lo sperimenta sulla propria pelle Samir che ha una moglie imprigionata in un letto di ospedale impossibile da dimenticare anche alla luce della relazione con Marie.
Si parla molto e succede poco ma non c'e alcuno spazio per distrarsi o per annoiarsi, anzi si accolgono con meraviglia i colpi di scena sapientemente orchestrati in un sceneggiatura che in modo matematico determinano uno slittamento lento ma continuo degli avvenimenti in direzioni inaspettate.
Si pende letteralmente dalle labbra dei vari personaggi impegnati in un tour de force emotivo in cui gli attori si districano con grande talento e bravura.
Il passato è uno spietato kammerspiel, un thriller dei sentimenti dalle cadenze noir in cui le parole sono usate come corpi contundenti e in cui tutti hanno qualcosa da dimostrare e da nascondere.
Tutti tranne Ahmad che si comporta come un catalizzatore enzimatico,un' acceleratore di reazioni che cambiano la chimica reciproca dei vari protagonisti in campo.
Fahradi sembra ansioso di mostrare la faccia rassicurante della civiltà islamica sottolineando ( e non solo nel suo ultimo film ) che gli eccessi integralisti non fanno parte di un popolo come quello iraniano dagli usi e costumi parecchio evoluti, praticamente occidentali nonostante il tentativo oscurantista del regime degli ayatollah.
Altra cosa che avvicina ancora di più le vicende raccontate ne Il passato alla realtà cangiante di ogni giorno e che la storia di Ahmad , di Marie e di Samir è che non ci sono risposte per tutto quello che accade e non ci sono soluzioni definitive.
Tutto continua, tutto si trasforma, a volta basta un profumo che si sparge nell'aria asettica di una stanza d'ospedale....
( VOTO : 8 /10 )
mercoledì 27 novembre 2013
Blackfish ( 2013 )
La storia di Tilikum , un maschio di orca catturato quando aveva appena tre anni al largo delle coste islandesi nel 1983 e fatto esibire nei parchi acquatici della catena Seaworld dove ha causato negli anni 3 morti, tra cui l'esperta addestratrice Dawn Brancheau , attaccata e deliberatamente massacrata durante uno spettacolo di fronte al pubblico.
Perchè Tilikum continua ad esibirsi e perchè questi magnifici mammiferi marini che, secondo gli scienziati , hanno un'emotività e un'intelligenza superiori a quella dell'uomo sono costretti a passare la maggior parte delle loro vite in piscine anguste che sono delle vere e proprie prigioni?
La risposta è una sola : i soldi , per la SeaWorld e per tutte le società che gestiscono parchi acquatici questi animali sono fonte di reddito e incassare una marea di dollari in più val bene qualche sacrificio umano e far passare una vita da reclusi ad animali il cui unico diritto inalienabile sarebbe la libertà....
Accanto alla storia di Dawn e di Tilikum anche la narrazione di altri "incidenti"...
Blackfish bellissimo documentario di Gabriela Cowperthwaite, presentato con successo al Sundance di quest'anno, non è semplicemente la storia della vita di un'orca "assassina" ( il film di Michael Anderson con Richard Harris e Charlotte Rampling è espressamente citato, anzi vengono proprio mostrate alcune sequenze del finale per dimostrare quanto possa essere vendicativa un'orca, animale come già detto di intelligenza persino superiore a quella umana) ma è un virulento atto d'accusa contro i parchi acquatici che costringono questi animali a vite "bestiali", consumate per la maggior parte del tempo in piscine anguste, per loro poco più di vasche da bagno.
E sottolinea anche quanto sia un'illusione credere di aver addestrato perfettamente questi animali che conservano comunque la loro indipendenza e il loro istinto.
La storia di Tilkum è la storia di un animale che ha vissuto soffrendo e che durante la sua "carriera" da performer ha causato sofferenza uccidendo , per tre volte: la prima volta nel 1991 allorchè l'addestratrice Keltie Byrne entra in acqua per nuotare con Tilikum e le due femmine che sono con lui ( due femmine dominanti, gravide a insaputa degli addestratori,che hanno attaccato il maschio in varie occasioni riempiendolo di ferite). In realtà è la prima volta che un addestratore si tuffa nell'acqua in cui ci sono le orche e sono le femmine che attaccano ma anche il maschio fa la sua parte.
Nel 1999 vengono ritrovati nella sua vasca i resti di un uomo che nottetempo si è introdotto nel parco acquatico e si è tuffato nella vasca di Tilikum che ha reagito come è nella sua natura di predatore.
Nel 2010 il terzo incidente, quello che lo ha reso noto all'opinione pubblica: Tilikum massacra durante uno spettacolo l'esperta addestratrice Dawn Brancheau.
Blackfish è un documentario toccante che avvalendosi delle testimonianze di addestratori e di dipendenti "pentiti" getta una luce inquietante su come vengono gestiti in cattività questi giganteschi mammiferi acquatici e di come vengano catturati e divisi dalla rispettive famiglie.
Perchè le orche hanno un'organizzazione sociale simile a quella dell'uomo, vivono per tutta la vita in un nucleo familiare fisso , hanno cure parentali insolitamente lunghe e un legame tra i vari membri della famiglia che forse è il più forte tra quelli che si conoscono in natura.
Non è un caso che la lunga sequenza della cattura delle orche per portarle ai parchi acquatici ( interessano soprattutto i cuccioli, gli unici che si possono "addestrare" ) sia la più toccante di tutto il film, forse anche più del racconto, che fa correre veramente i brividi lungo la schiena , della morte di Dawn Brancheau che si ha modo di conoscere e apprezzare in filmati di repertorio.
E un altro picco emotivo del film è quando la piccola Nil , di quattro anni circa ( giovanissima , praticamente una cucciola, le orche raggiungono la maturità sessuale a 10 anni e hanno una vita di lunghezza paragonabile a quella dell'uomo) viene separata dalla madre Kalina per essere trasferita in un altro parco acquatico.
Il dolore di Kalina è qualcosa che tracima anche al di qua dello schermo, come i suoi vocalizzi accorati.
Blackfish è un documentario scomodo per una lucrativa attività imprenditoriale come quella dei parchi acquatici, dei veri e propri lager per mammiferi acquatici in cui gli addestratori , a loro modo anche in buona fede, fanno la figura dell'ultima ruota del carro, carne da macello sacrificabile e interscambiabile.
Un film che si scaglia contro una potente lobby economica e già questa sarebbe un'ottima ragione per la visione.
Se ciò non bastasse c'è anche tutto il resto: lotta di civiltà e emozione che fanno di Blackfish un film irrinunciabile.
( VOTO : 8 + / 10 )
Perchè Tilikum continua ad esibirsi e perchè questi magnifici mammiferi marini che, secondo gli scienziati , hanno un'emotività e un'intelligenza superiori a quella dell'uomo sono costretti a passare la maggior parte delle loro vite in piscine anguste che sono delle vere e proprie prigioni?
La risposta è una sola : i soldi , per la SeaWorld e per tutte le società che gestiscono parchi acquatici questi animali sono fonte di reddito e incassare una marea di dollari in più val bene qualche sacrificio umano e far passare una vita da reclusi ad animali il cui unico diritto inalienabile sarebbe la libertà....
Accanto alla storia di Dawn e di Tilikum anche la narrazione di altri "incidenti"...
Blackfish bellissimo documentario di Gabriela Cowperthwaite, presentato con successo al Sundance di quest'anno, non è semplicemente la storia della vita di un'orca "assassina" ( il film di Michael Anderson con Richard Harris e Charlotte Rampling è espressamente citato, anzi vengono proprio mostrate alcune sequenze del finale per dimostrare quanto possa essere vendicativa un'orca, animale come già detto di intelligenza persino superiore a quella umana) ma è un virulento atto d'accusa contro i parchi acquatici che costringono questi animali a vite "bestiali", consumate per la maggior parte del tempo in piscine anguste, per loro poco più di vasche da bagno.
E sottolinea anche quanto sia un'illusione credere di aver addestrato perfettamente questi animali che conservano comunque la loro indipendenza e il loro istinto.
La storia di Tilkum è la storia di un animale che ha vissuto soffrendo e che durante la sua "carriera" da performer ha causato sofferenza uccidendo , per tre volte: la prima volta nel 1991 allorchè l'addestratrice Keltie Byrne entra in acqua per nuotare con Tilikum e le due femmine che sono con lui ( due femmine dominanti, gravide a insaputa degli addestratori,che hanno attaccato il maschio in varie occasioni riempiendolo di ferite). In realtà è la prima volta che un addestratore si tuffa nell'acqua in cui ci sono le orche e sono le femmine che attaccano ma anche il maschio fa la sua parte.
Nel 1999 vengono ritrovati nella sua vasca i resti di un uomo che nottetempo si è introdotto nel parco acquatico e si è tuffato nella vasca di Tilikum che ha reagito come è nella sua natura di predatore.
Nel 2010 il terzo incidente, quello che lo ha reso noto all'opinione pubblica: Tilikum massacra durante uno spettacolo l'esperta addestratrice Dawn Brancheau.
Blackfish è un documentario toccante che avvalendosi delle testimonianze di addestratori e di dipendenti "pentiti" getta una luce inquietante su come vengono gestiti in cattività questi giganteschi mammiferi acquatici e di come vengano catturati e divisi dalla rispettive famiglie.
Perchè le orche hanno un'organizzazione sociale simile a quella dell'uomo, vivono per tutta la vita in un nucleo familiare fisso , hanno cure parentali insolitamente lunghe e un legame tra i vari membri della famiglia che forse è il più forte tra quelli che si conoscono in natura.
Non è un caso che la lunga sequenza della cattura delle orche per portarle ai parchi acquatici ( interessano soprattutto i cuccioli, gli unici che si possono "addestrare" ) sia la più toccante di tutto il film, forse anche più del racconto, che fa correre veramente i brividi lungo la schiena , della morte di Dawn Brancheau che si ha modo di conoscere e apprezzare in filmati di repertorio.
E un altro picco emotivo del film è quando la piccola Nil , di quattro anni circa ( giovanissima , praticamente una cucciola, le orche raggiungono la maturità sessuale a 10 anni e hanno una vita di lunghezza paragonabile a quella dell'uomo) viene separata dalla madre Kalina per essere trasferita in un altro parco acquatico.
Il dolore di Kalina è qualcosa che tracima anche al di qua dello schermo, come i suoi vocalizzi accorati.
Blackfish è un documentario scomodo per una lucrativa attività imprenditoriale come quella dei parchi acquatici, dei veri e propri lager per mammiferi acquatici in cui gli addestratori , a loro modo anche in buona fede, fanno la figura dell'ultima ruota del carro, carne da macello sacrificabile e interscambiabile.
Un film che si scaglia contro una potente lobby economica e già questa sarebbe un'ottima ragione per la visione.
Se ciò non bastasse c'è anche tutto il resto: lotta di civiltà e emozione che fanno di Blackfish un film irrinunciabile.
( VOTO : 8 + / 10 )
martedì 26 novembre 2013
E alla fine è arrivata Bea....
E alla fine è arrivata Bea, inaudita ferocia a quattro zampe concentrata in 850 grammi di cane.
Non ce la facevamo.
Dopo Morgana la casa era terribilmente vuota, ogni mattina guardavamo quel divano quasi a volerla cercare in un angolino, quasi a voler pensare che tutto quello che ho ( abbiamo vissuto ) circa un mesetto fa era stato solo un terribile incubo da cui finalmente c'eravamo svegliati.
E invece no. Morgana non c'era più.
