Inghilterra anni '70: la famiglia Maynard formata da padre e madre operai e dalla figlia Sally che ha un'età sul limitare tra infanzia ed adolescenza, si trasferisce nella loro nuova casa in un piccolo centro dello Yorkshire. Per loro è un punto di arrivo, una casa più grande di quella in cui erano abituati a stare.
Presto si accorgono di strani fenomeni che vi avvengono all'interno. La casa sembra avere vita propria e il tramite sembra essere proprio la piccola Sally.
Ispirato a fatti realmente accaduti ( la storia è nota col nome di The Black monk of Pontefract ) a cui ha partecipato anche una partente del regista Pat Holden ( i titoli di coda parlano dell'esorcismo più violento mai avvenuto su suolo europeo). When the lights went out è una interessante produzione inglese che tratta di case infestate, poltergeist e amenità assortite .
Se sotto il profilo puramente cinematografico ci troviamo di fronte a una perfetta simulazione di horror anni '70, senza troppe sorprese, quello che intriga all'inizio è l'estetica settantiana che riempie il film ad ogni inquadratura.
Per lo spettatore è tutto fin troppo chiaro da subito: gli strani accadimenti che colpiscono la famiglia Maynard sono da attribuire senza dubbi alla casa e a qualcosa che c'è dentro. Alla consueta fase iniziale in cui i genitori hanno il dubbio che sia tutto frutto di visioni della figlia , succede subito quella in cui capiscono che la figlia è una vittima di quello che sta succedendo nella casa.
Anzi un tramite.
La regia puntuale e precisa di Holden si limita all'utilizzo di un armamentario consolidato da film vintage de paura senza l'uso invasivo del digitale: tutti spaventi old style con rumori, scricchiolii, porte che sbattono, oggetti che si muovono, sensazione di essere sfiorati da un'entità immateriale,vento gelido che sferza il viso mentre si è nella casa nonostante sia estate, insetti e visioni orrorifiche.
Anche la parte in cui c'è l'esorcismo non ha alcun colpo di scena , sotto questo profilo è abbastanza ordinaria.
Come accennato prima When the lights went out è un film che colpisce soprattutto per la sua confezione: ci sono perfette ricostruzioni d'epoca, a partire dall'orrida carta da parati che copre le pareti si una casa modesta ma dignitosa, passando per gli arredamenti meno che ordinari fino ad arrivare ai vestiti e alle acconciature veramente elaborate.
Ed è proprio l'attenzione esasperata ai dettagli ( che non è assolutamente da condannare comunque) che in questo caso si mangia tutto il resto del film il quale spara tutte le sue cartucce sulla confezione che non sulla sostanza vera e propria.
Il risultato è che When the lights went out è un bellissimo involucro il cui contenuto non è all'altezza di ciò che lo racchiude , ha una carrozzeria da fuoriserie e un motore da city car.
Ed è un peccato perchè anche la recitazione è assolutamente al di sopra della media del genere.
La cosa che a mio parere lo rende comunque un prodotto interessante è che sembra di trovarsi di fronte a un Poltergeist o a un Amityville horror ibridati con un Loach anni '70 sia per la caratterizzazione di personaggi molto terragni che per l'ambientazione proletaria ricostruita nei minimi dettagli.
Sono fantasmi vecchio stampo inseriti in un contesto ambientale assolutamente originale ed è per questo, oltre che per la confezione veramente al di sopra di ogni sospetto , che When the lights went out è degno di una visione, magari senza troppe pretese.
Il fan del paranormale in questo film troverà comunque pane per i suoi denti affilati.
Il mistero di questa casa infestata comunque rimane inalterato così come il fascino di questa storia.
Per chi ne volesse sapere di più sui fatti reali che hanno ispirato questo film, può dare un'occhiata qui.
( VOTO : 6,5 / 10 )
I miei occhi sono pieni delle cicatrici dei mille e mille film che hanno visto.
Il mio cuore ancora porta i segni di tutte le emozioni provate.
La mia anima è la tabula rasa impressionata giorno per giorno,a 24 fotogrammi al secondo.
Cinema vicino e lontano, visibile e invisibile ma quello lontano e invisibile un po' di più.
venerdì 30 novembre 2012
giovedì 29 novembre 2012
Paris-Manhattan ( 2012 )
Alice è un a farmacista single più per scelta degli altri che propria. Anni prima aveva forse incontrato l'uomo della sua vita ma alla fine lui si era messo assieme alla sorella.Ha un culto talmente radicato di Woody Allen che dal bancone della sua farmacia dispensa terapie a base di pillole di saggezza e di film del regista newyorkese. Addirittura sente la sua voce con cui conversa. Le sembra di trovare l'uomo perfetto in Vincent, bello e possibile, finchè incontra Victor, installatore di sistemi di allarme con cui riesce a comunicare ( più o meno) sempre sul filo dell'ironia. C'è un problema, però. Lui non ha mai visto un film di Woody Allen.
Alice ha quindi una missione da completare.
Paris Manhattan già dal titolo vuole operare ua sorta di crasi tra la tipica commedia sentimentale francese e l'ironia aguzza, a tratti sferzante del maestro newyorkese la cui presenza da valore aggiunto si trasforma in vero e propria zavorra per le ambizioni creative dell'esordiente Sophie Lellouche, apprendistato importante dal quasi omonimo Lelouch, che denota una preoccupante carenza di personalità nella stesura del canovaccio di questa commedia.
Non è questione di ingredienti perchè la confezione è ottima e gli attori sono tutti adeguati ai loro ruoli.
Ci sono anche alcuni dialoghi molto spiritosi. Il problema è che questi ingredienti sembrano mescolati male e , nonostante la durata sia appena sopra i 70 minuti, titoli di testa e di coda compresi, c'è anche il tempo di far affiorare una punta di noia.
Mi piacciono molto le commedie sentimentali, adoro in particolar modo quelle francesi ma Paris Manhattan non mi ha dato veramente nulla, regalandomi, anzi , l'impressione che si trascini piuttosto stancamente verso il finale atteso da tutti.
Del resto sappiamo fin dall'inizio che i due protagonisti, come poli opposti di una calamita, prima della comparsa dei titoli di coda, saranno appiccicati come cozze allo scoglio, come prevede la codifica del genere.
Altrimenti che commedia sentimentale sarebbe!
Alice Taglioni che solo qualche anno fa era il sogno erotico (in)confessato di Auteuil in Una top model nel mio letto ora, più scarnificata e meno cammellona galoppeira di prima, è diventata di una bellezza più fine e che cresce col passare dei minuti . E non risulta neanche troppo antipatica come dovrebbe essere una che ha sempre l'aria di guardarti dall'alto verso il basso.
Se Paris Manhattan voleva essere un ideale punto di incontro tra la commedia sofisticata americana degli anni d'oro ( Lubitsch, Capra) citando a piene mani il verbo del primo Allen e la classica rom com contemporanea , allora direi che non ci siamo proprio.
Il messaggio del film è che per volare bisogna affrancarsi dai modelli troppo ingombranti che tarpano le ali.
Parole sante signora Lellouche! Le si addicono perfettamente.
Mai come in questo film mi sono accorto che Woody Allen non è più un regista o l' esponente di punta di un genere cinematografico.
Ormai è diventato una categoria dell'anima.
( VOTO : 4,5 / 10 )
Alice ha quindi una missione da completare.
Paris Manhattan già dal titolo vuole operare ua sorta di crasi tra la tipica commedia sentimentale francese e l'ironia aguzza, a tratti sferzante del maestro newyorkese la cui presenza da valore aggiunto si trasforma in vero e propria zavorra per le ambizioni creative dell'esordiente Sophie Lellouche, apprendistato importante dal quasi omonimo Lelouch, che denota una preoccupante carenza di personalità nella stesura del canovaccio di questa commedia.
Non è questione di ingredienti perchè la confezione è ottima e gli attori sono tutti adeguati ai loro ruoli.
Ci sono anche alcuni dialoghi molto spiritosi. Il problema è che questi ingredienti sembrano mescolati male e , nonostante la durata sia appena sopra i 70 minuti, titoli di testa e di coda compresi, c'è anche il tempo di far affiorare una punta di noia.
Mi piacciono molto le commedie sentimentali, adoro in particolar modo quelle francesi ma Paris Manhattan non mi ha dato veramente nulla, regalandomi, anzi , l'impressione che si trascini piuttosto stancamente verso il finale atteso da tutti.
Del resto sappiamo fin dall'inizio che i due protagonisti, come poli opposti di una calamita, prima della comparsa dei titoli di coda, saranno appiccicati come cozze allo scoglio, come prevede la codifica del genere.
Altrimenti che commedia sentimentale sarebbe!
Alice Taglioni che solo qualche anno fa era il sogno erotico (in)confessato di Auteuil in Una top model nel mio letto ora, più scarnificata e meno cammellona galoppeira di prima, è diventata di una bellezza più fine e che cresce col passare dei minuti . E non risulta neanche troppo antipatica come dovrebbe essere una che ha sempre l'aria di guardarti dall'alto verso il basso.
Se Paris Manhattan voleva essere un ideale punto di incontro tra la commedia sofisticata americana degli anni d'oro ( Lubitsch, Capra) citando a piene mani il verbo del primo Allen e la classica rom com contemporanea , allora direi che non ci siamo proprio.
Il messaggio del film è che per volare bisogna affrancarsi dai modelli troppo ingombranti che tarpano le ali.
Parole sante signora Lellouche! Le si addicono perfettamente.
Mai come in questo film mi sono accorto che Woody Allen non è più un regista o l' esponente di punta di un genere cinematografico.
Ormai è diventato una categoria dell'anima.
( VOTO : 4,5 / 10 )
mercoledì 28 novembre 2012
End of Watch- Tolleranza Zero ( 2012 )
Brian , classico americano WASP e l'ispanico Mike sono due poliziotti di pattuglia a South Central Los Angeles, un vero avamposto dell'inferno in terra. Sono amici per la pelle , così come sono molto amiche la moglie di Mike e la ragazza ( poi moglie ) di Mike. La loro routine quotidiana è fatta di cameratismo e brutture assortite, gesti eroici o quasi e situazioni in cui rischiano la vita a ogni angolo di strada. Un brutto giorno pestano i calli a una delle più pericolose gangs losangeline che naturalmente gliela vuol far pagare.
Con l'escamotage di Brian che riprende tutto con la sua telecamerina sempre accesa, da subito ci si accorge che End of Watch-Tolleranza Zero non è un poliziesco come gli altri.
