Sottilissima, a volte così sottile che è impossibile distinguerla.
E quando mi trovo di fronte a un personaggio come Famine, mastermind dei blacksters ( definizione da prendere nella più larga delle accezioni, a parer mio ad esempio di black non hanno poi moltissimo) francesi Peste Noire, la domanda , come diceva qualcuno, sorge spontanea.
E' un genio o un folle? O è solo un imbecille patologico che si maschera dietro un'iconografia di dubbio gusto?
Ecco, nonostante tutto, io mi sento di dire di amare un artista come Famine che scompagina tutte le regole di ogni genere musicale per infondere la propria rabbia mista a disperazione in quello che suona e che canta.
Il suo è uno screaming sgraziato ma decisamente espressivo, le chitarre sono grezze, il suono della batteria spartano. Eppure questo disco nonostante la sua semplicità ( perchè la tecnica di Famine è assolutamente al di sotto di ogni sospetto ) è un vero giacimento di idee.
Ci si perde in un disco così, 5 brani per 60 minuti totali in cui ci sono continue variazioni di tema, follie assortite e una volontà precisa di sorprendere sempre l'ascoltatore.
Con i Peste Noire mi succede il contrario: per la loro musica sembra che ci vogliano molto meno di 7 note eppure la loro proposta ti si installa permanentemente nel cervello, proprio in mezzo alle orecchie.
Il disco si apre con i dieci minuti e rotti di Casse, Péches. Fractures et Traditions: dopo un paio di minuti circa di intro atmosferico e rumoristico che dà proprio l'idea di introdurre nel pianeta di Famine ( abitanti : uno, solo lui) il pezzo diventa una sorta di black 'n' roll dalla ritmica trascinante. Bastano circa tre minuti e gli strumenti elettrici vengono sostituiti da organetti, fisarmoniche e tromboni decisamente folk, da festa paesana per intenderci, su cui si staglia la voce impastata di un menestrello piuttosto alticcio che arringa la folla.
Un intermezzo veramente spiazzante da cui si riparte con accelerazioni virulente e uno stop, apparentemente definitivo verso il nono minuto.
Ma non è così: Famine sfodera tutta la sua attitudine punk per chiamare il tempo con un classico un, deux, trois , quatre e condurre in porto l'ultima parte in cui il nostro si mette a fare il verso a un gallo il cui canto era apparso poco prima.
Dopo il black industrial del secondo pezzo ( Cochon Carotte et les sœurs Crotte ) tutto sommato più canonico del solito ci troviamo di fronte agli oltre 20 minuti di J'avais Rêvé du Nord, un brano che comincia con dei colpi di arma automatica e rumori di fondo a ricreare quasi l'atmosfera di una banlieue in rivolta ( banlieue metal?), continua con atmosfere tra doom e industrial e poi viene ammorbidito da inserti acustici con violoncelli e chitarra acustica su cui si staglia la voce celestiale di Audrey Sylvain che nel finale si esibisce anche in duetti ( o duelli) vocali con Famine. La bella e la bestia insomma, l'effetto è quello.
Il disco termina con un brano autocelebrativo ( Sale Famine Von Valfoutre ) vagamente orrorifico e una sorta di trip acido e psichedelico ( almeno all'inizio) del sorprendente La condi hu, in cui viene fuori la vena malinconica del nostro eroe.
L'Ordure à l'ètat Pur, quarto full lenght dei Peste Noire è un disco ipnotico che rivela tutta la teatralità di un personaggio come Famine.
Di gente fuori di testa nelle mie escursioni musicali ne ho incontrata tanta ( del resto il genere predispone non segnalandosi assolutamente per morigeratezza ) ma un personaggio come questo ancora lo dovevo incontrare.
Se è un genio o un imbecille lo deciderete dopo aver ascoltato questo loro ultimo disco.
( VOTO : 9 / 10 )
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