Sono stato un mese a guardare compulsivamente annunci su giornali e internet ( quanti cagnolini cercano casa), a contattare amici e conoscenti nel campo veterinario per vedere se c'era qualche cucciolo che smouovesse il nostro cuore ancora una volta, ho telefonato anche ad allevatori della zona.
E poi è arrivata lei: presunta yorkshire, molto presunta figlia di un accoppiamento infingardo.
La madre è una yorkshire pura, è stata portata ad accoppiare con un altro esponente della sua razza ma evidentemente la femminuccia ha concesso le sue grazie anche( oppure solo) al pinscher di famiglia che furbescamente si è proposto.
Ne è uscita fuori una cucciolata bellissima ma meno commerciabile del preventivato , sapete la gente cerca cagnolini di razza pura e io ho scelto la più piccola e dolce. La più timida. Quella che se ne è stata lontano a guardare incuriosita ma non ha avuto il coraggio di avvicinarsi.Bea.
Dura battaglia per il nome perchè a casa mi sono dovuto scontrare con una dislessia strisciante( via si scherza..) in quanto vari nomi sono stati scartati proprio perchè ognuno di noi li diceva a suo modo.
Abbiamo scelta Bea , ma anche con Bea qualche volta si va bene ma non benissimo, visto che si parte da Ba e si arriva a Dea passando un po' per tutti gli intermedi.
Ci piacevano nomi anche particolari per cagnette come Rimmel o Minuetto ma non sono stati votati all'unanimità.
Anche perchè prounciati entrambi in maniera varia ed eventuale.
Bea ha riscosso invece il consenso di tutti.....
Intanto lei si sta abituando a noi: risponde, gioca , ha messo da parte la timidezza di quel sabato uggioso in cui l'abbiamo prelevata dall'allevamento e si sta scatenando a mordere piedi e calzini, un po' tutto quello che capita alla sua altezza, rasoterra.Sta cominciando a esplorare la casa e mordicchia ,da bravo cucciolo tutto quello che trova ad altezza del suo musetto.
Le piace un casino stare in braccio.
E c'è la fila per tenerla tra le braccia, lei che entra in una sola mano....
Bea non sarà mai Morgana.
Sarà Bea e basta.
Non ce la facevamo.
Dopo Morgana la casa era terribilmente vuota, ogni mattina guardavamo quel divano quasi a volerla cercare in un angolino, quasi a voler pensare che tutto quello che ho ( abbiamo vissuto ) circa un mesetto fa era stato solo un terribile incubo da cui finalmente c'eravamo svegliati.
E invece no. Morgana non c'era più.
Sono stato un mese a guardare compulsivamente annunci su giornali e internet ( quanti cagnolini cercano casa), a contattare amici e conoscenti nel campo veterinario per vedere se c'era qualche cucciolo che smouovesse il nostro cuore ancora una volta, ho telefonato anche ad allevatori della zona.
E poi è arrivata lei: presunta yorkshire, molto presunta figlia di un accoppiamento infingardo.
La madre è una yorkshire pura, è stata portata ad accoppiare con un altro esponente della sua razza ma evidentemente la femminuccia ha concesso le sue grazie anche( oppure solo) al pinscher di famiglia che furbescamente si è proposto.
Ne è uscita fuori una cucciolata bellissima ma meno commerciabile del preventivato , sapete la gente cerca cagnolini di razza pura e io ho scelto la più piccola e dolce. La più timida. Quella che se ne è stata lontano a guardare incuriosita ma non ha avuto il coraggio di avvicinarsi.Bea.
Dura battaglia per il nome perchè a casa mi sono dovuto scontrare con una dislessia strisciante( via si scherza..) in quanto vari nomi sono stati scartati proprio perchè ognuno di noi li diceva a suo modo.
Abbiamo scelta Bea , ma anche con Bea qualche volta si va bene ma non benissimo, visto che si parte da Ba e si arriva a Dea passando un po' per tutti gli intermedi.
Ci piacevano nomi anche particolari per cagnette come Rimmel o Minuetto ma non sono stati votati all'unanimità.
Anche perchè prounciati entrambi in maniera varia ed eventuale.
Bea ha riscosso invece il consenso di tutti.....
Intanto lei si sta abituando a noi: risponde, gioca , ha messo da parte la timidezza di quel sabato uggioso in cui l'abbiamo prelevata dall'allevamento e si sta scatenando a mordere piedi e calzini, un po' tutto quello che capita alla sua altezza, rasoterra.Sta cominciando a esplorare la casa e mordicchia ,da bravo cucciolo tutto quello che trova ad altezza del suo musetto.
Le piace un casino stare in braccio.
E c'è la fila per tenerla tra le braccia, lei che entra in una sola mano....
Bea non sarà mai Morgana.
Sarà Bea e basta.
lunedì 25 novembre 2013
Ender's game ( 2013 )
In un futuro prossimo gli alieni hanno attaccato la Terra e se non fosse stato per l'intervento risolutivo del leggendario comandante della Flotta Internazionale Mazer Rackham i terrestri non sarebbero più esistiti, cancellati dalla faccia dell'universo. Sono passati anni e anni e il colonnello Graf in previsione di un nuovo attacco alieno sta selezionando per conto della Comunità Militare Internazionale le giovani menti più brillanti del mondo per sostituire degnamente Mazer Rackham. E sembra aver trovato un degno successore del comandante in Ender Wiggin, giovanissimo ma dotato di una solidità psicologica e strategica mai viste in un ragazzo della sua età....
Ender's game racchiude in sè un po' tutti quegli stereotipi di cui si sta nutrendo il cinema hollywoodiano da Harry Potter in avanti: bambini protagonisti ma non troppo bambini, il target è presumibilmente adolescenziale, una storia che racchiuda in sè il percorso di formazione del protagonista magari immergendolo in scenari alternativi, magici o futuribili, un po' di supereroismo con annessi superproblemi come Spiderman docet, la classica storia di amoruccio adolescenziale molto sfumato in cui un lui simaptizza con una lei ( e guardacaso nella scuola in cui va Ender c'è solo una ragazza e da quando lui arriva costei sbatte gli occhioni solo per lui anche se per contrappunto le hanno voluto dare caratteristiche un po' da maschiaccio), una battaglia finale in cui il nostro riporterà una vittoria schiacciante, come Hollywood prescrive e poi anche se è una vittoria di Pirro ( chi vedrà il film saprà, non voglio spoilerare) alla fine chissenefrega, in una nazione armata fino ai denti e giustizialista come gli Stati Uniti, questi sono danni collaterali che ci possono stare.
Ender's game è un po' tutto questo: un po' Harry Potter, un po' Wargames e un po' Ufficiale gentiluomo.
Tre perfetti esponenti di cinema a stelle e strisce che premiano il genio, l'iniziativa privata e che descrivono un rude , si fa per dire, addestramento militare ( in senso lato, in fondo anche l'addestramento del maghetto in quel di Hogvarts è militaresco) che serve per riuscire a essere migliore del presunto nemico.
Alla fine è un giochino anche divertente ma assolutamente prevedibile e infarcito , come dicevamo prima, di tutti quegli stereotipi che non permettono di elevarlo a qualcosa di più, troppo deteriore la scrittura cinematografica per averne una considerazione maggiore.
Se le pagine scritte potevano covare una certa ambizione , il film è tutto fuorchè ambizioso: un compitino confezionato in modo discreto ma anonimo, visivamente meno impressionante di tanti altri sci fi visti ultimamente ( e fa mistero quel budget di 110 milioni di dollari che sinceramente non ha dato i suoi frutti, visivamente parlando, gli effetti hanno un bell'aspetto ma non riempiono esattamente gli occhi di meraviglia), un andamento rettilineo prevedibile sin dalla prima sequenza.
Si vede subito che Ender Wiggin è un predestinato e che sarà lui a far riecheggiare il nome del glorioso Mazer Rackham. Leggermente oscure sono le modalità in cui viene fuori la sua genialità ( in realtà del gioco e della strategia dell'"ultima simulazione" a mio parere si capisce ben poco ), mentre i suoi sensi di colpa fanno a spintoni per uscire fin dall'incontro con Bonzo, una specie di nano da circo con una presunzione tale che vien voglia di tappargli la bocca a suon di ceffoni.
Buono il cast con i giovani meglio degli anziani: convince parecchio Asa Butterfield mentre Harrison Ford ormai è diventato una statua di sale di espressività pari quasi allo zero e vogliamo poi parlare di un Ben Kingsley con il volto tutto tatuato perchè mezzo maori?
Ender's game complessivamente è un film discontinuo con alcune belle sezioni ( l'inizio e l'addestramento militare, decisamente le parti migliori del film) e cadute di ritmo ( il ritorno sulla Terra uccide quanto di buono fatto vedere fino ad allora ).
Il finale sarebbe anche bello se non fosse appesantito da un controfinale posticcio e retorico fino all'inverosimile.
Necessariamente incompleto perchè è tratto solo del primo dei romanzi riguardanti le vicende di Ender ( originariamente era in progetto una trilogia).
Ma visto che il successo non è arrivato nelle dimensioni volute adesso il futuro cinematografico della saga di Ender è tutto un punto interrogativo.
E forse non è un gran male....
( VOTO : 5,5 / 10 )
Ender's game racchiude in sè un po' tutti quegli stereotipi di cui si sta nutrendo il cinema hollywoodiano da Harry Potter in avanti: bambini protagonisti ma non troppo bambini, il target è presumibilmente adolescenziale, una storia che racchiuda in sè il percorso di formazione del protagonista magari immergendolo in scenari alternativi, magici o futuribili, un po' di supereroismo con annessi superproblemi come Spiderman docet, la classica storia di amoruccio adolescenziale molto sfumato in cui un lui simaptizza con una lei ( e guardacaso nella scuola in cui va Ender c'è solo una ragazza e da quando lui arriva costei sbatte gli occhioni solo per lui anche se per contrappunto le hanno voluto dare caratteristiche un po' da maschiaccio), una battaglia finale in cui il nostro riporterà una vittoria schiacciante, come Hollywood prescrive e poi anche se è una vittoria di Pirro ( chi vedrà il film saprà, non voglio spoilerare) alla fine chissenefrega, in una nazione armata fino ai denti e giustizialista come gli Stati Uniti, questi sono danni collaterali che ci possono stare.
Ender's game è un po' tutto questo: un po' Harry Potter, un po' Wargames e un po' Ufficiale gentiluomo.
Tre perfetti esponenti di cinema a stelle e strisce che premiano il genio, l'iniziativa privata e che descrivono un rude , si fa per dire, addestramento militare ( in senso lato, in fondo anche l'addestramento del maghetto in quel di Hogvarts è militaresco) che serve per riuscire a essere migliore del presunto nemico.
Alla fine è un giochino anche divertente ma assolutamente prevedibile e infarcito , come dicevamo prima, di tutti quegli stereotipi che non permettono di elevarlo a qualcosa di più, troppo deteriore la scrittura cinematografica per averne una considerazione maggiore.
Se le pagine scritte potevano covare una certa ambizione , il film è tutto fuorchè ambizioso: un compitino confezionato in modo discreto ma anonimo, visivamente meno impressionante di tanti altri sci fi visti ultimamente ( e fa mistero quel budget di 110 milioni di dollari che sinceramente non ha dato i suoi frutti, visivamente parlando, gli effetti hanno un bell'aspetto ma non riempiono esattamente gli occhi di meraviglia), un andamento rettilineo prevedibile sin dalla prima sequenza.