E' girato in parte con la tecnica del found footage e quando non è in azione la cinepresa di Brian, Ayer usa macchina a mano con frequente uso di soggettive.
Ne consegue l'effetto mal di mare e in certe sequenze l'aspetto da videogioco sparatutto in prima persona( con la pistola che sembra una protesi montata alla base della telecamera).
Stilisticamente siamo dalle parti del cinema verità ma qui siamo a un livello di adulterazione maggiore perchè l'uso del digitale, gli stacchi di montaggio volutamente grezzi, alcune riprese concitate non propriamente aggraziate ( sempre intenzionalmente) ci dicono di una simulazione di realtà , quindi un grado ulteriore di sofisticazione.
Perchè riprendere la realtà è un conto, simularla in modo da renderla più vera del vero è qualcosa d'altro.
Fatta l'abitudine all'estetica del film ( e per lo spettatore medio non è facile) End of Watch - Tolleranza Zero è tutto sommato un Training day formato mockumentary ( se ora questa tendenza invade anche il genere poliziesco oltre all'horror non se ne esce più!) in cui c'è una rilettura in positivo della figura del poliziotto.
Questi rudi tutori dell'ordine sono tutti bravi guaglioni che fronteggiano ogni giorno crimini di ogni sorta.
Il rapporto tra i due protagonisti è tuttaltro che inedito, così come il senso di appartenenza che li avvicina.
Dal punto di vista sostanziale non c'è la progressione drammaturgica del genere poliziesco, la narrazione è rapsodica per come sta dietro a tutti gli episodi in cui sono coinvolti Brian e Mike.
End of Watch- Tolleranza Zero ha uno stile semidocumentaristico, procede per accumulazione e cerca di colpire basso con suggestioni figlie dell'horror mostrate a favore di camera come il coltello nell'occhio rimediato da un collega durante un'azione oppure i ritrovamenti di macabri resti in una fossa comune
all'interno di una casa.
Il film ha comunque ritmo veloce, ha un groove martellante che permette di non annoiarsi nel stare dietro a tutto il chiacchiericcio che intervalla le sezioni più concitate.
Certo in tempi di ACAB sparsi in giro per il mondo è strano vedere un film che sta così dalla parte del poliziotto, esposto ogni giorno alle angherie dei cattivoni armati fino ai denti che cercano di dominare il ghetto losangelino.
A dirla così sembra una roba alla Chuck Norris o alla John Wayne cavaliere senza macchia e senza paura arrivata fuori tempo massimo.
E invece la retorica è stranamente tenuta a bada per quasi tutto il film.
Esonda come un geyser nel finale che naturalmente puzza di compromesso con la tradizione hollywoodiana tendente sempre a salvare capra e cavoli anche quando non dovrebbe, solo per ragioni di incasso.
Qui quando tutto sembra irrimediabilmente perduto ecco il colpo di scena monstre: viene salvata la capra .
O i cavoli fate un po' voi.
Una stonatura che non ci voleva.
( VOTO : 6+ / 10 )
Con l'escamotage di Brian che riprende tutto con la sua telecamerina sempre accesa, da subito ci si accorge che End of Watch-Tolleranza Zero non è un poliziesco come gli altri.
E' girato in parte con la tecnica del found footage e quando non è in azione la cinepresa di Brian, Ayer usa macchina a mano con frequente uso di soggettive.
Ne consegue l'effetto mal di mare e in certe sequenze l'aspetto da videogioco sparatutto in prima persona( con la pistola che sembra una protesi montata alla base della telecamera).
Stilisticamente siamo dalle parti del cinema verità ma qui siamo a un livello di adulterazione maggiore perchè l'uso del digitale, gli stacchi di montaggio volutamente grezzi, alcune riprese concitate non propriamente aggraziate ( sempre intenzionalmente) ci dicono di una simulazione di realtà , quindi un grado ulteriore di sofisticazione.
Perchè riprendere la realtà è un conto, simularla in modo da renderla più vera del vero è qualcosa d'altro.
Fatta l'abitudine all'estetica del film ( e per lo spettatore medio non è facile) End of Watch - Tolleranza Zero è tutto sommato un Training day formato mockumentary ( se ora questa tendenza invade anche il genere poliziesco oltre all'horror non se ne esce più!) in cui c'è una rilettura in positivo della figura del poliziotto.
Questi rudi tutori dell'ordine sono tutti bravi guaglioni che fronteggiano ogni giorno crimini di ogni sorta.
Il rapporto tra i due protagonisti è tuttaltro che inedito, così come il senso di appartenenza che li avvicina.
Dal punto di vista sostanziale non c'è la progressione drammaturgica del genere poliziesco, la narrazione è rapsodica per come sta dietro a tutti gli episodi in cui sono coinvolti Brian e Mike.
End of Watch- Tolleranza Zero ha uno stile semidocumentaristico, procede per accumulazione e cerca di colpire basso con suggestioni figlie dell'horror mostrate a favore di camera come il coltello nell'occhio rimediato da un collega durante un'azione oppure i ritrovamenti di macabri resti in una fossa comune
all'interno di una casa.
Il film ha comunque ritmo veloce, ha un groove martellante che permette di non annoiarsi nel stare dietro a tutto il chiacchiericcio che intervalla le sezioni più concitate.
Certo in tempi di ACAB sparsi in giro per il mondo è strano vedere un film che sta così dalla parte del poliziotto, esposto ogni giorno alle angherie dei cattivoni armati fino ai denti che cercano di dominare il ghetto losangelino.
A dirla così sembra una roba alla Chuck Norris o alla John Wayne cavaliere senza macchia e senza paura arrivata fuori tempo massimo.
E invece la retorica è stranamente tenuta a bada per quasi tutto il film.
Esonda come un geyser nel finale che naturalmente puzza di compromesso con la tradizione hollywoodiana tendente sempre a salvare capra e cavoli anche quando non dovrebbe, solo per ragioni di incasso.
Qui quando tutto sembra irrimediabilmente perduto ecco il colpo di scena monstre: viene salvata la capra .
O i cavoli fate un po' voi.
Una stonatura che non ci voleva.
( VOTO : 6+ / 10 )
martedì 27 novembre 2012
Chained ( 2012 )
Sarah e il figlio di 9 anni Tim sono rapiti da Bob un taxista che presto rivela la sua natura di piscopatico serial killer. Dopo aver ucciso la madre, mette letteralmente in catene il bambino, schiavizzandolo . Tim assiste impotente ai crimini di Bob che rapisce donne , le porta in casa, le sevizia e le uccide seppellendole in cantina. Passano gli anni e per Bob viene il momento di insegnare a Tim la sua "arte".
La Lynch sta cercando una sua strada e non vuole essere più solo la figlia di David.
Chained può essere visto come un inizio non disprezzabile.
Una piccola notazione: Julia Ormond il cui nome campeggia in grande evidenza sulla locandina del film compare solo per i primi 6-7 minuti.
( VOTO : 6,5 / 10 )
Il ragazzo però non sembra così ben predisposto.
Diciamocelo senza giri di parole: una che è figlia di un regista famoso puzza di raccomandato lontano un kilometro e proprio per questo ispira subito antipatia. Se poi si pensa che la regista in questione Jennifer Lynch esordì a 19 anni con una schifezza senza mezzi termini come Boxing Helena allora questa ostilità aumenta.
D'altra parte portarsi in groppa un nome pesante come Lynch, con un padre che ha scritto e continua a scrivere pagine di cinema che rimarranno indelebili nella memoria dei cinefili, è una zavorra che pochi sopporterebbero.
L'errore più grande che si può fare valutando Jennifer è cercare nel suo stile la pantagruelica visionarietà del padre. Perchè non ce l'ha, non ha lo stesso stile, anzi saggiamente evita il confronto non richiamadosi in alcun modo allo stile del padre. Anche perchè il tentativo di imitare il padre le avrebbe ucciso qualsiasi velleità artistica.
E invece la Lynch ha avuto pazienza e ha saputo ricominciare daccapo con il thriller da camera Surveillance e con questo suo ultimo film, Chained.
Che possiamo definire un thriller/ horror da camera in quanto la maggior parte è girato negli interni angusti della casa del taxista che per contrappasso è situata nel bel mezzo del nulla, un posto isolato da cui è impossibile ogni tentativo di fuga.
La storia raccontata seppur ammantata di horror è tragicamente ancorata a una possibile realtà: la cronaca riporta di casi di rapimento di bambini poi ritrovati dopo anni e anni come ad esempio il notissimo caso di Natascha Kampusch, ragazza austriaca rapita a 10 anni e tenuta prigioniera dal suo aguzzino per 8 anni .
Ed è proprio per questo che le prime sequenze col bambino che è ben consapevole del destino della madre ( tenuto fuori campo) sono raggelanti perchè scatta subito il processo di immedesimazione.
Il film poi si incanala più nella narrazione di un rapporto tra carnefice e vittima ( chissà perchè Bob vede in Tim, che lui chiama Coniglio, il figlio che non ha mai avuto) che non nella visualizzazione delle gesta sadiche del taxista.
In questo la Lynch rischia perchè centellina gli effettacci facili che avrebbero rappresentato una scorciatoia ottima per arrivare ai cuori dei fans dell'orrore duro e crudo e punta più sulla psicologia narrando una sorta di relazione padre/figlio partendo dalla sindrome di Stoccolma e arrivando al complesso di Edipo senza passare dal via.
Certo non mancano le ovvietà come un flash veloce e improvviso in cui viene fuori il pregresso familiare di Bob (fatto di prevaricazioni continue da parte di un padre totalmente folle e sadico) che "giustifica" in parte la pazzia del tassista.
Ma c'è anche un colpo di scena finale piuttosto sorprendente e che allo stesso tempo lascia un po' interdetti.
La macchina da presa della Lynch si muove agilmente nella casa-prigione quasi lasciando sentire l'odore di muffa e di morte che trasuda dalle pareti .
Non manca un tocco surreale ( la partita con le patenti delle vittime tra Bob e Tim ) e nel complesso non dispiace questo thriller horror che avrebbe potuto benissimo essere un torture porn e invece ha scelto di essere qualcosa d'altro.
Vincent D'Onofrio è una Palla di Lardo invecchiata e inquietante mentre colpisce la prova di Eamon Farren , un fascio di ossa e nervi che sembra una radiografia deambulante per quanto magro.
Chained può essere visto come un inizio non disprezzabile.
Una piccola notazione: Julia Ormond il cui nome campeggia in grande evidenza sulla locandina del film compare solo per i primi 6-7 minuti.