Si vede subito che Ender Wiggin è un predestinato e che sarà lui a far riecheggiare il nome del glorioso Mazer Rackham. Leggermente oscure sono le modalità in cui viene fuori la sua genialità ( in realtà del gioco e della strategia dell'"ultima simulazione" a mio parere si capisce ben poco ), mentre i suoi sensi di colpa fanno a spintoni per uscire fin dall'incontro con Bonzo, una specie di nano da circo con una presunzione tale che vien voglia di tappargli la bocca a suon di ceffoni.
Buono il cast con i giovani meglio degli anziani: convince parecchio Asa Butterfield mentre Harrison Ford ormai è diventato una statua di sale di espressività pari quasi allo zero e vogliamo poi parlare di un Ben Kingsley con il volto tutto tatuato perchè mezzo maori?
Ender's game complessivamente è un film discontinuo con alcune belle sezioni ( l'inizio e l'addestramento militare, decisamente le parti migliori del film) e cadute di ritmo ( il ritorno sulla Terra uccide quanto di buono fatto vedere fino ad allora ).
Il finale sarebbe anche bello se non fosse appesantito da un controfinale posticcio e retorico fino all'inverosimile.
Necessariamente incompleto perchè è tratto solo del primo dei romanzi riguardanti le vicende di Ender ( originariamente era in progetto una trilogia).
Ma visto che il successo non è arrivato nelle dimensioni volute adesso il futuro cinematografico della saga di Ender è tutto un punto interrogativo.
E forse non è un gran male....
( VOTO : 5,5 / 10 )
domenica 24 novembre 2013
Italia anni '70 - Strategia del ragno ( 1970 )
Quante volte , io per primo, ci lamentiamo che il nostro cinema non è più quello di una volta? Tantissime e purtroppo a ragione. Ecco lo spunto per questa nuova rubrichetta , a cadenza settimanale, spero , in cui ricorderemo il cinema che facevamo una volta e che ora non facciamo più.
Perchè gli anni '70 allora? A mio parere perchè sintetizzano al meglio il respiro internazionale di certo nostro cinema contrapponendolo a un tipo di cinema assolutamente popolare, anzi nazional popolare. Al tramonto dei cinema di seconda e terza visione ( i pinocchietti che avevano fatto le fortune di tanti esponenti del nostro cinema considerato più "basso", vedi i film di Franco e Ciccio che arrivavano a produrne anche più di dieci l'anno) le sale si riempivano di thriller , di gialli, di poliziotteschi, di commedie scollacciate e per l'appunto di cinema d'autore.
Quindi cinema "alto" ma anche e forse soprattutto cinema "basso", perchè in fondo ce piace tanto. E , come al solito, andremo alla ricerca di titoli non tanto noti.
Spero vi piacerà....
Cominciamo con uno dei titoli più misconosciuti della filmografia di Bernardo Bertolucci, l'oscuro Strategia del ragno, un film originariamente prodotto per la televisione da parte della RAI, presentato a Venezia nello stesso anno e che poi ebbe una distribuzione nelle sale d'essai nel 1973. E' tratto liberamente da un racconto di Borges, Tema del traditore e dell'eroe.
Athos Magnani, trentacinquenne ritorna al paese natio, Tara , nel parmense. E' stato chiamato da Draifa, amante del padre , famoso partigiano, che morì prima della nascita del figlio, ucciso nel 1936 dai fascisti. Draifa vuole che lui faccia luce sul mistero che si nasconde dietro quell'assassinio.A Tara vivono tutti nel culto del padre di Athos, considerato da tutti un eroe e un martire dei fascisti ma quando vuole indagare un po' più a fondo sulla morte del padre si scontra con l'ostilità degli abitanti del paesino.
Eppure nonostante tutto, Athos scoprirà una verità sconvolgente....
Qual'è la strategia del ragno?
Intrappolare le proprie vittime nella sua tela vischiosa e indebolirle piano piano prima di digerirle enzimaticamente.
Ed è quello che succede al giovane Athos che ritorna a Tara (paese immaginario della Bassa Padana,il film è stato girato in realtà a Sabbioneta) per sapere qualcosa di più sulla dipartita di suo padre che reca il suo stesso nome.
A parole tutti favorevoli, conosce la sua vecchia amante, i tre amici più stretti del padre si complimentano per lui e parlano del loro vecchio compagno in termini più che lusinghieri, addirittura c'è un busto che commemorare la morte del padre, però poi quando l'Athos giovane vuole sapere qualosa di più cominciano i primi problemi e le prime stranezze.
II film di Bertolucci è uno squisito intarsio psicologico sfalsato su due piani: quello storico e quello psicanalitico.
Se da una parte l'Athos giovane si confronta con la Storia, con la concezione di antifascismo del padre e si pone domande dolorose sulle circostanze della sua morte, d'altra parte possiamo leggere il travaglio di Athos come una manifestazone chiara di un complesso d'Edipo che lo lacera da dentro e lo schiaccia inesorabilmente.
Stesso nome, Bertolucci ne sottolinea anche l'estrema rassomiglianza (nei flashback è lo stesso Giulio Brogi che intepreta la parte), il giovane è lacerato dal mito (e non dai fatti storici) che accompagna la figura del padre.
A questo punto c'è l'interrogativo cardine attorno al quale ruota tutto il film: Athos ha scoperto che forse la morte del padre non è stata così gloriosa come sembrava, forse non era neanche antifascista, forse era un codardo: forse.
Tenendo come punto fermo che la Storia non si costruisce con i forse, è meglio conservare l'aura mitologica costruita attorno al padre o bisogna sempre rapportarsi alla verità storica (che qui comunque è parecchio confusa)?
La risposta che si dà l'Athos giovane non sorprende più di tanto.
A questo punto la vicenda di Athos può anche essere vista come una personalissima disamina della propria storia intellettuale da parte dello stesso Bertolucci alle prese con la Storia e il Mito.
Le incertezze della prima e l'incrollabilità del secondo.
A livello visivo è uno dei film più incisivi della coppia Bertolucci/Storaro.
Abbondano i riferimenti pittorici, dalla pittura metafisica di De Chirico (le geometrie delle piazze di Sabbioneta citano la sua Piazza d'Italia ) agli impressionisti ,a Van Gogh fino a un ultima parte in cui pare di assistere a una successione di quadri di Magritte.
Per non parlare delle tavole di Ligabue mostrate durante i titoli di testa. Molto spesso si assiste a sequenze che sembrano quadri animati.
E i riferimenti pittorici cambiano col procedere del film
Nella seconda parte anche il tono del cambia decisamente: Athos comincia a capire che c'è qualcosa di strano attorno a lui e vorrebbe fuggire ma si trova invischiato come in una dimensione onirica che lo trattiene e lo immobilizza.
La stazione di Tara sembra non aver visto treni negli ultimi tempi, la voce dell'altoparlante elenca tutti i ritardi dei treni immancabilmente in aumento.
Questo treno non arriverà mai.
Tara è uno stato mentale.
Il ragno ha vinto anche questa volta.
(VOTO : 8 / 10 )
Perchè gli anni '70 allora? A mio parere perchè sintetizzano al meglio il respiro internazionale di certo nostro cinema contrapponendolo a un tipo di cinema assolutamente popolare, anzi nazional popolare. Al tramonto dei cinema di seconda e terza visione ( i pinocchietti che avevano fatto le fortune di tanti esponenti del nostro cinema considerato più "basso", vedi i film di Franco e Ciccio che arrivavano a produrne anche più di dieci l'anno) le sale si riempivano di thriller , di gialli, di poliziotteschi, di commedie scollacciate e per l'appunto di cinema d'autore.
Quindi cinema "alto" ma anche e forse soprattutto cinema "basso", perchè in fondo ce piace tanto. E , come al solito, andremo alla ricerca di titoli non tanto noti.
Spero vi piacerà....
Cominciamo con uno dei titoli più misconosciuti della filmografia di Bernardo Bertolucci, l'oscuro Strategia del ragno, un film originariamente prodotto per la televisione da parte della RAI, presentato a Venezia nello stesso anno e che poi ebbe una distribuzione nelle sale d'essai nel 1973. E' tratto liberamente da un racconto di Borges, Tema del traditore e dell'eroe.
Athos Magnani, trentacinquenne ritorna al paese natio, Tara , nel parmense. E' stato chiamato da Draifa, amante del padre , famoso partigiano, che morì prima della nascita del figlio, ucciso nel 1936 dai fascisti. Draifa vuole che lui faccia luce sul mistero che si nasconde dietro quell'assassinio.A Tara vivono tutti nel culto del padre di Athos, considerato da tutti un eroe e un martire dei fascisti ma quando vuole indagare un po' più a fondo sulla morte del padre si scontra con l'ostilità degli abitanti del paesino.
Eppure nonostante tutto, Athos scoprirà una verità sconvolgente....
Qual'è la strategia del ragno?
Intrappolare le proprie vittime nella sua tela vischiosa e indebolirle piano piano prima di digerirle enzimaticamente.
Ed è quello che succede al giovane Athos che ritorna a Tara (paese immaginario della Bassa Padana,il film è stato girato in realtà a Sabbioneta) per sapere qualcosa di più sulla dipartita di suo padre che reca il suo stesso nome.
A parole tutti favorevoli, conosce la sua vecchia amante, i tre amici più stretti del padre si complimentano per lui e parlano del loro vecchio compagno in termini più che lusinghieri, addirittura c'è un busto che commemorare la morte del padre, però poi quando l'Athos giovane vuole sapere qualosa di più cominciano i primi problemi e le prime stranezze.
II film di Bertolucci è uno squisito intarsio psicologico sfalsato su due piani: quello storico e quello psicanalitico.
Se da una parte l'Athos giovane si confronta con la Storia, con la concezione di antifascismo del padre e si pone domande dolorose sulle circostanze della sua morte, d'altra parte possiamo leggere il travaglio di Athos come una manifestazone chiara di un complesso d'Edipo che lo lacera da dentro e lo schiaccia inesorabilmente.
Stesso nome, Bertolucci ne sottolinea anche l'estrema rassomiglianza (nei flashback è lo stesso Giulio Brogi che intepreta la parte), il giovane è lacerato dal mito (e non dai fatti storici) che accompagna la figura del padre.
A questo punto c'è l'interrogativo cardine attorno al quale ruota tutto il film: Athos ha scoperto che forse la morte del padre non è stata così gloriosa come sembrava, forse non era neanche antifascista, forse era un codardo: forse.
Tenendo come punto fermo che la Storia non si costruisce con i forse, è meglio conservare l'aura mitologica costruita attorno al padre o bisogna sempre rapportarsi alla verità storica (che qui comunque è parecchio confusa)?
La risposta che si dà l'Athos giovane non sorprende più di tanto.
A questo punto la vicenda di Athos può anche essere vista come una personalissima disamina della propria storia intellettuale da parte dello stesso Bertolucci alle prese con la Storia e il Mito.
Le incertezze della prima e l'incrollabilità del secondo.
A livello visivo è uno dei film più incisivi della coppia Bertolucci/Storaro.
Abbondano i riferimenti pittorici, dalla pittura metafisica di De Chirico (le geometrie delle piazze di Sabbioneta citano la sua Piazza d'Italia ) agli impressionisti ,a Van Gogh fino a un ultima parte in cui pare di assistere a una successione di quadri di Magritte.
Per non parlare delle tavole di Ligabue mostrate durante i titoli di testa. Molto spesso si assiste a sequenze che sembrano quadri animati.
E i riferimenti pittorici cambiano col procedere del film
Nella seconda parte anche il tono del cambia decisamente: Athos comincia a capire che c'è qualcosa di strano attorno a lui e vorrebbe fuggire ma si trova invischiato come in una dimensione onirica che lo trattiene e lo immobilizza.