( VOTO : 6,5 / 10 )
lunedì 26 novembre 2012
Moonrise Kingdom ( 2012 )
Nell'estate del 1965 nell'isola di New Penzance, piccolo angolo di paradiso incontaminato del New England, il dodicenne scout Sam, figlio adottivo di due genitori che non si dimostrano affettuosi come dovrebbero essere( anzi alla prima occasione cercano di parcheggiarlo altrove) , durante una rappresentazione teatrale conosce la coetanea Suzy figlia di due avvocati che hanno instaurato in casa una sorta di regime militare e parlano tra loro come se stessero nell'aula di tribunale dove trascorrono la maggior parte del loro tempo. Galeotto fu lo sguardo: i due ragazzi decidono di fuggire assieme. Gettano nel panico tutta la piccola, pittoresca, sbilenca comunità dell'isola anche perchè sta arrivando una forte tempesta che metterà a repentaglio le loro vite.
Credo che Wes Anderson sia uno dei pochi registi immediatamente riconoscibili anche guardando una sola sequenza. E questo perchè la sua visionarietà ormai si è tradotta in una cifra stilistica ben consolidata, originale. Se da una parte questo è un gran merito perchè nel cinema d'oggi è difficilissimo essere così particolari, d'altra parte i detrattori possono affermare che il bravo Wes improvvisi sempre sullo stesso spartito senza esplorare troppo altri territori.
In un certo senso è così perchè i suoi film battono tutti più o meno gli stessi territori, hanno una certa continuità nel descrivere famiglie disfunzionali, personaggi talmente assurdi da sembrare alieni scesi in terra, oltre che possedere un' impronta visiva personale fatta di una fotografia calda e avvolgente che privilegia un cromatismo color pastello molto accentuato.
Moonrise Kingdom da questo punto di vista non dice molto di più degli altri film di Anderson.
Ma se nelle sue ultime pellicole stava affiorando il sospetto di un pericoloso autocompiacimento, sinonimo di pigrizia creativa, in questa sua ultima opera il regista spazza via queste congetture maligne.
Moonrise Kingdom è un film assolutamente delizioso, stracolmo dei personaggi sbilenchi classici del cinema di Anderson ma con l'aggiunta di due ragazzini meravigliosi che danno luogo a una delle storie di amore adolescenziale più dolci e poetiche alle quali abbia mai assisitito.
Sam e Suzy si sono fidati dello sguardo, della loro prima impressione e il tratto di percorso che fanno assieme è un continuo conoscersi e sorprendersi l'un l'altra.
La loro è una ribellione soft, una fuga nata morta per definizione ( che tipo di fuga si può realizzare su una piccola isola?), la ricerca affannosa da parte di genitori e di autorità (in)competenti assume presto i connotati di una farsa tragicomica in cui gli adulti sono sottoposti al pubblico ludibrio dalla cinepresa che si trasforma in uno specchio deformante.
Se il futuro è dei giovani, il presente non può essere di questi adulti inetti e infantili molto più dei loro figli.
La casa delle bambole costruita dai genitori di Suzy più che un sogno per i loro figli è una sorta di incantesimo da cui è impossibile uscire. Il campo degli scout da cui fugge Sam è organizzato come una caserma a cielo aperto in cui la forma domina nettamente sulla sostanza, con tutte quelle divise cachi ben stirate, tutti i fazzoletti ordinati e la gerarchia militaresca a offuscare i rapporti umani.
La fuga è praticamente scontata. La ribellione un obbligo.
Moonrise Kingdom è anche il rapporto di un percorso formativo che porta dall'infanzia all'adolescenza.Sam e Suzy crescono di più nelle poche ore che trascorrono assieme che in tutta la loro vita precedente .
Il loro rapporto è tratteggiato in modo delicato, con quella punta di malizia che lo rende ancora più plausibile.
Eccellenti i due piccoli protagonisti mentre il luminoso cast di supporto ( consueto nei film del regista americano) si adegua senza problemi al dolce stil novo di Anderson che aggiunge un altro tassello prezioso alla sua carriera.
Personalmente fino ad ora ho guardato al suo cinema con quella punta di sospetto legata alla sua presunta autoreferezialità.
Vedendo Moonrise Kingdom mi sono pienamente convinto.
Sarà autoreferenziale ma chissenefrega!
( VOTO : 8 / 10 )
Credo che Wes Anderson sia uno dei pochi registi immediatamente riconoscibili anche guardando una sola sequenza. E questo perchè la sua visionarietà ormai si è tradotta in una cifra stilistica ben consolidata, originale. Se da una parte questo è un gran merito perchè nel cinema d'oggi è difficilissimo essere così particolari, d'altra parte i detrattori possono affermare che il bravo Wes improvvisi sempre sullo stesso spartito senza esplorare troppo altri territori.
In un certo senso è così perchè i suoi film battono tutti più o meno gli stessi territori, hanno una certa continuità nel descrivere famiglie disfunzionali, personaggi talmente assurdi da sembrare alieni scesi in terra, oltre che possedere un' impronta visiva personale fatta di una fotografia calda e avvolgente che privilegia un cromatismo color pastello molto accentuato.
Moonrise Kingdom da questo punto di vista non dice molto di più degli altri film di Anderson.
Ma se nelle sue ultime pellicole stava affiorando il sospetto di un pericoloso autocompiacimento, sinonimo di pigrizia creativa, in questa sua ultima opera il regista spazza via queste congetture maligne.
Moonrise Kingdom è un film assolutamente delizioso, stracolmo dei personaggi sbilenchi classici del cinema di Anderson ma con l'aggiunta di due ragazzini meravigliosi che danno luogo a una delle storie di amore adolescenziale più dolci e poetiche alle quali abbia mai assisitito.
Sam e Suzy si sono fidati dello sguardo, della loro prima impressione e il tratto di percorso che fanno assieme è un continuo conoscersi e sorprendersi l'un l'altra.
La loro è una ribellione soft, una fuga nata morta per definizione ( che tipo di fuga si può realizzare su una piccola isola?), la ricerca affannosa da parte di genitori e di autorità (in)competenti assume presto i connotati di una farsa tragicomica in cui gli adulti sono sottoposti al pubblico ludibrio dalla cinepresa che si trasforma in uno specchio deformante.
Se il futuro è dei giovani, il presente non può essere di questi adulti inetti e infantili molto più dei loro figli.
La casa delle bambole costruita dai genitori di Suzy più che un sogno per i loro figli è una sorta di incantesimo da cui è impossibile uscire. Il campo degli scout da cui fugge Sam è organizzato come una caserma a cielo aperto in cui la forma domina nettamente sulla sostanza, con tutte quelle divise cachi ben stirate, tutti i fazzoletti ordinati e la gerarchia militaresca a offuscare i rapporti umani.
La fuga è praticamente scontata. La ribellione un obbligo.
Moonrise Kingdom è anche il rapporto di un percorso formativo che porta dall'infanzia all'adolescenza.Sam e Suzy crescono di più nelle poche ore che trascorrono assieme che in tutta la loro vita precedente .
Il loro rapporto è tratteggiato in modo delicato, con quella punta di malizia che lo rende ancora più plausibile.
Eccellenti i due piccoli protagonisti mentre il luminoso cast di supporto ( consueto nei film del regista americano) si adegua senza problemi al dolce stil novo di Anderson che aggiunge un altro tassello prezioso alla sua carriera.
Personalmente fino ad ora ho guardato al suo cinema con quella punta di sospetto legata alla sua presunta autoreferezialità.
Vedendo Moonrise Kingdom mi sono pienamente convinto.
Sarà autoreferenziale ma chissenefrega!
( VOTO : 8 / 10 )
domenica 25 novembre 2012
Youth in revolt ( 2009 )
Nick Twisp, adolescente in stravaso ormonale, ha una situazione familiare che definire disastrata è un eufemismo. Eppure nonostante i genitori siano sull'orlo del divorzio lui pensa solo a Sheeni Saunders, la ragazza che nei suoi sogni è la predestinata a fargli perdere la verginità.
Un film come questo avrebbe potuto benissimo intitolarsi La rivincita del nerd.
Perchè il suo protagonista è nerd sia fuori ma soprattutto dentro.
A vederlo Michael Cera non diresti che vale un soldo bucato. Non altissimo, decisamente non bello per via di un asimmetria vistosa di un volto dai lineamenti decisi ma non precisamente armoniosi, è però tipo che potrebbe anche piacere perchè comunque ha una sua grazia. Ha appena 24 anni ma una carriera arrivata a circa 50 titoli tra film e serie tv.
Negli USA poi in questi ultimi anni è stato un fiorire di film sui nerds, ragazzi assolutamente normali, forse anche al di sotto della media che combattono giorno per giorno con le difficoltà che la vita gli propone. Un modello umano ben lontano da quello degli All American Boys atletici, belli come il sole, dai muscoli marmorei e dal successo assicurato schioccando appena le dita.
Uno come Michael Cera che comunque ha una sua piacevolezza invece il successo se lo deve guadagnare sudando sette camicie sventolando come bandiere le proprie debolezze.
Ed è il caso di questa gioventù in stato di ribellione narrata in questo film di Arteta. Michael fa la parte di Nick Twisp sedicenne che fa fatica a tenere a bada i suoi ormoni.
Vive con la madre sbalestrata e il compagno di lei, imbroglioncello di mezza tacca. E'il classico nerd che non vuole essere più vergine (e questo tema della perdita della verginità maschile ormai nel cinema americano è talmente comune che è diventato un genere a parte) in un mondo che sembra odiarlo per come gli strali del destino si abbattano immancabilmente su di lui.
Nick ha già trovato la donna della sua vita che è Sheeni ma il percorso per arrivare a lei è duro e irto di difficoltà. A dirla così è una storia comune a triliardi di altri film invece questo Youth in Revolt è estremamente piacevole per i dialoghi molto divertenti, per le situazioni esilaranti e per qualche trovata che lo rende un prodotto sopra la media di film analoghi.
A parte un paio di citazioni di cinema "colto"( La strada di Fellini e Fino all'ultimo respiro di Godard, la ragazza ama Belmondo e tutto ciò che è francese), la trovata principiale è la creazione nella mente di Nick di un alter ego, Francois Dillinger che è capace di fare tutto quello che lui non avrebbe mai il coraggio nemmeno di pensare.
Una trovata non inedita(fa pensare al Buddy Love creato da Lewis/Kelp in Le folli notti del dottor Jerryll) ma che innalza il livello di comicità del film, aguzzando anche i dialoghi.
Dietro la classica storia del nerd che vuole perdere la verginità c'è l'America della provincia, quella puritana( la famiglia di lei) e quella delle famiglie disastrate( quella di Nick).E c'è una sana vena di anarchia quando è sufficiente qualche funghetto allucinogeno per far regredire allo stato animale i ricchi puritani di cui sopra.Tra Juno e Nick and Norah: tutto accadde in una notte e con qualche partenza per la tangente del sentiero targato American Pie( la sortita notturna alla scuola femminile francese), il film di Arteta,forte anche di un paio di comprimari di lusso come Steve Buscemi e Ray Liotta, riesce comunque a far divertire senza sfociare nella banalità soprattutto quando entra in scena con effetti devastanti Francois Dillinger e il suo paio di baffetti....
Una sciagura aggiunta a quelle già orchestrate dal destino da nerd di Nick.
( VOTO : 7 / 10 )
sabato 24 novembre 2012
Looper ( 2012 )
Nel 2074 i viaggi nel tempo sono illegali ma un'organizzazione mafiosa quando si deve sbarazzare di qualcuno lo rispedisce con un bel cappuccio sulla testa indietro di 30 anni pronto per essere fucilati all'istante da killer preventivamente allertati.Sono i loopers e uccidere qualcuno venuto dal futuro vuol dire chiudere il cerchio. Uno di questi è Joe e un giorno scopre che la suddetta organizzazione gli ha rimandato indietro il lui stesso di trenta anni dopo per chiudere il cerchio. Ma il Joe del futuro non ne vuole sapere e lo mette in un bel guaio perchè chi non rispetta le istruzioni è destinato a essere preda di una caccia all'uomo senza quartiere e candidato ideale alla morte violenta.
Ora qui quando si parla di viaggi nel tempo si parte subito in tromba per toccare con mano o meglio con occhio quello che viene proposto. E questo all'apparenza pareva ben fornito e accessoriato per diventare subito un supercult.Se fosse stato veramente un film sui viaggi del tempo.
Perchè al massimo è un mediometraggio sui viaggi del tempo perchè per una buona metà di film il regista Rian Johnson decide di infischiaresene dei fan della sci fi e esplorare i territori più terrestri del thriller d'azione e del dramma familiare.
E da fan del cinema di fantascienza mi resta un po' d'amaro in bocca: non mi bastano quelle moto senza ruote e qualche fugace scorcio di una megalopoli futurista . E neanche un finale che ritorna su sentieri di fantasia.
I primi 40 minuti del film sono però notevoli: si tratteggia l'organizzazione di questa particolare banda di mafiosi, il meccanismo del looper con un'aria noir da fantascienza distopica dolente e rassegnata che intriga.
Poi arriva Bruce Willis che naturalmente non ci sta a essere preso a schioppettate da Joseph Gordon Levitt e gli assesta una bella pigna in faccia prima di sparire.
E qui il film si trasforma: si capisce presto chi sia Bruce Willis e addirittura i due si ritrovano per un confronto che finisce a calci nelle palle. Sempre da parte del buon Bruce che sembra nato per maltrattare e umiliare tipi un po' leccati e fighetti come Gordon Levitt.
E qui vorrei fare una chiosa: lo spettatore è chiamato a uno sforzo disumano per cercare un minimo di astrazione da quello che sta vedendo perchè altrimenti passa tutto il film a pensare a come cacchio fa uno come Joseph Gordon Levitt a trasformarsi in Bruce Willis nell'arco di 30 anni. A partire dall'altezza. Non mi risulta che col passare del tempo si diventi più alti. Semmai il contrario. Ma queste son quisquilie.
Da qui in poi entra in scena anche Emily Blunt col suo menosissimo dramma familiare ed è questa la parte che ho retto di meno.
Ma come si parla di viaggi tra diverse epoche e neanche un piccolo paradossino legato alla curva del tempo?
E' questa la più grande colpa del film, colpa che viene espiata in un finale che perlomeno ti lascia lì a pensare se tutto è filato per il verso giusto o c'è qualche incongruenza.
Ma dopo che ci hai pensato per cinque minuti ti passa tutto di mente.Alla fine chissenefrega.
Looper non è un brutto film ma per un fan della sci fi come me è un filo deludente perchè come al solito Hollywood ha evitato di prendere rischi e l'ha buttata in caciara action/ sentimentale( naturalmente senza quella spruzzata di sentimento non sanno stare ) anche avendo a disposizione uno spunto fantascientifico parecchio intrigante.
Peccato perchè Rian Johnson sembra un regista interessante.
Ah una cosa apprendiamo da questo film: che nel futuro converrà molto di più imparare il cinese che il francese. Che questo film ( che si è rivelato un discreto successo al botteghino) sia stato fatto anche con capitali cinesi?
Comunque Bruce Willis è sempre un bel vedere e guardarlo mentre bulleggia alla grande col classico fighetto della new Hollywood è un piacere che va oltre il prezzo del biglietto.
( VOTO : 6,5 / 10 )
Ora qui quando si parla di viaggi nel tempo si parte subito in tromba per toccare con mano o meglio con occhio quello che viene proposto. E questo all'apparenza pareva ben fornito e accessoriato per diventare subito un supercult.Se fosse stato veramente un film sui viaggi del tempo.
Perchè al massimo è un mediometraggio sui viaggi del tempo perchè per una buona metà di film il regista Rian Johnson decide di infischiaresene dei fan della sci fi e esplorare i territori più terrestri del thriller d'azione e del dramma familiare.
E da fan del cinema di fantascienza mi resta un po' d'amaro in bocca: non mi bastano quelle moto senza ruote e qualche fugace scorcio di una megalopoli futurista . E neanche un finale che ritorna su sentieri di fantasia.
I primi 40 minuti del film sono però notevoli: si tratteggia l'organizzazione di questa particolare banda di mafiosi, il meccanismo del looper con un'aria noir da fantascienza distopica dolente e rassegnata che intriga.
Poi arriva Bruce Willis che naturalmente non ci sta a essere preso a schioppettate da Joseph Gordon Levitt e gli assesta una bella pigna in faccia prima di sparire.
E qui il film si trasforma: si capisce presto chi sia Bruce Willis e addirittura i due si ritrovano per un confronto che finisce a calci nelle palle. Sempre da parte del buon Bruce che sembra nato per maltrattare e umiliare tipi un po' leccati e fighetti come Gordon Levitt.
E qui vorrei fare una chiosa: lo spettatore è chiamato a uno sforzo disumano per cercare un minimo di astrazione da quello che sta vedendo perchè altrimenti passa tutto il film a pensare a come cacchio fa uno come Joseph Gordon Levitt a trasformarsi in Bruce Willis nell'arco di 30 anni. A partire dall'altezza. Non mi risulta che col passare del tempo si diventi più alti. Semmai il contrario. Ma queste son quisquilie.
Da qui in poi entra in scena anche Emily Blunt col suo menosissimo dramma familiare ed è questa la parte che ho retto di meno.
Ma come si parla di viaggi tra diverse epoche e neanche un piccolo paradossino legato alla curva del tempo?
E' questa la più grande colpa del film, colpa che viene espiata in un finale che perlomeno ti lascia lì a pensare se tutto è filato per il verso giusto o c'è qualche incongruenza.
Ma dopo che ci hai pensato per cinque minuti ti passa tutto di mente.Alla fine chissenefrega.
Looper non è un brutto film ma per un fan della sci fi come me è un filo deludente perchè come al solito Hollywood ha evitato di prendere rischi e l'ha buttata in caciara action/ sentimentale( naturalmente senza quella spruzzata di sentimento non sanno stare ) anche avendo a disposizione uno spunto fantascientifico parecchio intrigante.
Peccato perchè Rian Johnson sembra un regista interessante.
Ah una cosa apprendiamo da questo film: che nel futuro converrà molto di più imparare il cinese che il francese. Che questo film ( che si è rivelato un discreto successo al botteghino) sia stato fatto anche con capitali cinesi?
Comunque Bruce Willis è sempre un bel vedere e guardarlo mentre bulleggia alla grande col classico fighetto della new Hollywood è un piacere che va oltre il prezzo del biglietto.
( VOTO : 6,5 / 10 )
venerdì 23 novembre 2012
Taxidermia ( 2006 )
Lui si masturba a ogni occasione (e usa anche tecniche particolarmente creative) fino ad avere (forse) un selvaggio amplesso con la moglie laida e grassa del tenente (attraverso la cotenna di un maiale) da cui nascerà un figlio, Kalman, con la coda suina adeguatamente amputata alla nascita: Kalman diviene uno "sportivo", campione in tutte quelle feste e fiere dove diventa un fenomeno della mangiata (e del successivo vomito) con tutti i record ancora imbattuti di tranguagiamento di cibo. Si innamora(?) di collega e avranno un figlio nonostante i problemi per l'attivita"agonistica" legati alla gravidanza.Il figlio, a differenza dei genitori, è magro come uno stuzzicadenti, pallido come un cadavere, si chiama Lajoska ed è lui che in un'epoca più moderna e vicina a noi fa l'impagliatore. Ha ancora il padre che è diventato talmente obeso da non potersi più muovere, è tenuto in una stanza prigione con la tv e ha la sola compagnia di gatti giganteschi cresciuti a margarina.
Nel finale del film assisteremo all'ultima, suprema creazione di Lajoska.
La sua ultima scultura di carne che non sfigurerebbe nella collezione dei mostri di Cronenberg.
La tassidermia è l'arte di comporre i corpi per evitare loro la decomposizione. Si può dire volgarmente che è l'arte di impagliare.
Che cosa c'entra con questo film? C'entra solo nel suo ultimo segmento quasi a celebrare tutto l'alone funereo che incombe su tutti e tre gli episodi.
Il film di Palfi è un bizzarro affresco generazionale (veramente qualcosa di mai visto) in cui si narrano la vita e le gesta di tre generazioni della stessa famiglia .
Taxidermia è un film che dovrebbe essere visto seguendo l'avvertenza di tenere disgiunti gli occhi dal centro mesencefalico del vomito. Oppure da vedere a stomaco vuoto.
I tre episodi in cui è articolato il film sono assai diversi tra di loro: il primo ambientato in un'epoca imprecisata (ma presumibilmente siamo nei dintorni di una guerra), in un non luogo circondato da nebbie, ha un alone surreale che lo avvolge come il nulla sabbioso avvolgeva il deserto dei tartari: una comunità molto chiusa( eufemismo ), un soldato maniaco e fantasioso che trova tutte le occasioni per masturbarsi e che poi ha questo rapporto (reale o immaginario non si sa) con la moglie del suo tenente. O forse era solo la cotenna del maiale usata a fini erotici.