La stazione di Tara sembra non aver visto treni negli ultimi tempi, la voce dell'altoparlante elenca tutti i ritardi dei treni immancabilmente in aumento.
Questo treno non arriverà mai.
Tara è uno stato mentale.
Il ragno ha vinto anche questa volta.
(VOTO : 8 / 10 )
sabato 23 novembre 2013
Case 39 ( 2009 )
Emily Jenkins è un'assistente sociale che si occupa di bambini disagiati che è oberata di lavoro. Le assegnano persino il 39esimo caso di bambina in difficoltà a cui sta lavorando in contemporanea. Il caso è quello della piccola Lilith , bambina strana, silenziosa i cui genitori adottivi hanno pensato bene di tentare di ucciderla nel forno di casa. Normalmente dovrebbe mantenere più distanza dal suo lavoro ma Emily prende parecchio a cuore il caso di Lilith. Addirittura arriva a chiederne l'affidamento e dopo una dura battaglia lo ottiene.
Solo per scoprire che Lilith nasconde in realtà qualcosa di terribile....
Perchè non ho diffidato di un film che è stato girato due anni abbondanti prima della sua uscita? Perchè non ho immaginato prima di apprestarmi alla visione che stavo imbarcandomi verso il solito filmetto con spaventi preconfezionati?
E perchè non diffidare dell'esordio americano di un talentuoso regista tedesco, Christian Alvart , che aveva dato buona prova di sè con Antibodies ( Antikorper , di cui abbiamo parlato qui) e che però era stato rispedito in patria come un pacco postale dopo l'insuccesso economico di Pandorum?
L'ulteriore testimonianza di quel cimitero di talenti non americani in cui si trasforma Hollywood allorchè cerca di cooptare a suon di dollaroni registi di Oltreoceano , appiattendone il talento come con un rullo compressore.
Alvart è esponente tipico di questa tendenza ma anche lui fa poco per svincolarsi dall'abbraccio mortale.
E questo Case 39 è la testimonianza di come la fabbrica dei sogni abbia raso al suolo l'ennesimo talento europeo abbagliato dalla possibilità di lavorare con grandi divi ( o presunti tali ) e con fondi cospicui.
Suvvia, qui si cerca di abusare della credulità dello spettatore. Non si cerca neanche di sorprenderlo, è tutto tremendamente chiaro fin dall'inizio.
A partire dalla bambina protagonista che all'assistente sociale in carne,guanciotte e capelli ossigenati interpretata dalla Zellweger sembra maltrattata da genitori fuori di testa.
Però se un padre e una madre decidono di fare flambè la propria figlioletta adottiva cercando di cuocerla nel forno di casa forse una ragione c'è. E la bimba si chiama pure Lilith, demone della mitologia babilonese, nonchè prima moglie di Adamo.
Il film va a parare esattamente dove ci si aspetta: nel sottogenere bimbetta furetta diavoletta.
Sarebbe però ingiusto fermarsi qui.
Perchè se la regia non concede nessuna sorpresa, come del resto il copione , il resto del comparto tecnico è di primissimo ordine. In alcuni momenti il montaggio riesce a elevare il livello della sequenza riuscendo perlomeno a creare quel clima ansiogeno necessario come l'aria per respirare , la fotografia assume tonalità cupe, metalliche che all'occhio non dispiacciono.
Non andiamo oltre al livello della bufala confezionata ad arte ma qualche fan forse questo film lo riuscirà a trovare.
Il problema è sempre il solito:Hollywood coopta registi europei di belle speranze come il tedesco Alvart per masticarli, snaturarli e risputarli svuotati di ogni parvenza di personalità riducendoli a semplici impiegatucci capaci solo di timbrare un cartellino.
Case 39 è un film impersonale, un compitino anonimo attento alla forma ma totalmente vuoto di sostanza.
E per giunta uguale a tanti altri film visti negli ultimi anni.
Il bambino demoniaco è sempre di moda da un pò di tempo a questa parte....
Se Alvart è stato rispedito armi e bagagli nella natia Germania alla Zellweger non è andata meglio perchè dopo questo film è praticamente sparita .
Che fine avrà fatto?
( VOTO : 4,5 / 10 )
Solo per scoprire che Lilith nasconde in realtà qualcosa di terribile....
Perchè non ho diffidato di un film che è stato girato due anni abbondanti prima della sua uscita? Perchè non ho immaginato prima di apprestarmi alla visione che stavo imbarcandomi verso il solito filmetto con spaventi preconfezionati?
E perchè non diffidare dell'esordio americano di un talentuoso regista tedesco, Christian Alvart , che aveva dato buona prova di sè con Antibodies ( Antikorper , di cui abbiamo parlato qui) e che però era stato rispedito in patria come un pacco postale dopo l'insuccesso economico di Pandorum?
L'ulteriore testimonianza di quel cimitero di talenti non americani in cui si trasforma Hollywood allorchè cerca di cooptare a suon di dollaroni registi di Oltreoceano , appiattendone il talento come con un rullo compressore.
Alvart è esponente tipico di questa tendenza ma anche lui fa poco per svincolarsi dall'abbraccio mortale.
E questo Case 39 è la testimonianza di come la fabbrica dei sogni abbia raso al suolo l'ennesimo talento europeo abbagliato dalla possibilità di lavorare con grandi divi ( o presunti tali ) e con fondi cospicui.
Suvvia, qui si cerca di abusare della credulità dello spettatore. Non si cerca neanche di sorprenderlo, è tutto tremendamente chiaro fin dall'inizio.
A partire dalla bambina protagonista che all'assistente sociale in carne,guanciotte e capelli ossigenati interpretata dalla Zellweger sembra maltrattata da genitori fuori di testa.
Però se un padre e una madre decidono di fare flambè la propria figlioletta adottiva cercando di cuocerla nel forno di casa forse una ragione c'è. E la bimba si chiama pure Lilith, demone della mitologia babilonese, nonchè prima moglie di Adamo.
Il film va a parare esattamente dove ci si aspetta: nel sottogenere bimbetta furetta diavoletta.
Sarebbe però ingiusto fermarsi qui.
Perchè se la regia non concede nessuna sorpresa, come del resto il copione , il resto del comparto tecnico è di primissimo ordine. In alcuni momenti il montaggio riesce a elevare il livello della sequenza riuscendo perlomeno a creare quel clima ansiogeno necessario come l'aria per respirare , la fotografia assume tonalità cupe, metalliche che all'occhio non dispiacciono.
Non andiamo oltre al livello della bufala confezionata ad arte ma qualche fan forse questo film lo riuscirà a trovare.
Il problema è sempre il solito:Hollywood coopta registi europei di belle speranze come il tedesco Alvart per masticarli, snaturarli e risputarli svuotati di ogni parvenza di personalità riducendoli a semplici impiegatucci capaci solo di timbrare un cartellino.
Case 39 è un film impersonale, un compitino anonimo attento alla forma ma totalmente vuoto di sostanza.
E per giunta uguale a tanti altri film visti negli ultimi anni.
Il bambino demoniaco è sempre di moda da un pò di tempo a questa parte....
Se Alvart è stato rispedito armi e bagagli nella natia Germania alla Zellweger non è andata meglio perchè dopo questo film è praticamente sparita .
Che fine avrà fatto?
( VOTO : 4,5 / 10 )
venerdì 22 novembre 2013
YellowBrickRoad ( 2010 )
Teddy Barnes, uno scrittore , è letteralmente ossessionato dal mistero riguardante i 572 abitanti di un piccolo paese del North Hampshire, Friar, che un bel giorno del 1940 decisero di farsi una passeggiata nei boschi attorno al paese e sparirono lasciando i loro averi, i vestiti e persino i loro cani. Alcuni furono trovati morti con segni di violenza, altri congelati ma circa la metà di loro non venne mai ritrovata.Teddy ottiene dei documenti mai visti riguardo al mistero e all'itinerario seguito dagli abitanti di Friar, addirittura una registrazione audio di quello che fu l'unico superstite, ma con estremo disappunto suo e del gruppo di ricerca che ha creato sembra che tutto parta dal cinema di Friar in cui c'è la ragazza dei popcorn, Liv, che asserisce di conoscere l'itinerario seguito dalle persone scomparse nel nulla, di sapere molte altre cose interessanti e convince Teddy a partire per la foresta con loro. Comincia la spedizione e iniziano a succedere stranezze : una musica persistente e ipnotizzante si sente tra gli alberi e gli strumenti per orientarsi sembrano impazziti.
Sembrano impazzire anche i vari membri della spedizione....
Appena ho letto la sinossi di YellowBrickRoad mi ci sono fiondato sopra: un mistero che riecheggia di Picnic ad Hanging Rock è già una molla sufficiente per far scattare il recupero.
Cominciando a vedere il film in realtà si percepisce più un'aria alla The Blair witch project e si pensa di essere stati catapultati nell'ultimo, ennesimo, mockumentary.
E invece no: i brani con telecamera a mano sono estremamente limitati e funzionali al racconto: fortunatamente i due registi esordienti nel lungometraggio Jesse Holland ed Andy Milton,che il film se lo sono anche scritto, scelgono una regia più "classica" in cui assume particolare importanza il comparto sonoro.
Infatti per i primi 40 minuti sembra non succedere nulla: è solo un accumulo continuo di suggestioni con in più il mistero dato da questa musica che si sente tra gli alberi , un qualcosa di ipnotico ed inspiegabile che ha sulla spedizione un po' lo stesso effetto che aveva il canto delle sirene per Ulisse.
E proprio quando la noia comincia ad affiorare perchè non bastano più i piccoli particolari inquietanti che i registi cospargono abilmente giusto per mantenere desta l'attenzione, c'è un'impennata di gore inaspettata che risveglia decisamente dal torpore che sta illanguidendo gli occhi .
Uno scontro tra due membri della spedizione evolve in una rissa e in un omicidio brutale con uno dei due che addirittura strappa la gamba al collega . Tutto a favore di camera.
Ecco, uno pensa che cominci la mattanza e invece ancora si resta sorpresi perchè invece di dare in pasto al pubblico famelico sangue e smembramenti vari , Holland e Milton ( forse consigliati anche da un budget molto basso , 500 mila dollari) riducono al minimo indispensabile sangue e frattaglie in favore della descrizione delle varie forme di pazzia che affliggono i componenti della spedizione, chi più chi meno.
Il tutto immerso in una natura selvaggia che fa molto Un tranquillo weekend di paura ma con interventi che sembrano soprannaturali perchè i vari componenti della spedizione fanno cose non spiegabili altrimenti.
Direi che questa è la parte più efficace del film dopo un inizio parecchio promettente ma che forse è stato tirato un po' per le lunghe.
Poi la parte finale, dove crollano miseramente per mancanza di idee molti film horror.
E qui mi tocca spoilerare.
SPOILER SPOILER SPOILER SPOILER : Holland e Milton commettono a mio parere un errore capitale: fanno venir fuori tutta la loro passione da nerd appassionato di horror per un paio di leggendari film del passato che vengono citati in modo talmente palese da essere quasi ingenuo: ci si ritrova nel cinema di partenza ma assolutamente vuoto e calato in una dimensione irreale e qui già partiamo con Carpenter e Il seme della follia, colui che arriva al cinema è accolto da una specie di usciere che è vestito un po'come il cameriere che accompagnava la follia di Jack Torrance in Shining.
Citazioni di due capisaldi del genere che appaiono più come uno scimmiottamento che come un omaggio deferente.
La cosa positiva è che alla fine non viene data alcuna spiegazione degli avvenimenti.
Meglio così, rimanere con l'alone di mistero piuttosto che avventurarsi in spiegoni risibili.