Nel secondo episodio il non luogo diventa l'Ungheria comunista in cui l'ancora giovane Kalman è un brillante "atleta" molto conosciuto (addirittura da vecchio si vanterà con Lajoska che c'è una tecnica di vomito che porta il suo nome).Qui siamo immersi nelle atmosfere delle gare e nella finta libertà di questi testimonials del regime, grassi e felici, mandati perennemente in vacanza dopo le gare. A queste olimpiadi di abbuffata si dovrebbe respirare una placida atmosfera leggera e conviviale e invece quello che si ottiene è una celebrazione funerea del regime e dell'intellighenzia ungherese figlia naturale di quella sovietica che ha steso la sua longa manus fin qui.
Il terzo episodio ambientato ai giorni nostri è la narrazione dello squallore di un'esistenza , della solitudine e dell'alienazione di Lajoska, l'ultimo rampollo di una generazione malata i cui approcci col genere femminile sono destinati comunque al fallimento.
Una vita presumibilmente libera camminando sulle macerie (metaforiche e reali) lasciate dal regime comunista che ha disseminato grigiore ovunque. Vive assieme a quello che è rimasto del padre, informe ammasso di adipe prigioniero in una stanza bunker con unica compagnia una televisione e dei gatti tenuti a debita distanza.E dal punto di vista registico la creazione dell'ultima scultura di Lajoska ( l'anello di congiunzione tra vita e morte) scaturita da un'ossessione compulsiva per un lavoro come il suo è qualcosa che rimane impresso negli occhi.
Taxidermia è un film assolutamente originale opera di un cineasta giovane,folle e con lampi di assoluta genialità.
La storia ungherese riletta attraverso una lente deformante attenta soprattutto ai coni d'ombra e ai buchi neri in cui si infila il peggio del peggio. Oltre il trash.
Tre episodi caratterizzati da diversi stili in cui soluzioni registiche più che ardite mostrano tutto quello che non è filmabile: dall'atmosfera surreale che si respira nella nebbia del primo capitolo si arriva alla claustrofobia horror del terzo episodio passando per il grottesco spinto del secondo episodio.
Forse non ho mai visto tanta follia racchiusa in un unico film. Impossibile accostare lo stile di Palfi a quello di qualsiasi altro cineasta. Somiglia solo a se stesso.
( VOTO : 8,5 / 10 )
giovedì 22 novembre 2012
Ballata dell'odio e dell'amore ( 2010 )
Prologo, metà anni '30: in piena guerra civile l'esercito irrompe in un circo e costringe i pagliacci di scena ad arruolarsi. In un'azione militare a Javier muore il padre, uno dei clown, che lo aveva avvertito di non lavorare mai in un circo. A metà anni '70, mentre il regime franchista sta per essere soppiantato finalmente dalla democrazia, Javier viene assunto come pagliaccio triste in un circo. Deve far coppia col pagliaccio che ride, Sergio, ma soprattutto si invaghisce di Natalia, la bella acrobata che ha una relazione tormentata con Sergio , condizionata dall'alcol, dalle violenze e dalle umiliazioni a cui è sottoposta anche in pubblico dal suo amante.
Natalia non si mostra insensibile alle attenzioni di Javier: ma è un sentimento asimmetrico. Amore da parte di lui, poco più che amicizia da parte di lei. Tutto questo scatena comunque la reazione rancorosa e violenta di Sergio . La rovina per tutti è dietro l'angolo.
Conobbi il cinema di Alex de La Iglesia per sbaglio: andai a vedere al cinema Accion Mutante non mi ricordo neanche perchè e uscì quasi schifato. Fui portato con l'inganno a vedere il secondo, El dia della bestia ( mi dissero che era il nuovo film di Almodovar e ai miei dubbi fui tacciato di ignoranza, mentre il film era solo prodotto dal fratello di Almodovar) e tirai una bella linea sopra questo giovane autore.
Poi però arrivò Perdita Durango e qui la mia considerazione su de la Iglesia cambiò sostanzialmente e tutto questo venne confermato da due piccoli capolavori di grottesco come La comunidad e Crimen ferpecto, oltre a un bellissimo episodio delle Peliculas para no dormir( il Masters of horror spagnolo).
Dopo ben due anni dalla sua uscita e da un suo passaggio di successo in quel di Venezia 2010 ( Osella d'oro per la sceneggiatura e Leone d'argento per la regia) esce nelle sale italiane questo Balada triste de trompeta, come al solito il titolista italiano ha perso un'ottima occasione per cogliere l'essenza del titolo originale, il film più ambizioso di Alex de la Iglesia.
Assieme al melodramma amoroso di stampo classico lacerato però da esplosioni di violenza agghiacciante che rasentano e oltrepassano il limite dell'horror, il regista spagnolo racconta la Storia del suo Paese, vittima di un regime totalitario che come un virus ha prima infettato e poi ucciso le coscienze.E tutto questo viene simboleggiato dalla lotta intestina tra i due clown, uno triste e altro che ride, che si contendono la bella acrobata. Una metafora neanche tanto sottile delle due fazioni in lotta politica per accaparrarsi il controllo di una nazione oppressa e brutalizzata.
E per raccontare tutto questo viene usata la figura di un clown triste e poi reso totalmente folle dalle traversie della vita. Un essere timido e pauroso che si trasforma in una sorta di giustiziere armato di mitra e che cerca solo la resa dei conti con il suo alter ego Sergio.
Il grottesco è il tratto stilistico dominante come era accaduto in La comunidad e Crimen ferpecto ma qui de la Iglesia osa ancora di più a rischio di esporsi al ridicolo col suo cinema eccessivo e debordante come i personaggi che lo popolano.
Balada triste de trompeta è un film che ondeggia tra le sue varie anime scompensate, si perde dietro alle sue suggestioni pittoriche che quasi soppiantano le metafore politiche di cui si nutre il film.
Il circo mostruoso di de la Iglesia è visivamente bello e terribile, deformato come i volti dei suoi due clown, uno che si è autosfregiato col vetriolo, l'altro che ha talmente tante cuciture sul volto che sembra un incrocio tra un Frankenstein e un Joker di batmaniana memoria.
Impossibile non pensare a Freaks di Browning ma questo circo inquietante mi ha ricordato anche un piccolo cult inglese del 1960, Il circo degli orrori di Sidney Hayers.
Nel finale l'apoteosi: il regista spagnolo si autocita ( il finale di La comunidad sul tetto del palazzo), cita il cinema freak di Jeunet ma per quanto mi riguarda si lancia in una spericolata citazione di Vertigo, immortale capolavoro hitchcockiano. Quella croce che si staglia inquietante nell'oscurità come il faro teatro del finale dell'altro film, quella lotta senza esclusione di colpi che arriva al suo acme, i marcati accenti pittorici che regalano un'impronta indelebile.
Un vero e proprio godimento suino dal punto di vista del cinefilo.
Balada triste de trompeta osa l'inosabile e conferma il talento magari sgrammaticato ma vivacissimo di un autore che non ha paura di mettersi in gioco.
Ambizioso seppur imperfetto ma perfetta esemplificazione della visionarietà pantagruelica di un regista che ha ormai raggiunto una propria cifra stilistica perfettamente riconoscibile.
( VOTO : 8 / 10 )
mercoledì 21 novembre 2012
The Thompsons ( 2012 )
Dopo uno sfortunato incidente in una stazione di servizio nel deserto del Mojave, quattro fratelli un po' particolari ( sono leggermente vampiri) sono costretti a fuggire dagli USA perchè ormai ricercati dalla polizia. Approdano nella vecchia Europa. Uno di loro, Francis, va in Inghilterra,a Ludlow per la precisione nella campagna a nord est di Londra per prendere contatti con una famiglia( vampirica) locale, gli Stuart, che li possa aiutare per curare Lenny, il fratello più piccolo, rimasto ferito nella stazione di servizio e che lotta tra la vita e la morte. Dopo un iniziale accoglienza , gli Stuart svelano presto le loro intenzioni. Vogliono eliminare i fratelli vampirelli.
Gli Hamilton sono tornati. Ma ora si chiamano Thompson.
Se il duo registico autoappellato The Butcher Brothers ( Mitchell Altieri e Phil Flores ) aveva in qualche modo dato un'impronta originale a una normale storia di vampiri con il loro low budget horror The Hamiltons ( 2006 ) in cui venivano seguite le gesta di una famiglia di vampiri poco più che adolescenti che si procurava come poteva il cibo, pardon il sangue, facendo strage di coetanei, The Thompsons è da considerare più che un sequel , una sorta di remake accessoriato del film precedente.
Girato con più mezzi, in una location inglese decisamente suggestiva e con un uso più cospicuo di effetti speciali perde però tutta la sua rusticità e quell'atmosfera patologica che poneva idealmente il film precedente tra il disagio adolescenziale de Il giardino di cemento di Birkin , l'osservazione entomologica stile Henry pioggia di sangue ( sono killer sanguinari che uccidono per alimentarsi colti nella loro lotta per la sopravvivenza e osservati a distanza dal duo registico) e una normale vicenda di vampiri non edulcorata come i colleghi teen di Twilight.
C'è sesso , c'è gore ma ci sono anche dinamiche familiari più complesse da seguire e che simulano un effetto soap opera che attenua il potenziale orrorifico.
Se l'introduzione con la caccia ai due amanti del parco e l'arrivo di Francis a Ludlow fa presagire qualcosa di veramente malato , il film poi gradualmente si perde nel tentativo di dare credibilità a qualcosa che credibile non è: perchè gli Stuart devono reagire così male alla richiesta d'aiuto e che motivazioni ha il personaggio di Riley ( una conturbante Elizabeth Henstridge, uno sguardo che uccide) , per sua stessa ammissione prigioniera tra la sua condizione umana e vampirica , che ondeggia tra il flirt con Francis e il bene della sua famiglia, nel compiere tutta una serie di atti contraddittori e senza spiegazione?
Se è vero che la recitazione è superiore alla media a cui ci ha abituato il genere e la confezione è tutto sommato adeguata con i momenti gore ben strutturati e filmati, The Thompsons perde del tutto l'originalità che caratterizzava The Hamiltons, un prodotto molto rustico ma che era in qualche modo apprezzabile proprio per il suo essere come un qualcosa da sgrezzare.
The Thompsons è un prodotto molto più rifinito ma fatalmente derivativo.
Visto e molto apprezzato dalla critica albionica al Frightfest del 2012, la versione dvd inglese, pur vietata ai minori di 18 anni è più corta di circa 62 secondi rispetto a quella europea.E purtroppo è tagliata via proprio una delle sequenze più efficaci del film: quella dei due vampiri Stuart che trovati due amanti in un parco li obbligano a fare sesso ( se riescono) appena prima di trucidarli selvaggiamente.
Un peccato per gli spettatori inglesi: la bionda da sola valeva il prezzo del noleggio del dvd.
( VOTO : 4,5 / 10 )
Gli Hamilton sono tornati. Ma ora si chiamano Thompson.
Se il duo registico autoappellato The Butcher Brothers ( Mitchell Altieri e Phil Flores ) aveva in qualche modo dato un'impronta originale a una normale storia di vampiri con il loro low budget horror The Hamiltons ( 2006 ) in cui venivano seguite le gesta di una famiglia di vampiri poco più che adolescenti che si procurava come poteva il cibo, pardon il sangue, facendo strage di coetanei, The Thompsons è da considerare più che un sequel , una sorta di remake accessoriato del film precedente.
Girato con più mezzi, in una location inglese decisamente suggestiva e con un uso più cospicuo di effetti speciali perde però tutta la sua rusticità e quell'atmosfera patologica che poneva idealmente il film precedente tra il disagio adolescenziale de Il giardino di cemento di Birkin , l'osservazione entomologica stile Henry pioggia di sangue ( sono killer sanguinari che uccidono per alimentarsi colti nella loro lotta per la sopravvivenza e osservati a distanza dal duo registico) e una normale vicenda di vampiri non edulcorata come i colleghi teen di Twilight.
C'è sesso , c'è gore ma ci sono anche dinamiche familiari più complesse da seguire e che simulano un effetto soap opera che attenua il potenziale orrorifico.
Se l'introduzione con la caccia ai due amanti del parco e l'arrivo di Francis a Ludlow fa presagire qualcosa di veramente malato , il film poi gradualmente si perde nel tentativo di dare credibilità a qualcosa che credibile non è: perchè gli Stuart devono reagire così male alla richiesta d'aiuto e che motivazioni ha il personaggio di Riley ( una conturbante Elizabeth Henstridge, uno sguardo che uccide) , per sua stessa ammissione prigioniera tra la sua condizione umana e vampirica , che ondeggia tra il flirt con Francis e il bene della sua famiglia, nel compiere tutta una serie di atti contraddittori e senza spiegazione?
Se è vero che la recitazione è superiore alla media a cui ci ha abituato il genere e la confezione è tutto sommato adeguata con i momenti gore ben strutturati e filmati, The Thompsons perde del tutto l'originalità che caratterizzava The Hamiltons, un prodotto molto rustico ma che era in qualche modo apprezzabile proprio per il suo essere come un qualcosa da sgrezzare.
The Thompsons è un prodotto molto più rifinito ma fatalmente derivativo.
Visto e molto apprezzato dalla critica albionica al Frightfest del 2012, la versione dvd inglese, pur vietata ai minori di 18 anni è più corta di circa 62 secondi rispetto a quella europea.E purtroppo è tagliata via proprio una delle sequenze più efficaci del film: quella dei due vampiri Stuart che trovati due amanti in un parco li obbligano a fare sesso ( se riescono) appena prima di trucidarli selvaggiamente.
Un peccato per gli spettatori inglesi: la bionda da sola valeva il prezzo del noleggio del dvd.
( VOTO : 4,5 / 10 )
martedì 20 novembre 2012
Consigli per gli ascolti ( 3 )
TIAMAT " THE SCARRED PEOPLE" ( Napalm Records 2012 ) Per quanto mi riguarda sarò sempre riconoscente a Johan Edlund e ai suoi Tiamat perchè negli anni '90 mi regalarono due dischi fondamentali come Wildhoney ( Whatever that hurts credo che sia uno dei più bei pezzi che abbia mai ascoltato, metal e non) e A deeper kind of slumber in cui per la prima volta esploravano territori gothicheggianti e dark wave tributando il giusto tributo alla grandezza dei Depeche Mode. Disco che spaccò la critica e il pubblico ma che ancora oggi amo alla follia come se fosse il primo ascolto. Poi i Tiamat purtroppo non si sono più ripetuti a quei livelli. Da allora hanno dato alle stampe un buonissimo disco ( Prey del 2003 ) , uno discreto ( Amanethes 2008) e due al di sotto della sufficienza ( Skeleton Skeletron del 1999 e Judas Christ del 2001 ).
The scarred people è il classico disco di chi non ha voglia di rischiare: un riciclo elegante di idee già enunciate in dischi precedenti . I Tiamat del 2012 sono una band goth rock dal sound piuttosto scarno che si basa quasi esclusivamente sulla vocalità quasi eldritchiana ( nel senso del cantante dei Sister of Mercy) di Edlund che comunque continua a essere notevole. Alcuni brani potrebbero appartenere ai tempi belli dei Tiamat tipo la title track o la conclusiva The Red of the morning sun, altri sono semplicemente dei filler, suonati con classe ma un filo anonimi. Pochi sussulti e una certa omogeneità che stavolta non è detto che sia un bene ( VOTO : 6/ 10 ).
CANDLEMASS " PSALMS OF THE DEAD" ( Napalm Records 2012). Leif Edling ha detto che questo sarà l'ultimo album dei Candlemass e che ora si concentreranno solo sull'attività live e per fare questo ha licenziato Robert Lowe che aveva raccolto la pesante eredità di Messiah Marcolin dal 2006 in poi, colpevole a suo dire di non fornire prestazioni live all'altezza della potenza del gruppo. Per me i Candlemass saranno sempre quelli con Messiah Marcolin e il suo inimitabile timbro baritonale. Non che il signor Lowe fosse l'ultimo arrivato, almeno in studio ha dato sempre buona prova di sè. Anche in questo Psalms of the dead. Tutti lo etichettano come doom ma per me è un hard rock al massimo ottantiano in cui Lowe fa verso al Ronnie James Dio del periodo Heaven and Hell. In The Lights of Thebe sembra proprio di sentire al microfono il piccolo folletto ormai passato a miglior vita( RIP), così come in The killing of the sun però su un riff che ricorda molto da vicino Iron Man, immortale brano dei Sabs del periodo Ozzy. Quindi il corto circuito è completo. Psalms of the dead è la testimonianza comunque di una band in salute e di una vena compositiva che non si è inaridita a più di venticinque anni dall'esordio. Speriamo che Leif Edling , signore e padrone dei Candlemass ci ripensi.( VOTO: 7+/ 10 )
DORDEDUH " DAR DE DUH " ( Prophecy Production, 2012) Mai avrei pensato di ascoltare un gruppo black metal dalla Romania. E scoprì qualche anno fa i Negura Bunget,letteralmente esplosivi per la loro fusione tra black e folk.Ora dalle loro ceneri, o meglio da una una costola putrefatta di quel fantastico gruppo nasce un progetto entusiasmante che ha dato alle stampe quello che per me è uno dei dischi dell'anno. I Dordeduh sono impropriamente gettati nel calderone balck metal ma nella loro musica c'è molto di più. Ci sono strumenti antichi, lunghi passaggi strumentali che rasentano( o magari oltrepassano il progressive), c'è il recupero di canti tradizionali folkloristici e in sovrappiù ci sono sfuriate black e death metal che sono come la ciliegina sulla torta, un aroma speziato che rende ancora più preziosa la pietanza musicale che i Dordeduh ci porgono su un piatto d'argento. Oltre 80 minuti di musica cangiante ed evocativa ( tra cui anche una cover degli Enslaved) con un alto tasso di orginalità, tra l'altro prodotta benissimo. LA VERA rivelazione dell'anno ( VOTO : 9 / 10 )
ANAAL NATHRAKH " VANITAS " ( Candlelight 2012 ) E' il primo disco che ascolto degli Anaal Nathrakh( nome preso dalle parole della formula magica pronunciata dal mago Merlino in Excalibur di John Boorman), duo black /death/ grind/ industrial inglese. Vanitas è condotto a velocità assurde e col vocalist V.I.T.R.I.O.L. ( nomen omen mai nome fu così azzeccato ) che ha veramente una fogna in gola : le sue urla agghiaccianti si intervallano a parti in scream e addirittura a parti in clean vocals che danno un che di "melodico" ( naturalmente prendendo questo termine in un'accezione molto lata) alla furia nichilista che parte dal primo secondo del disco e termina con l'ultima nota. La prima volta che ho ascoltato l'ultima traccia di questo disco( A metaphor for the dead) sono quasi collassato: c'è una sorta di refrain molto d'effetto in cui viene ripreso il Ridi Pagliaccio tratto da I Pagliacci di Leoncavallo. Vanitas è tranquillamente definibile come un'elegantissima mazzata sulle gengive. Una sola cosa: il disco dura solo 37 minuti: è vero che non rimpiango i soldi spesi e che la bellezza della musica non si misura un tanto al minuto( o al kilo) ma spendere quasi 20 euro per quello che per altri può essere un EP...ebbene , un po' scoccia. Però anche se dura poco, è bello.( VOTO: 7+/ 10 ).
SHINING " REDIFINING DARKNESS" ( Spinefarm 2012 ) Qui siamo ad alti livelli. Un disco che per dirla con il titolo cerca di ridefinire il concetto e i colori dell' oscurità . Dopo la partenza lanciata della prima parte dell'opener Du, Mitt Konstverk, gli Shining rallentano di brutto per dare in pasto ai famelici ascoltatori un gioiello grezzo di nera depressione. Lo scream è intervallato con clean vocals evocative che dettano la linea melodica, abbondano gli arpeggi di chitarra acustica , addirittura un sax malinconico intona una sorta di deguello nel secondo brano del cd, The Ghastly Silence, uno dei migliori del lotto purtroppo molto ristretto perchè sono cinque brani (piuttosto lunghi) più un breve strumentale per solo pianoforte, per un totale di circa 40 minuti.Se dovessi scegliere un solo brano sceglierei l'ultimo, For the God Below, quasi nove minuti che racchiudono come in un piccolo caleidoscopio tutti i colori dell'oscurità targata Shining. Da segnalare numerosi ospiti celebri, da Andy la Rocque a Rob Caggiano che regalano bellissimi assoli di chitarra. Da ascoltare. ( VOTO : 8+ / 10 ).
The scarred people è il classico disco di chi non ha voglia di rischiare: un riciclo elegante di idee già enunciate in dischi precedenti . I Tiamat del 2012 sono una band goth rock dal sound piuttosto scarno che si basa quasi esclusivamente sulla vocalità quasi eldritchiana ( nel senso del cantante dei Sister of Mercy) di Edlund che comunque continua a essere notevole. Alcuni brani potrebbero appartenere ai tempi belli dei Tiamat tipo la title track o la conclusiva The Red of the morning sun, altri sono semplicemente dei filler, suonati con classe ma un filo anonimi. Pochi sussulti e una certa omogeneità che stavolta non è detto che sia un bene ( VOTO : 6/ 10 ).