FINE DELLO SPOILER FINE DELLO SPOILER FINE DELLO SPOILER.
Si resta abbastanza interdetti dalla visione di YellowBrickRoad, il sentiero di mattoni gialli che ricorda un po' Il Mago di Oz: promettente l'inizio, anche se tirato un po' per le lunghe ma è innegabile che viene creata l'atmosfera giusta con una regia accorta e suggestiva, una bella parte centrale più ordinaria forse, ma dal sicuro impatto visivo ed emotivo e un finale che crolla impietosamente sotto i colpi dell'eccessiva ambizione.
Intendiamoci meglio questo finale che il solito spiegone inconcludente.
Anzi sarebbe stato perfetto.
Se non fossero esistiti Il seme della follia e Shining.
( VOTO : 5,5 / 10 )
Sembrano impazzire anche i vari membri della spedizione....
Appena ho letto la sinossi di YellowBrickRoad mi ci sono fiondato sopra: un mistero che riecheggia di Picnic ad Hanging Rock è già una molla sufficiente per far scattare il recupero.
Cominciando a vedere il film in realtà si percepisce più un'aria alla The Blair witch project e si pensa di essere stati catapultati nell'ultimo, ennesimo, mockumentary.
E invece no: i brani con telecamera a mano sono estremamente limitati e funzionali al racconto: fortunatamente i due registi esordienti nel lungometraggio Jesse Holland ed Andy Milton,che il film se lo sono anche scritto, scelgono una regia più "classica" in cui assume particolare importanza il comparto sonoro.
Infatti per i primi 40 minuti sembra non succedere nulla: è solo un accumulo continuo di suggestioni con in più il mistero dato da questa musica che si sente tra gli alberi , un qualcosa di ipnotico ed inspiegabile che ha sulla spedizione un po' lo stesso effetto che aveva il canto delle sirene per Ulisse.
E proprio quando la noia comincia ad affiorare perchè non bastano più i piccoli particolari inquietanti che i registi cospargono abilmente giusto per mantenere desta l'attenzione, c'è un'impennata di gore inaspettata che risveglia decisamente dal torpore che sta illanguidendo gli occhi .
Uno scontro tra due membri della spedizione evolve in una rissa e in un omicidio brutale con uno dei due che addirittura strappa la gamba al collega . Tutto a favore di camera.
Ecco, uno pensa che cominci la mattanza e invece ancora si resta sorpresi perchè invece di dare in pasto al pubblico famelico sangue e smembramenti vari , Holland e Milton ( forse consigliati anche da un budget molto basso , 500 mila dollari) riducono al minimo indispensabile sangue e frattaglie in favore della descrizione delle varie forme di pazzia che affliggono i componenti della spedizione, chi più chi meno.
Il tutto immerso in una natura selvaggia che fa molto Un tranquillo weekend di paura ma con interventi che sembrano soprannaturali perchè i vari componenti della spedizione fanno cose non spiegabili altrimenti.
Direi che questa è la parte più efficace del film dopo un inizio parecchio promettente ma che forse è stato tirato un po' per le lunghe.
Poi la parte finale, dove crollano miseramente per mancanza di idee molti film horror.
E qui mi tocca spoilerare.
SPOILER SPOILER SPOILER SPOILER : Holland e Milton commettono a mio parere un errore capitale: fanno venir fuori tutta la loro passione da nerd appassionato di horror per un paio di leggendari film del passato che vengono citati in modo talmente palese da essere quasi ingenuo: ci si ritrova nel cinema di partenza ma assolutamente vuoto e calato in una dimensione irreale e qui già partiamo con Carpenter e Il seme della follia, colui che arriva al cinema è accolto da una specie di usciere che è vestito un po'come il cameriere che accompagnava la follia di Jack Torrance in Shining.
Citazioni di due capisaldi del genere che appaiono più come uno scimmiottamento che come un omaggio deferente.
La cosa positiva è che alla fine non viene data alcuna spiegazione degli avvenimenti.
Meglio così, rimanere con l'alone di mistero piuttosto che avventurarsi in spiegoni risibili.
FINE DELLO SPOILER FINE DELLO SPOILER FINE DELLO SPOILER.
Si resta abbastanza interdetti dalla visione di YellowBrickRoad, il sentiero di mattoni gialli che ricorda un po' Il Mago di Oz: promettente l'inizio, anche se tirato un po' per le lunghe ma è innegabile che viene creata l'atmosfera giusta con una regia accorta e suggestiva, una bella parte centrale più ordinaria forse, ma dal sicuro impatto visivo ed emotivo e un finale che crolla impietosamente sotto i colpi dell'eccessiva ambizione.
Intendiamoci meglio questo finale che il solito spiegone inconcludente.
Anzi sarebbe stato perfetto.
Se non fossero esistiti Il seme della follia e Shining.
( VOTO : 5,5 / 10 )
giovedì 21 novembre 2013
The Canyons ( 2013 )
Tara ( LIndsay Lohan ) è fidanzata da circa un anno con Christian (James Deen), produttore cinematografico che ha dei gusti sessuali piuttosto trasgressivi.Quando per un film lui ingaggia Ryan,il ragazzo della sua fedele assistente, scopre che i due si conoscono già da tempo e che hanno una relazione tra di loro. Tutto questo innesca una spirale di vendetta che ingloberà tutti i personaggi in scena.
The Canyons è un gigantesco misunderstanding, un fraintendimento di quelli epocali. Alla regia un tipetto come Paul Schrader, uno che ha dato prova del suo immenso talento non si sa quante volte sia come sceneggiatore che come regista, alla sceneggiatura uno degli scrittori più osannati del panorama letterario americano , Bret Easton Ellis.
Era lecito aspettarsi non dico un capolavoro ma almeno un film di quelli da ricordare: e invece The Canyons non è nè l'uno , nè l'altro.
E' un filmetto sul vuoto pneumatico che è dentro e fuori di noi mascherato da dramma, è un noir dei sentimenti con accenti melodrammatici, un qualcosa che assomiglia più al presente inopinato di una Sofia Coppola qualsiasi che al passato glorioso di uno che ha narrato e descritto come meglio non si potrebbe abissi metropolitani senza fondo come quelli di Taxi Driver, di Hardcore o di American Gigolò.
Forse se non ci fossero i nomi di Paul Schrader e Bret Easton Ellis dietro questo pastrocchio sarebbe scattato un qualcosa di simile all'indulgenza , ma non si può ignorare il pedigree artistico di chi ha creato The Canyons, che si maschera ben presto da veicolo per l'autodistruzione artistica di una diva che a 27 anni ne dimostra almeno il doppio a causa di vizi e stravizi di ogni genere ( la Lohan, totalmente sfatta) che si fa accompagnare da un attore che ha nel suo curriculum oltre un migliaio di film porno e che è abitutato a recitare con una sola parte ( del resto premiatissima ) del suo corpo.
Il resto è molto meno adatto a stare davanti alla macchina da presa.
A essere buoni The Canyons è un ritratto cinico e indigesto di tutto quello che si agita nel sottobosco hollywoodiano e non, di tutto quel mondo lustrini e pailettes che orbita attorno alla fabbrica dei sogni.
Il tutto incernierato come se si stesse parlando del peggiore degli inferni, una voragine da cui è impossibile tirarsi fuori nonostante le ville milionarie, gli smartphones da migliaia di dollari e i giorni passati a rosolarsi al sole accanto alla piscina.
Un inferno precostituito mascherato da edonismo senza freni che richiama gli ultimi due film della Coppola con la sola differenza che la piccola Sofia ( piccola, si fa per dire) ha l'aria di una che sta sputando nel piatto in cui ha sempre mangiato, mentre per Schrader ( e per Ellis) è un ritorno al luogo del delitto ma senza il talento cristallino ( forse anche la voglia di stupire ) degli anni passati.
The Canyons sembra fabbricato con i materiali di avanzo di altri film e ricicla l'universo immorale dell'American Psycho di Ellis, in una forma meno esplicita.
E' una pellicola funeraria che si rende interessante solo per il suo aspetto metacinematografico: perchè la Lohan è stata fagocitata da quel mondo fatto di alcool e di droga e ora , dopo aver trascorso vari anni tra set, galere e rehabs, ne è uscita con le ossa rotte e con un fisico ormai minato dagli eccessi.
Lindsay Lohan si trasforma nel testimonial della star hollywoodiana che ha imboccato il viale del tramonto ben prima di arrivare al successo, quello vero e duraturo, un'altra di quelle bambine prodigio ( non la prima e non sarà neanche l'ultima) stritolate dalla macchina della celebrità e della fama che come diceva Warhol in un mondo come quello , dura al massimo quindici minuti...
Nonostante l'ambientazione altolocata The Canyons flirta con lo squallore per tutta la sua durata osando anche in scene di sesso piuttosto spinte per il glamourama hollywoodiano, del resto con un esperto a disposizione....
E annoia , più che altro. E' tutto già visto altrove.
( VOTO : 4,5 / 10 )
The Canyons è un gigantesco misunderstanding, un fraintendimento di quelli epocali. Alla regia un tipetto come Paul Schrader, uno che ha dato prova del suo immenso talento non si sa quante volte sia come sceneggiatore che come regista, alla sceneggiatura uno degli scrittori più osannati del panorama letterario americano , Bret Easton Ellis.
Era lecito aspettarsi non dico un capolavoro ma almeno un film di quelli da ricordare: e invece The Canyons non è nè l'uno , nè l'altro.
E' un filmetto sul vuoto pneumatico che è dentro e fuori di noi mascherato da dramma, è un noir dei sentimenti con accenti melodrammatici, un qualcosa che assomiglia più al presente inopinato di una Sofia Coppola qualsiasi che al passato glorioso di uno che ha narrato e descritto come meglio non si potrebbe abissi metropolitani senza fondo come quelli di Taxi Driver, di Hardcore o di American Gigolò.
Forse se non ci fossero i nomi di Paul Schrader e Bret Easton Ellis dietro questo pastrocchio sarebbe scattato un qualcosa di simile all'indulgenza , ma non si può ignorare il pedigree artistico di chi ha creato The Canyons, che si maschera ben presto da veicolo per l'autodistruzione artistica di una diva che a 27 anni ne dimostra almeno il doppio a causa di vizi e stravizi di ogni genere ( la Lohan, totalmente sfatta) che si fa accompagnare da un attore che ha nel suo curriculum oltre un migliaio di film porno e che è abitutato a recitare con una sola parte ( del resto premiatissima ) del suo corpo.
Il resto è molto meno adatto a stare davanti alla macchina da presa.
A essere buoni The Canyons è un ritratto cinico e indigesto di tutto quello che si agita nel sottobosco hollywoodiano e non, di tutto quel mondo lustrini e pailettes che orbita attorno alla fabbrica dei sogni.
Il tutto incernierato come se si stesse parlando del peggiore degli inferni, una voragine da cui è impossibile tirarsi fuori nonostante le ville milionarie, gli smartphones da migliaia di dollari e i giorni passati a rosolarsi al sole accanto alla piscina.
Un inferno precostituito mascherato da edonismo senza freni che richiama gli ultimi due film della Coppola con la sola differenza che la piccola Sofia ( piccola, si fa per dire) ha l'aria di una che sta sputando nel piatto in cui ha sempre mangiato, mentre per Schrader ( e per Ellis) è un ritorno al luogo del delitto ma senza il talento cristallino ( forse anche la voglia di stupire ) degli anni passati.
The Canyons sembra fabbricato con i materiali di avanzo di altri film e ricicla l'universo immorale dell'American Psycho di Ellis, in una forma meno esplicita.