CANDLEMASS " PSALMS OF THE DEAD" ( Napalm Records 2012). Leif Edling ha detto che questo sarà l'ultimo album dei Candlemass e che ora si concentreranno solo sull'attività live e per fare questo ha licenziato Robert Lowe che aveva raccolto la pesante eredità di Messiah Marcolin dal 2006 in poi, colpevole a suo dire di non fornire prestazioni live all'altezza della potenza del gruppo. Per me i Candlemass saranno sempre quelli con Messiah Marcolin e il suo inimitabile timbro baritonale. Non che il signor Lowe fosse l'ultimo arrivato, almeno in studio ha dato sempre buona prova di sè. Anche in questo Psalms of the dead. Tutti lo etichettano come doom ma per me è un hard rock al massimo ottantiano in cui Lowe fa verso al Ronnie James Dio del periodo Heaven and Hell. In The Lights of Thebe sembra proprio di sentire al microfono il piccolo folletto ormai passato a miglior vita( RIP), così come in The killing of the sun però su un riff che ricorda molto da vicino Iron Man, immortale brano dei Sabs del periodo Ozzy. Quindi il corto circuito è completo. Psalms of the dead è la testimonianza comunque di una band in salute e di una vena compositiva che non si è inaridita a più di venticinque anni dall'esordio. Speriamo che Leif Edling , signore e padrone dei Candlemass ci ripensi.( VOTO: 7+/ 10 )
DORDEDUH " DAR DE DUH " ( Prophecy Production, 2012) Mai avrei pensato di ascoltare un gruppo black metal dalla Romania. E scoprì qualche anno fa i Negura Bunget,letteralmente esplosivi per la loro fusione tra black e folk.Ora dalle loro ceneri, o meglio da una una costola putrefatta di quel fantastico gruppo nasce un progetto entusiasmante che ha dato alle stampe quello che per me è uno dei dischi dell'anno. I Dordeduh sono impropriamente gettati nel calderone balck metal ma nella loro musica c'è molto di più. Ci sono strumenti antichi, lunghi passaggi strumentali che rasentano( o magari oltrepassano il progressive), c'è il recupero di canti tradizionali folkloristici e in sovrappiù ci sono sfuriate black e death metal che sono come la ciliegina sulla torta, un aroma speziato che rende ancora più preziosa la pietanza musicale che i Dordeduh ci porgono su un piatto d'argento. Oltre 80 minuti di musica cangiante ed evocativa ( tra cui anche una cover degli Enslaved) con un alto tasso di orginalità, tra l'altro prodotta benissimo. LA VERA rivelazione dell'anno ( VOTO : 9 / 10 )
ANAAL NATHRAKH " VANITAS " ( Candlelight 2012 ) E' il primo disco che ascolto degli Anaal Nathrakh( nome preso dalle parole della formula magica pronunciata dal mago Merlino in Excalibur di John Boorman), duo black /death/ grind/ industrial inglese. Vanitas è condotto a velocità assurde e col vocalist V.I.T.R.I.O.L. ( nomen omen mai nome fu così azzeccato ) che ha veramente una fogna in gola : le sue urla agghiaccianti si intervallano a parti in scream e addirittura a parti in clean vocals che danno un che di "melodico" ( naturalmente prendendo questo termine in un'accezione molto lata) alla furia nichilista che parte dal primo secondo del disco e termina con l'ultima nota. La prima volta che ho ascoltato l'ultima traccia di questo disco( A metaphor for the dead) sono quasi collassato: c'è una sorta di refrain molto d'effetto in cui viene ripreso il Ridi Pagliaccio tratto da I Pagliacci di Leoncavallo. Vanitas è tranquillamente definibile come un'elegantissima mazzata sulle gengive. Una sola cosa: il disco dura solo 37 minuti: è vero che non rimpiango i soldi spesi e che la bellezza della musica non si misura un tanto al minuto( o al kilo) ma spendere quasi 20 euro per quello che per altri può essere un EP...ebbene , un po' scoccia. Però anche se dura poco, è bello.( VOTO: 7+/ 10 ).
SHINING " REDIFINING DARKNESS" ( Spinefarm 2012 ) Qui siamo ad alti livelli. Un disco che per dirla con il titolo cerca di ridefinire il concetto e i colori dell' oscurità . Dopo la partenza lanciata della prima parte dell'opener Du, Mitt Konstverk, gli Shining rallentano di brutto per dare in pasto ai famelici ascoltatori un gioiello grezzo di nera depressione. Lo scream è intervallato con clean vocals evocative che dettano la linea melodica, abbondano gli arpeggi di chitarra acustica , addirittura un sax malinconico intona una sorta di deguello nel secondo brano del cd, The Ghastly Silence, uno dei migliori del lotto purtroppo molto ristretto perchè sono cinque brani (piuttosto lunghi) più un breve strumentale per solo pianoforte, per un totale di circa 40 minuti.Se dovessi scegliere un solo brano sceglierei l'ultimo, For the God Below, quasi nove minuti che racchiudono come in un piccolo caleidoscopio tutti i colori dell'oscurità targata Shining. Da segnalare numerosi ospiti celebri, da Andy la Rocque a Rob Caggiano che regalano bellissimi assoli di chitarra. Da ascoltare. ( VOTO : 8+ / 10 ).
Cercasi amore per la fine del mondo ( 2012 )
Un asteroide si abbatterà sulla Terra determinandone la distruzione totale. Rimangono solo 3 settimane alla fine del mondo.
Tra panico distruttivo e paranoie di massa, il quieto assicuratore Dodge, abbandonato dalla moglie in preda al terrore per la fine del mondo imminente ( hanno appreso la notizia in macchina e mentre lui riesce solo a balbettare qualcosa sull'uscita sbagliata dell'autostrada, lei fugge a gambe levate per chissaddove) , vuole tirare le somme della sua scialba esistenza e rivedere la sua vecchia fiamma del liceo. Una sua vicina di casa, la sbalestrata Penny, entra inaspettatamente nella sua vita e la sconvolge. Anche lei cerca il modo migliore per trascorrere il poco tempo rimasto, maagari portandosi dietro la sua collezione di vinili.
Perchè non fare insieme questo viaggio alla ricerca del modo migliore per aspettare l'apocalisse?
E' uno strano film questo. Seeking a friend for the end of the world ( preferisco usare il titolo originale perchè come al solito il titolista italiano si è letteralmente sfracellato su un titolo dalla semplicità adamantina , sostituendo arbitrariamente l' amore all'amicizia).
Parte come una farsa per come descrive soprattutto gli effetti comico/grotteschi che provoca la notizia dell'apocalisse imminente( la parte migliore del film) e poi gradualmente col passare dei minuti si trasforma in qualcosa d'altro, un ibrido che va dal road movie formativo ( perchè comunque è un viaggio che determina una crescita interiore) al classico film sul ricordo dei bei tempi andati, passando per la commedia sentimentale in cui la componente comica è assicurata da una Keira Knightley raramente vista così piena di verve.
La comicità naturalmente nasce da due personaggi agli antipodi: Carell è un grigio assicuratore dalla vita afflitta dalla mediocrità che dopo aver tentato il suicidio ingerendo Vetril o Glassex( fate un po' voi) ,trova la ragione di andare avanti negli occhi espressivi di un cagnolino che gli hanno lasciato accanto mentre lui era ancora svenuto.
Penny è totalmente squinternata con una vita sentimentale che è un continuo punto interrogativo e una testa piena di poche idee in compenso ben confuse.
Si trovano, viaggiano assieme, empatizzano.
Riescono a raggiungere quella serenità necessaria per non buttare via i loro ultimi giorni di vita tra cene in memoriam, trasgressioni un tanto al kilo, bunker antiatomici ,droghe e sbronze varie come fanno quasi tutti gli altri
Scoprono quanto è bello stare assieme, comunicare , dormire semplicemente l'uno accanto all'altra attendendo la fine con un lieve sorriso a increspare le labbra.
Si può aspettare l'apocalisse senza per questo sentirsi soli.
Se il genere post apocalittico sta vivendo una seconda giovinezza, Seeking a friend for the end of the world si aggiunge invece al filone pre apocalittico, ben lontano dal fracasso hi tech di 2012 di Emmerich , meno profondo ma idealmente più vicino a Melancholia di Von Trier.
Su un canovaccio abbastanza consunto da road movie in cui sono più importanti gli incontri che si fanno che la meta del viaggio in sè che col passare dei kilometri perde significato, la regista e sceneggiatrice Lorene Scafaria parla di amicizia che ( prevedibilmente ) diventa amore in un film che vive di piccole trovate tra farsa e dramma. E se questa ultima componente è saggiamente tenuta sullo sfondo ( anche se naturalmente un tono malinconico aleggia su tutta la pellicola) , la parte più riuscita sembra proprio quella in cui si descrive la reazione di ognuno all'apocalisse imminente.
Tra farsa e dramma, appunto.
Nella seconda parte prevale il patetismo di un sentimento a tempo determinato, con scadenza breve come il latte fresco.
Che altro dire?
Si sorride all'inizio ma poi il tono diventa sempre più pensoso.
Non la classica commedia hollywoodiana e forse per questo il pubblico l'ha praticamente ignorata.
( VOTO : 6,5 / 10 )
Tra panico distruttivo e paranoie di massa, il quieto assicuratore Dodge, abbandonato dalla moglie in preda al terrore per la fine del mondo imminente ( hanno appreso la notizia in macchina e mentre lui riesce solo a balbettare qualcosa sull'uscita sbagliata dell'autostrada, lei fugge a gambe levate per chissaddove) , vuole tirare le somme della sua scialba esistenza e rivedere la sua vecchia fiamma del liceo. Una sua vicina di casa, la sbalestrata Penny, entra inaspettatamente nella sua vita e la sconvolge. Anche lei cerca il modo migliore per trascorrere il poco tempo rimasto, maagari portandosi dietro la sua collezione di vinili.
Perchè non fare insieme questo viaggio alla ricerca del modo migliore per aspettare l'apocalisse?
E' uno strano film questo. Seeking a friend for the end of the world ( preferisco usare il titolo originale perchè come al solito il titolista italiano si è letteralmente sfracellato su un titolo dalla semplicità adamantina , sostituendo arbitrariamente l' amore all'amicizia).