E' una pellicola funeraria che si rende interessante solo per il suo aspetto metacinematografico: perchè la Lohan è stata fagocitata da quel mondo fatto di alcool e di droga e ora , dopo aver trascorso vari anni tra set, galere e rehabs, ne è uscita con le ossa rotte e con un fisico ormai minato dagli eccessi.
Lindsay Lohan si trasforma nel testimonial della star hollywoodiana che ha imboccato il viale del tramonto ben prima di arrivare al successo, quello vero e duraturo, un'altra di quelle bambine prodigio ( non la prima e non sarà neanche l'ultima) stritolate dalla macchina della celebrità e della fama che come diceva Warhol in un mondo come quello , dura al massimo quindici minuti...
Nonostante l'ambientazione altolocata The Canyons flirta con lo squallore per tutta la sua durata osando anche in scene di sesso piuttosto spinte per il glamourama hollywoodiano, del resto con un esperto a disposizione....
E annoia , più che altro. E' tutto già visto altrove.
( VOTO : 4,5 / 10 )
mercoledì 20 novembre 2013
Paranormal Activity - Tokyo Night ( 2010 )
Mentre è in vacanza negli Stati Uniti , la giovane Haruka subisce uno strano incidente in cui si frattura le gambe. Torna al natio Giappone per trascorrere la convalescenza in casa col padre, che non c'è mai in quanto sempre in viaggio per lavoro, e il fratello più giovane, Koichi. I due hanno la sensazione che di notte accada qualcosa nella stanza di Haruka , tipo spostamenti di oggetti o della sedia a rotelle con cui si sposta Haruka. Mettono del sale davanti alla finestra per scoprire qualche intruso notturno e la mattina dopo lo trovano sparso per tutta la stanza. Decidono allora di piazzare una telecamera all'interno della stanza di Haruka ....
Avete presente il detto "battere il ferro finchè è caldo"? Ebben questo ferro è molto più che caldo, anche l'aggettivo bollente non rende perfettamente l'idea per lo scopo di questo filmettino che ammette subito la propria colpa dichiarandosi ispirato al film di Oren Peli e immettendosi nel mare magnum dei sequels di Paranormal activity piazzandosi addirittura prima di Paranormal Activity 2, uscito quasi in contemporanea.
Infatti quando uscì questo film si intitolava Paranormal Activity 2 - Tokyo Night ma essendo un qualcosa totalmente estraneo alla serie ufficiale ( anche se qualche riferimento all'originale c'è nei dialoghi tra i due fratelli), da buon sequel apocrifo, poi ha perso il numeretto usurpatogli dal seguito ufficiale.
Però si fregia nella locandina del titolo di sequel giapponese orginale.
Insomma poche idee ma in compenso ben confuse giusto per lucrare un po' di interesse in più da parte dello spettatore occasionale.
Che dire di questo film?
Poco o nulla.
Da piccolo mi dicevano sempre che i giapponesi erano degli artisti nel riprodurre le cose che vedevano in giro per il mondo.
A livello cinematografico ora siamo abituati a Hollywood che ,sempre più stanca e priva di idee, guarda al proprio passato autorifacendosi oppure dà un'occhiata intorno e cerca di rubacchiare qua e là idee dal cinema europeo e orientale ,spesso cooptandone gli autori perchè si sa che lì circolano parecchi soldi e al di qua dell'Atlantico o nella terra del Sol Levante molti meno.
E che cosa accadrebbe se succedesse il contrario? Cioè se il cinema giapponese di oggi si mettesse a rifare Hollywood?
Ne vien fuori un bel pastrocchio che in questo caso si chiama Paranormal Activity-Tokyo Night.
Il film di Nagae si rapporta però col primo film, mondandone alcuni aspetti deleteri (riducendo al massimo le sequenze in cui al fast forward la coppia del film di Oren Peli si riguardava la nottata) e cercando di aggiungere altri elementi a dir la verità poco riusciti come il brano della sensitiva o quello dello sciamano che è oltre il limite della credibilità.
E viene attenuata anche quell'aria fintodilettantesca con riprese che dimostrano un certo savoir faire con la telecamera.
Anche se non si capisce lo stesso come mai succedono le peggiori cose e il protagonista non dimentica mai di accendere la telecamera, anche a costo di rischiare la vita.
SPOILER SPOILER SPOILER Il film di Nagae però poi sembra ricordarsi di essere giapponese con un inattesa svolta in senso J-horror col classico fantasmino che cammina come Frankenstein e con i capelli corvini che gli coprono la faccia.
E quindi il corto circuito è completo.FINE DELLO SPOILER FINE DELLO SPOILER FINE DELLO SPOILER
Pur discostandosi dall'originale per un finale diverso e pur notando una regia appena migliore, la visione di questo film è assolutamente pleonastica se già si è visto l'altro.
A dir la verità era superflua anche la visione dell'originale per quanto mi riguarda...
( VOTO : 4 / 10 )
Avete presente il detto "battere il ferro finchè è caldo"? Ebben questo ferro è molto più che caldo, anche l'aggettivo bollente non rende perfettamente l'idea per lo scopo di questo filmettino che ammette subito la propria colpa dichiarandosi ispirato al film di Oren Peli e immettendosi nel mare magnum dei sequels di Paranormal activity piazzandosi addirittura prima di Paranormal Activity 2, uscito quasi in contemporanea.
Infatti quando uscì questo film si intitolava Paranormal Activity 2 - Tokyo Night ma essendo un qualcosa totalmente estraneo alla serie ufficiale ( anche se qualche riferimento all'originale c'è nei dialoghi tra i due fratelli), da buon sequel apocrifo, poi ha perso il numeretto usurpatogli dal seguito ufficiale.
Però si fregia nella locandina del titolo di sequel giapponese orginale.
Insomma poche idee ma in compenso ben confuse giusto per lucrare un po' di interesse in più da parte dello spettatore occasionale.
Che dire di questo film?
Poco o nulla.
Da piccolo mi dicevano sempre che i giapponesi erano degli artisti nel riprodurre le cose che vedevano in giro per il mondo.
A livello cinematografico ora siamo abituati a Hollywood che ,sempre più stanca e priva di idee, guarda al proprio passato autorifacendosi oppure dà un'occhiata intorno e cerca di rubacchiare qua e là idee dal cinema europeo e orientale ,spesso cooptandone gli autori perchè si sa che lì circolano parecchi soldi e al di qua dell'Atlantico o nella terra del Sol Levante molti meno.
E che cosa accadrebbe se succedesse il contrario? Cioè se il cinema giapponese di oggi si mettesse a rifare Hollywood?
Ne vien fuori un bel pastrocchio che in questo caso si chiama Paranormal Activity-Tokyo Night.
Il film di Nagae si rapporta però col primo film, mondandone alcuni aspetti deleteri (riducendo al massimo le sequenze in cui al fast forward la coppia del film di Oren Peli si riguardava la nottata) e cercando di aggiungere altri elementi a dir la verità poco riusciti come il brano della sensitiva o quello dello sciamano che è oltre il limite della credibilità.
E viene attenuata anche quell'aria fintodilettantesca con riprese che dimostrano un certo savoir faire con la telecamera.
Anche se non si capisce lo stesso come mai succedono le peggiori cose e il protagonista non dimentica mai di accendere la telecamera, anche a costo di rischiare la vita.
SPOILER SPOILER SPOILER Il film di Nagae però poi sembra ricordarsi di essere giapponese con un inattesa svolta in senso J-horror col classico fantasmino che cammina come Frankenstein e con i capelli corvini che gli coprono la faccia.
E quindi il corto circuito è completo.FINE DELLO SPOILER FINE DELLO SPOILER FINE DELLO SPOILER
Pur discostandosi dall'originale per un finale diverso e pur notando una regia appena migliore, la visione di questo film è assolutamente pleonastica se già si è visto l'altro.
A dir la verità era superflua anche la visione dell'originale per quanto mi riguarda...
( VOTO : 4 / 10 )
martedì 19 novembre 2013
Wolf children ( 2012 )
Hana frequenta l'università e intanto lavora per mantenersi. Un giorno viene affascinata da un ragazzo misterioso, Ookami, presente alle lezioni ma non iscritto e comincia a seguirlo. Lo conosce e viene messa al corrente del suo segreto: il ragazzo è un uomo lupo. Si amano e dalla loro unione nascono prima la piccola Yuki, la cui voce off racconta la vicenda e poi Ame, un maschietto gracilino e di poche parole. Il padre muore e Hana si sente costretta ad andar via dalla città perchè i bambini nei momenti meno opportuni manifestano la loro natura di lupi. Vanno a vivere in montagna, Hana impara a lavorare la terra e fortunatamente si integrano nella piccola comunità. Ma i bambini crescono e non possono più essere tenuti nascosti al mondo: Yuki vuol frequentare la scuola e Ame, ombroso come non mai sente il bisogno di far uscire la sua natura da lupo....
E' difficile raccontare la trama di Wolf children e far intuire minimamente la magia che si nasconde in esso, ultima fatica di Mamoru Hosoda che da tempo viene indicato come l'erede più credibile del maestro Hayao Miyazaki.
E a buon ragione: Wolf Children è permeato di molte delle tematiche che sono care al maestro: la diversità, il percorso di formazione, il senso di maternità ( bellissima la figura di Hana, mamma tenera e ostinata allo stesso tempo, capace di sacrificare la vita per il bene dei propri figli), l'importanza di scegliere il meglio per la propria vita a venire senza curarsi troppo di coloro che stanno al di fuori della cerchia familiare, il rapporto intimo con la natura in comunione indissolubile con personaggi che sono metà uomini e metà lupi.
Il punto di contatto più evidente con Miyazaki è probabilmente un film come Il mio vicino Totoro: forti legami con la realtà ma ambientazione bucolica che permette di trovare meglio se stessi e di non stare sotto indesiderate lenti di ingrandimento altrui insieme ad un prepotente slancio verso il fantastico che si tinge di poesia: lì un essere tenero come Totoro, qui la stirpe degli uomini lupo di cui Yuke e Ame sono gli ultimi esponenti in vita.
Se nella prima parte, quella "urbana" , la routine quotidiana di Hana e del suo amatissimo uomo lupo è descritta in modo molto realistico, compreso quel senso di alienazione che è infiltrato ormai su più piani nel tessuto sociale giapponese, nella seconda parte,quella in cui viene fuori l'afflato naturalistico , la pellicola di Hosoda si permette di volare sulle ali della poesia narrata da una natura sempre sorprendente, un qualcosa estremamente complicato da descrivere a parole, è solamente da vedere, per rendersi minimamente conto e farsi trasportare .
Ci si appassiona ben presto alla vita di Hana , Yuki e Ame nonostante non sembra succeda alcunchè, si osserva divertiti la graduale scoperta della propria natura da parte di due bambini che crescono a vista d'occhio, la loro consapevolezza di essere diversi , la loro volontà di prendere strade differenti.
Perchè Yuki vuol rimanere ancorata alla sua natura umana, Ame sente il richiamo della foresta.
Non sono esperto di tecniche di animazione ma quella di Wolf Children mi è sembrata eccellente: retrò nel disegno dei personaggi ma decisamente moderna nei fondali prerenderizzati che spesso fanno capolino nelle sequenze, una tecnica che riesce a conferire una buonissima profondità al disegno senza per questo sconfinare nella grafica computerizzata.
E anche le scelte cromatiche sono particolarmente accattivanti.
Uno scandalo che questo bellissimo film sia stato proiettato in pochissime sale e solo per un giorno nei cinema nostrani prima di approdare direttamente in dvd.
Con tutte le porcate che passano su grande schermo, possibile che non si è riuscito a trovare un posticino per un film come questo che può piacere indistintamente a grandi e piccini?.
Wolf children è il classico film da consigliare ai bambini di tutte le età, diciamo dai 6 ai 99 anni compresi....
( VOTO : 8 / 10 )
E' difficile raccontare la trama di Wolf children e far intuire minimamente la magia che si nasconde in esso, ultima fatica di Mamoru Hosoda che da tempo viene indicato come l'erede più credibile del maestro Hayao Miyazaki.
E a buon ragione: Wolf Children è permeato di molte delle tematiche che sono care al maestro: la diversità, il percorso di formazione, il senso di maternità ( bellissima la figura di Hana, mamma tenera e ostinata allo stesso tempo, capace di sacrificare la vita per il bene dei propri figli), l'importanza di scegliere il meglio per la propria vita a venire senza curarsi troppo di coloro che stanno al di fuori della cerchia familiare, il rapporto intimo con la natura in comunione indissolubile con personaggi che sono metà uomini e metà lupi.
Il punto di contatto più evidente con Miyazaki è probabilmente un film come Il mio vicino Totoro: forti legami con la realtà ma ambientazione bucolica che permette di trovare meglio se stessi e di non stare sotto indesiderate lenti di ingrandimento altrui insieme ad un prepotente slancio verso il fantastico che si tinge di poesia: lì un essere tenero come Totoro, qui la stirpe degli uomini lupo di cui Yuke e Ame sono gli ultimi esponenti in vita.
Se nella prima parte, quella "urbana" , la routine quotidiana di Hana e del suo amatissimo uomo lupo è descritta in modo molto realistico, compreso quel senso di alienazione che è infiltrato ormai su più piani nel tessuto sociale giapponese, nella seconda parte,quella in cui viene fuori l'afflato naturalistico , la pellicola di Hosoda si permette di volare sulle ali della poesia narrata da una natura sempre sorprendente, un qualcosa estremamente complicato da descrivere a parole, è solamente da vedere, per rendersi minimamente conto e farsi trasportare .
Ci si appassiona ben presto alla vita di Hana , Yuki e Ame nonostante non sembra succeda alcunchè, si osserva divertiti la graduale scoperta della propria natura da parte di due bambini che crescono a vista d'occhio, la loro consapevolezza di essere diversi , la loro volontà di prendere strade differenti.
Perchè Yuki vuol rimanere ancorata alla sua natura umana, Ame sente il richiamo della foresta.
Non sono esperto di tecniche di animazione ma quella di Wolf Children mi è sembrata eccellente: retrò nel disegno dei personaggi ma decisamente moderna nei fondali prerenderizzati che spesso fanno capolino nelle sequenze, una tecnica che riesce a conferire una buonissima profondità al disegno senza per questo sconfinare nella grafica computerizzata.
E anche le scelte cromatiche sono particolarmente accattivanti.
Uno scandalo che questo bellissimo film sia stato proiettato in pochissime sale e solo per un giorno nei cinema nostrani prima di approdare direttamente in dvd.
Con tutte le porcate che passano su grande schermo, possibile che non si è riuscito a trovare un posticino per un film come questo che può piacere indistintamente a grandi e piccini?.
Wolf children è il classico film da consigliare ai bambini di tutte le età, diciamo dai 6 ai 99 anni compresi....
( VOTO : 8 / 10 )
lunedì 18 novembre 2013
Jobs ( 2013 )
Vita e opere di Steve Jobs, guru e cofondatore della Apple , dagli inizi della sua attività imprenditoriale appena finiti gli studi universitari( mai portati a termine in realtà) fino al successo mondiale delle sue idee, del suo distinguersi dalla massa per commercializzare prodotti diversi dagli altri per caratteristiche ma anche per estetica.
Poco spazio alla compilazione storicistica della sua vita in compenso ci si concentra sull'uomo e sul suo carattere spigoloso, ruvido ma rischiarato da lampi di pura genalità.
E' un biopic abbastanza sui generis questo Jobs perchè gli avvenimenti della sua vita non assumono un'importanza così centrale nella narrazione.
Quello che è importato al regista Joshua Michael Stern e al suo sceneggiatore Matt Whiteley ( al suo esordio) è stato di consegnare al pubblico un ritratto privato di un uomo guardando soprattutto ai coni d'ombra dei suoi rapporti interpersonali, piuttosto problematici per usare un eufemismo.
Si sfugge certo al rischio che poteva esserci di fabbricare un'agiografia ad uso istantaneo di una delle figure decisive nel progresso tecnologico di questi ultimi anni, un uomo con delle idee rivoluzionarie e geniali, ma alla fine per uno che non sa bene chi fosse in realtà Steve Jobs , questo biopic aiuta ben poco perchè è molto, forse troppo parziale.
In Jobs intuiamo l'uomo dietro il genio ma ne arriviamo a sapere ben poco, non riusciamo in realtà a capire quale sia la portata delle sue idee rivoluzionarie. Vediamo una specie di dittatore barbudo ( almeno nella prima parte) che guida un gruppo di geni dell'informatica a fare il lavoro sporco, a sviluppare la sua idea, ma in realtà lui non sembra avere parte attiva nella realizzazione del suo progetto.
E' sua l'ideazione e il marketing, il resto lo fanno gli altri.
Vediamo una sfilza di consigli di amministrazione che spostano pedine e obiettivi e lui che fatica a stargli dietro perchè vuole essere sempre avanti.
Un uomo solo al comando.
Anche quando viene estromesso da Apple e lo ritroviamo che , in pochi secondi di film , ha creato la NEXT computers e sposato per giunta.
Basta questo a definire Steve Jobs un genio dei nostri tempi?
Ecco, leggendo magari la pagina di Wikipedia si intuisce molto meglio chi fosse, vedendo solo il film assolutamente no.
E non basta neanche l'impegno di Ashton Kutcher, in una prova realmente di grande maturità, anche inaspettata da un attore "leggero" come lui, che arriva alla mimesi totale col personaggio, si vedano i dettagli della camminata particolare di Steve Jobs o il suo modo di gesticolare, magari un po' troppo sottolineati nel corso della pellicola.
Jobs non è un film da buttare via,è ottimamente confezionato, ma gli manca la scintilla che illuminava The Social Network in cui si comprendeva perfettamente la portata della rivoluzione portata da Zuckerberg.
E soprattutto gli manca quel filo di emozione che permette di apprezzare questo particolare genere di film,le biografie di donne e di uomini che ancora non sono scritte nei libri di storia e che forse non lo saranno mai.
Si comprimono e si omettono avvenimenti forse fondamentali per capire meglio chi fosse Steve Jobs nel tentativo di fornirne un ritratto originale, di far intravedere il dietro le quinte.
Ma in questo modo il biopic perde forza e significato.
Non aiuta neanche una regia senza grossi lampi di genio.
Gli stessi che hanno illuminato la vita di Steven Paul Jobs.
( VOTO : 6 / 10 )
Poco spazio alla compilazione storicistica della sua vita in compenso ci si concentra sull'uomo e sul suo carattere spigoloso, ruvido ma rischiarato da lampi di pura genalità.
E' un biopic abbastanza sui generis questo Jobs perchè gli avvenimenti della sua vita non assumono un'importanza così centrale nella narrazione.
Quello che è importato al regista Joshua Michael Stern e al suo sceneggiatore Matt Whiteley ( al suo esordio) è stato di consegnare al pubblico un ritratto privato di un uomo guardando soprattutto ai coni d'ombra dei suoi rapporti interpersonali, piuttosto problematici per usare un eufemismo.
Si sfugge certo al rischio che poteva esserci di fabbricare un'agiografia ad uso istantaneo di una delle figure decisive nel progresso tecnologico di questi ultimi anni, un uomo con delle idee rivoluzionarie e geniali, ma alla fine per uno che non sa bene chi fosse in realtà Steve Jobs , questo biopic aiuta ben poco perchè è molto, forse troppo parziale.
In Jobs intuiamo l'uomo dietro il genio ma ne arriviamo a sapere ben poco, non riusciamo in realtà a capire quale sia la portata delle sue idee rivoluzionarie. Vediamo una specie di dittatore barbudo ( almeno nella prima parte) che guida un gruppo di geni dell'informatica a fare il lavoro sporco, a sviluppare la sua idea, ma in realtà lui non sembra avere parte attiva nella realizzazione del suo progetto.
E' sua l'ideazione e il marketing, il resto lo fanno gli altri.
Vediamo una sfilza di consigli di amministrazione che spostano pedine e obiettivi e lui che fatica a stargli dietro perchè vuole essere sempre avanti.
Un uomo solo al comando.
Anche quando viene estromesso da Apple e lo ritroviamo che , in pochi secondi di film , ha creato la NEXT computers e sposato per giunta.
Basta questo a definire Steve Jobs un genio dei nostri tempi?
Ecco, leggendo magari la pagina di Wikipedia si intuisce molto meglio chi fosse, vedendo solo il film assolutamente no.
E non basta neanche l'impegno di Ashton Kutcher, in una prova realmente di grande maturità, anche inaspettata da un attore "leggero" come lui, che arriva alla mimesi totale col personaggio, si vedano i dettagli della camminata particolare di Steve Jobs o il suo modo di gesticolare, magari un po' troppo sottolineati nel corso della pellicola.
Jobs non è un film da buttare via,è ottimamente confezionato, ma gli manca la scintilla che illuminava The Social Network in cui si comprendeva perfettamente la portata della rivoluzione portata da Zuckerberg.
E soprattutto gli manca quel filo di emozione che permette di apprezzare questo particolare genere di film,le biografie di donne e di uomini che ancora non sono scritte nei libri di storia e che forse non lo saranno mai.
Si comprimono e si omettono avvenimenti forse fondamentali per capire meglio chi fosse Steve Jobs nel tentativo di fornirne un ritratto originale, di far intravedere il dietro le quinte.
Ma in questo modo il biopic perde forza e significato.
Non aiuta neanche una regia senza grossi lampi di genio.
Gli stessi che hanno illuminato la vita di Steven Paul Jobs.
( VOTO : 6 / 10 )
domenica 17 novembre 2013
Dr Creator specialista in miracoli ( 1985 ) - The fabolous '80 special
Harry Wolper ha vinto un premio Nobel per la medicina che ha sacrificato la sua brillante carriera per il sogno di far rivivere sua moglie Lucy, morta 3o anni prima. Ora insegna biologia ma è come un corpo estraneo, è totalmente votato alle sue ricerche. Trova in Meli la perfetta donatrice dell'ovulo che farà rivivere Lucy e in Boris un assistente perfetto, perchè come lui ha trovato l'amore della sua vita e non lo vuole abbandonare....
Precisiamolo subito: non è un film da consegnare alla storia del cinema. Sia il regista Ivan Passer, sia Peter O'Toole da protagonista hanno fatto cose molto migliori di questa commedia sentimentale. Ma io ci sono molto affezionato, fa parte della mia storia personale, è uno dei film che mi porterei sull'isola deserta ammesso che possa avere in dotazione anche una tv e un lettore dvd. Perchè se è vero che ogni scarrafone è bello a mamma sua, questo per me è uno scarrafone bellissimo. Un film visto in videocassetta all'alba dei miei 18 anni e che come la mia ex età ha migliaia di difetti, è stupidamente sentimentale, è terribilmente infantile, puzza di anni 80 dalla testa ai piedi ma è un qualcosa che mi ha accompagnato sempre.
Un film sulla dedizione assoluta a un sogno o meglio a un'utopia. Il professor Harry Wolper ha impiegato gli ultimi 30 anni della sua vita alla ricerca di un qualcosa che facesse riscoccare la scintilla della vita partendo da poche cellule dell'amatissima moglie. Frammenti di biochimica, un frullato di atomi di carbonio, ossigeno e idrogeno che lui conserva in uno strano macchinario in attesa di trasformarli in qualcosa di vivo. Un tema che mi ha sempre affascinato: quando da una semplice reazione chimica si può passare a parlare di vita? Tema grande più dell'uomo, una domanda a cui non sono in grado di rispondere. Dicevamo dell'amore completo e inappagato del professor Wolper che è dedizione alla memoria della sua adorata Lucy perduta tragicamente ma anche una totale fede nella scienza a cui si immola anima e corpo.
Forse anche più di una "semplice" dedizione.
E'un personaggio adorabile questo Harry Wolper che ha l'andatura dinoccolata del grande Peter O'Toole, un milord anche se indossasse stracci. Un uomo fuori dal mondo e dalle sue convenzioni, con i suoi capelli color della cenere un po' lunghi e i suoi occhiali da presbite con montatura in osso è deliziosamente anticonformista riuscendo a toccare temi filosofici altissimi e allo stesso tempo perdersi dietro alle banalità quotidiane che sembrano coalizzarsi sempre contro di lui.
Un tipo decisamente originale tenuto in vita da un sogno che forse non potrà mai essere realizzato.
Dr Creator specialista in miracoli è una commedia che parla d'amore e d'amicizia per cui il messaggio è improntato al massimo del sentimento col minimo della complicazione. Forse quella donatrice d'ovulo che ha selezionato è qualcosa di più che un semplice strumento.
O forse si, è lo strumento che cercava per capire finalmente che sempre e comunque the show must go on, la vita continua anche se perdiamo qualcuno che amiamo più di noi stessi.
E lui quelle cellule una volta appartenenti all'amore della sua vita le regala alla profondità del mare....
Questo post fa parte della serie di recensioni appartenenti a The fabolous '80 special iniziativa messa in atto dal blog La fabbrica dei sogni e di cui potete leggere anche qui
Precisiamolo subito: non è un film da consegnare alla storia del cinema. Sia il regista Ivan Passer, sia Peter O'Toole da protagonista hanno fatto cose molto migliori di questa commedia sentimentale. Ma io ci sono molto affezionato, fa parte della mia storia personale, è uno dei film che mi porterei sull'isola deserta ammesso che possa avere in dotazione anche una tv e un lettore dvd. Perchè se è vero che ogni scarrafone è bello a mamma sua, questo per me è uno scarrafone bellissimo. Un film visto in videocassetta all'alba dei miei 18 anni e che come la mia ex età ha migliaia di difetti, è stupidamente sentimentale, è terribilmente infantile, puzza di anni 80 dalla testa ai piedi ma è un qualcosa che mi ha accompagnato sempre.
Un film sulla dedizione assoluta a un sogno o meglio a un'utopia. Il professor Harry Wolper ha impiegato gli ultimi 30 anni della sua vita alla ricerca di un qualcosa che facesse riscoccare la scintilla della vita partendo da poche cellule dell'amatissima moglie. Frammenti di biochimica, un frullato di atomi di carbonio, ossigeno e idrogeno che lui conserva in uno strano macchinario in attesa di trasformarli in qualcosa di vivo. Un tema che mi ha sempre affascinato: quando da una semplice reazione chimica si può passare a parlare di vita? Tema grande più dell'uomo, una domanda a cui non sono in grado di rispondere. Dicevamo dell'amore completo e inappagato del professor Wolper che è dedizione alla memoria della sua adorata Lucy perduta tragicamente ma anche una totale fede nella scienza a cui si immola anima e corpo.
Forse anche più di una "semplice" dedizione.
E'un personaggio adorabile questo Harry Wolper che ha l'andatura dinoccolata del grande Peter O'Toole, un milord anche se indossasse stracci. Un uomo fuori dal mondo e dalle sue convenzioni, con i suoi capelli color della cenere un po' lunghi e i suoi occhiali da presbite con montatura in osso è deliziosamente anticonformista riuscendo a toccare temi filosofici altissimi e allo stesso tempo perdersi dietro alle banalità quotidiane che sembrano coalizzarsi sempre contro di lui.
Un tipo decisamente originale tenuto in vita da un sogno che forse non potrà mai essere realizzato.
Dr Creator specialista in miracoli è una commedia che parla d'amore e d'amicizia per cui il messaggio è improntato al massimo del sentimento col minimo della complicazione. Forse quella donatrice d'ovulo che ha selezionato è qualcosa di più che un semplice strumento.
O forse si, è lo strumento che cercava per capire finalmente che sempre e comunque the show must go on, la vita continua anche se perdiamo qualcuno che amiamo più di noi stessi.
E lui quelle cellule una volta appartenenti all'amore della sua vita le regala alla profondità del mare....
Questo post fa parte della serie di recensioni appartenenti a The fabolous '80 special iniziativa messa in atto dal blog La fabbrica dei sogni e di cui potete leggere anche qui
sabato 16 novembre 2013
Oh boy - Un caffè a Berlino ( 2012 )
Niko è alla disperata ricerca di un caffè. La giornata non è cominciata nel migliore dei modi e lui ha bisogno sempre più di quel dannato caffè: la sua ragazza lo ha lasciato, il colloquio con lo psicologo per riavere la patente sequestrata per guida in stato di ebbrezza non è andato bene, il bancomat gli ha sequestrato la sua carta di credito, il padre ha scoperto che sono due anni che ha mollato l'università e quindi gli ha appena tagliato i viveri congelandogli il conto in banca, fa strani incontri tra cui un misterioso vicino di casa "leggermente" fuori di testa, va in giro con un suo amico per Berlino, ritrova una sua ex compagna di scuola che lo invita a uno spettacolo teatrale ( e va a finire male nonostante le migliori intenzioni), la giornata finisce degnamente in un bar in cui conosce un vecchio che filosofeggia davanti al bancone e che schianta subito sul marciapiede appena dopo il bicchiere della staffa. Lo accompagna in ospedale dove trascorre tutta la notte ancora senza quel benedetto caffè.
Forse la mattina successiva ....
Oh boy- Un caffè a Berlino è un film che ha vinto un numero consistente ai German Film Awards ( tutti i più importanti) e anche in giro in Europa per festival specializzati.
Sull'onda di questo entusiasmo è arrivato, stranamente , anche nelle sale in Italia.
Che dire? Forse troppa grazia per un filmetto leggero e moderatamente divertente come questo, un saggio di fine corso che ha acquisito risonanza forse immeritata a causa di presunti punti di contatto con la Nouvelle Vague.
Cosa che in realtà non si coglie così agevolmente: è vero che Nico, il protagonista ( un ottimo Tom Schilling) , ha un po' gli stessi occhi che aveva la piccola Zazie in Zazie nel metrò di Louis Malle ( opera che ha precorso i tempi della Nouvelle Vague), è vero anche che come quello è una sorta di road movie da fermo in cui Berlino ( lì era Parigi) viene srotolata lentamente davanti agli occhi di uno spettatore che non ne conosce gli anfratti più nascosti che la cinepresa esplora con una certa voluttà.
Ma poi le analogie si fermano: l'odissea tragicomica di Nico alla ricerca del caffè ha molto di teatrale e poco di Nouvelle Vague anche se bisogna riconoscere che questo film a prima vista ha ben poco di teutonico, ha una leggerezza più tipica di altro cinema europeo, compreso un certo vezzo un po' snob di girare tutto in un brillantissimo bianco e nero per ricoprire il tutto di una patina autoriale che in realtà il film non sembra avere.
Oh boy - Un caffè a Berlino è un film rapsodico che vive di piccoli flash accecanti in cui ogni volta viene messa in risalto l'inadeguatezza di Nico al mondo che lo circonda, il suo essere sempre in ritardo agli appuntamenti con le scelte importanti della vita e un destino beffardo gli si mette continuamente di traverso solo per ricordargli tutto questo, il suo essere nel guado tra essere un giovane perdigiorno e essere un adulto inserito nel tessuto sociale, guado che col passare dei minuti diventa guano, sabbie mobili senza fondo in cui Nico affonda sempre più.
Tutto questo è raccontato con ostentata leggerezza ma a leggere tra le righe la vita di Nico è un disastro e il film dell'esordiente nel lungometraggio Jan Ole Gerster si contrappone ai classici coming of age movies americani o anglosassoni in genere.
Se lì il viaggio di formazione volenti o nolenti era sempre completato, più o meno, in Oh boy- Un caffè a Berlino non è neanche all'inizio.
Anzi è un percorso che va dritto dritto all'autodistruzione se Nico non fa qualcosa.
Un qualcosa che forse vedremo in un prossimo film.
O forse non vedremo mai: lui intanto finalmente riesce a sorseggiare il suo caffè.....
( VOTO : 6 + / 10 )
Forse la mattina successiva ....
Oh boy- Un caffè a Berlino è un film che ha vinto un numero consistente ai German Film Awards ( tutti i più importanti) e anche in giro in Europa per festival specializzati.
Sull'onda di questo entusiasmo è arrivato, stranamente , anche nelle sale in Italia.
Che dire? Forse troppa grazia per un filmetto leggero e moderatamente divertente come questo, un saggio di fine corso che ha acquisito risonanza forse immeritata a causa di presunti punti di contatto con la Nouvelle Vague.
Cosa che in realtà non si coglie così agevolmente: è vero che Nico, il protagonista ( un ottimo Tom Schilling) , ha un po' gli stessi occhi che aveva la piccola Zazie in Zazie nel metrò di Louis Malle ( opera che ha precorso i tempi della Nouvelle Vague), è vero anche che come quello è una sorta di road movie da fermo in cui Berlino ( lì era Parigi) viene srotolata lentamente davanti agli occhi di uno spettatore che non ne conosce gli anfratti più nascosti che la cinepresa esplora con una certa voluttà.
Ma poi le analogie si fermano: l'odissea tragicomica di Nico alla ricerca del caffè ha molto di teatrale e poco di Nouvelle Vague anche se bisogna riconoscere che questo film a prima vista ha ben poco di teutonico, ha una leggerezza più tipica di altro cinema europeo, compreso un certo vezzo un po' snob di girare tutto in un brillantissimo bianco e nero per ricoprire il tutto di una patina autoriale che in realtà il film non sembra avere.
Oh boy - Un caffè a Berlino è un film rapsodico che vive di piccoli flash accecanti in cui ogni volta viene messa in risalto l'inadeguatezza di Nico al mondo che lo circonda, il suo essere sempre in ritardo agli appuntamenti con le scelte importanti della vita e un destino beffardo gli si mette continuamente di traverso solo per ricordargli tutto questo, il suo essere nel guado tra essere un giovane perdigiorno e essere un adulto inserito nel tessuto sociale, guado che col passare dei minuti diventa guano, sabbie mobili senza fondo in cui Nico affonda sempre più.
Tutto questo è raccontato con ostentata leggerezza ma a leggere tra le righe la vita di Nico è un disastro e il film dell'esordiente nel lungometraggio Jan Ole Gerster si contrappone ai classici coming of age movies americani o anglosassoni in genere.
Se lì il viaggio di formazione volenti o nolenti era sempre completato, più o meno, in Oh boy- Un caffè a Berlino non è neanche all'inizio.
Anzi è un percorso che va dritto dritto all'autodistruzione se Nico non fa qualcosa.
Un qualcosa che forse vedremo in un prossimo film.
O forse non vedremo mai: lui intanto finalmente riesce a sorseggiare il suo caffè.....
( VOTO : 6 + / 10 )
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