Parte come una farsa per come descrive soprattutto gli effetti comico/grotteschi che provoca la notizia dell'apocalisse imminente( la parte migliore del film) e poi gradualmente col passare dei minuti si trasforma in qualcosa d'altro, un ibrido che va dal road movie formativo ( perchè comunque è un viaggio che determina una crescita interiore) al classico film sul ricordo dei bei tempi andati, passando per la commedia sentimentale in cui la componente comica è assicurata da una Keira Knightley raramente vista così piena di verve.
La comicità naturalmente nasce da due personaggi agli antipodi: Carell è un grigio assicuratore dalla vita afflitta dalla mediocrità che dopo aver tentato il suicidio ingerendo Vetril o Glassex( fate un po' voi) ,trova la ragione di andare avanti negli occhi espressivi di un cagnolino che gli hanno lasciato accanto mentre lui era ancora svenuto.
Penny è totalmente squinternata con una vita sentimentale che è un continuo punto interrogativo e una testa piena di poche idee in compenso ben confuse.
Si trovano, viaggiano assieme, empatizzano.
Riescono a raggiungere quella serenità necessaria per non buttare via i loro ultimi giorni di vita tra cene in memoriam, trasgressioni un tanto al kilo, bunker antiatomici ,droghe e sbronze varie come fanno quasi tutti gli altri
Scoprono quanto è bello stare assieme, comunicare , dormire semplicemente l'uno accanto all'altra attendendo la fine con un lieve sorriso a increspare le labbra.
Si può aspettare l'apocalisse senza per questo sentirsi soli.
Se il genere post apocalittico sta vivendo una seconda giovinezza, Seeking a friend for the end of the world si aggiunge invece al filone pre apocalittico, ben lontano dal fracasso hi tech di 2012 di Emmerich , meno profondo ma idealmente più vicino a Melancholia di Von Trier.
Su un canovaccio abbastanza consunto da road movie in cui sono più importanti gli incontri che si fanno che la meta del viaggio in sè che col passare dei kilometri perde significato, la regista e sceneggiatrice Lorene Scafaria parla di amicizia che ( prevedibilmente ) diventa amore in un film che vive di piccole trovate tra farsa e dramma. E se questa ultima componente è saggiamente tenuta sullo sfondo ( anche se naturalmente un tono malinconico aleggia su tutta la pellicola) , la parte più riuscita sembra proprio quella in cui si descrive la reazione di ognuno all'apocalisse imminente.
Tra farsa e dramma, appunto.
Nella seconda parte prevale il patetismo di un sentimento a tempo determinato, con scadenza breve come il latte fresco.
Che altro dire?
Si sorride all'inizio ma poi il tono diventa sempre più pensoso.
Non la classica commedia hollywoodiana e forse per questo il pubblico l'ha praticamente ignorata.
( VOTO : 6,5 / 10 )
lunedì 19 novembre 2012
Hotel Transylvania ( 2012 )
Il famigerato castello del conte Dracula è in realtà un resort a cinque stelle aperto solo ai mostri . Gli umani sono banditi. In occasione della festa per il raggiungimento della maggiore età della figlia del Principe delle Tenebre, Mavis ( basteranno 118 anni per diventare maggiorenni ?), c'è una rimpatriata tra colleghi di paura con l'arrivo dei vari Frankenstein, l'Uomo Invisibile, la Mummia, il Lupo Mannaro con numerosa prole ecc ecc. Per caso si imbuca anche Johnathan , 21 enne vacanziere umano che viaggia da solo. Dracula cerca di cacciarlo perchè avere umani nel proprio albergo di lusso è disdicevole,ma la piccola Mavis che non ha mai conosciuto umani perchè confinata sempre all'interno del castello è istintivamente attratta dal giovanotto.
Per evitare guai Dracula trucca Johnny da mostro facendolo passare per il cugino di Frankenstein e nel frattempo cerca di tenerlo lontano dalla figlia. Ma non sarà così semplice.
Anche il conte Dracula tiene famiglia. Dopo il principe dei vampiri che viveva sulla propria pelle il dramma dell'immigrazione clandestina visto in Zora la vampira dei Manetti Bros, ecco stavolta il conte con i canini affilati che si trova a fronteggiare tutti i turbamenti dell'adolescenza della giovane figlia Mavis.
E viene fuori un Dracula umano, un padre di famglia che cerca di fare di tutto per preservare la figlia da brutte esperienze proprio come farebbe un padre di famiglia umano. Dracula è un genitore iperapprensivo, che è riuscito a nascondere alla figlia il mondo che la circonda ma inevitabilmente la verità prima o poi sarà destinata a venire fuori.
Ciò avviene principalmente grazie a Johnny che, capitato per caso nell'hotel di lusso per clientela molto particolare, fa la stessa figura del protagonista all'inizio di Shaun of the dead.
Incontra mostri per ogni dove ma non se ne accorge.
Quando se ne accorgerà cominceranno i dolori, naturalmente assai relativi perchè parliamo di un cartone per bambini.
Il film parte dallo stesso assunto di Monsters & Co della Pixar : i mostri vivono in una specie di dimensione alternativa e sono loro che hanno paura ( e anche disprezzo, secondo Dracula sono affetti da mostrismo come dice in un dialogo con Johnny) degli uomini.
In pratica come i non morti della seconda parte di ParaNorman che avevano più paura degli abitanti della cittadina che non il contrario.
Il ribaltamento del concetto di mostro.
In Hotel Transylvania viene rispolverata un po' di iconografia da film Universal anni '30 e '40, aggiornata al nuovo millennio grazie all'elemento di disturbo umano che risponde al nome di Johnny, che racchiude in sè tutta la banalità e la normalità che possiamo trovare in un 21enne adattato alle nuove tecnologie.
Il film dell'esordiente Genndy Tartakovsky è cristallino nella storia che racconta: quella di un padre iperprotettivo che sente la propria inadeguatezza e i primi balbettamenti sentimentali di una figlia che sta crescendo. In filigrana inoltre il discorso sulla solitudine data dalla diversità, stesso tema trattato da ParaNorman ma qui affrontato in modo meno malinconico, con molto humour per arrivare quasi alla farsa.
E il cuore di papà naturalmente si dimostrerà grosso così...
Per una volta tanto non bisogna tirare dardi avvelenati al doppiaggio italiano che è più che adeguato e una nota di merito anche al design del film che tende ad avvicinarsi alla caricatura dando alla pellicola quel look retrò e quel tocco di originalità che non guastano affatto.
Hotel Transylvania è naturalmente visione consigliata ai più piccini ( non troppo però ) ma anche gli adulti troveranno il modo di divertirsi.
Almeno per me è stato così.
Sarà la mia età mentale nettamente inferiore a quella anagrafica?
( VOTO : 7 / 10 )
Per evitare guai Dracula trucca Johnny da mostro facendolo passare per il cugino di Frankenstein e nel frattempo cerca di tenerlo lontano dalla figlia. Ma non sarà così semplice.
Anche il conte Dracula tiene famiglia. Dopo il principe dei vampiri che viveva sulla propria pelle il dramma dell'immigrazione clandestina visto in Zora la vampira dei Manetti Bros, ecco stavolta il conte con i canini affilati che si trova a fronteggiare tutti i turbamenti dell'adolescenza della giovane figlia Mavis.
E viene fuori un Dracula umano, un padre di famglia che cerca di fare di tutto per preservare la figlia da brutte esperienze proprio come farebbe un padre di famiglia umano. Dracula è un genitore iperapprensivo, che è riuscito a nascondere alla figlia il mondo che la circonda ma inevitabilmente la verità prima o poi sarà destinata a venire fuori.
Ciò avviene principalmente grazie a Johnny che, capitato per caso nell'hotel di lusso per clientela molto particolare, fa la stessa figura del protagonista all'inizio di Shaun of the dead.
Incontra mostri per ogni dove ma non se ne accorge.
Quando se ne accorgerà cominceranno i dolori, naturalmente assai relativi perchè parliamo di un cartone per bambini.
Il film parte dallo stesso assunto di Monsters & Co della Pixar : i mostri vivono in una specie di dimensione alternativa e sono loro che hanno paura ( e anche disprezzo, secondo Dracula sono affetti da mostrismo come dice in un dialogo con Johnny) degli uomini.
In pratica come i non morti della seconda parte di ParaNorman che avevano più paura degli abitanti della cittadina che non il contrario.
Il ribaltamento del concetto di mostro.
In Hotel Transylvania viene rispolverata un po' di iconografia da film Universal anni '30 e '40, aggiornata al nuovo millennio grazie all'elemento di disturbo umano che risponde al nome di Johnny, che racchiude in sè tutta la banalità e la normalità che possiamo trovare in un 21enne adattato alle nuove tecnologie.
Il film dell'esordiente Genndy Tartakovsky è cristallino nella storia che racconta: quella di un padre iperprotettivo che sente la propria inadeguatezza e i primi balbettamenti sentimentali di una figlia che sta crescendo. In filigrana inoltre il discorso sulla solitudine data dalla diversità, stesso tema trattato da ParaNorman ma qui affrontato in modo meno malinconico, con molto humour per arrivare quasi alla farsa.
E il cuore di papà naturalmente si dimostrerà grosso così...
Per una volta tanto non bisogna tirare dardi avvelenati al doppiaggio italiano che è più che adeguato e una nota di merito anche al design del film che tende ad avvicinarsi alla caricatura dando alla pellicola quel look retrò e quel tocco di originalità che non guastano affatto.
Hotel Transylvania è naturalmente visione consigliata ai più piccini ( non troppo però ) ma anche gli adulti troveranno il modo di divertirsi.
Almeno per me è stato così.
Sarà la mia età mentale nettamente inferiore a quella anagrafica?
( VOTO : 7 / 10 )
domenica 18 novembre 2012
Avatar ( 2009 )
James Cameron è l'Arsenio Lupin del cinema moderno.
Campione assoluto di furto con destrezza.
E' riuscito a muovere un giro d'affari di oltre due miliardi di dollari,parlando solo degli incassi per non parlare di tutti i soldi futuri che gli pioveranno addosso. Va a finire che lo troveremo nel suo deposito di dollari a fare il bagno nelle monete d'oro come faceva zio Paperone( avercela io quella piscina privata.....
Avatar ( o era Avariat ? boh!) è ,o meglio sembra, essere diventato la pietra di paragone per tanto cinema a venire e ho visto volare in sede critica, non solo dei semplici appassionati, ma chi di critica cinematografica la fa di professione, tante lodi sperticate, appellativi di capolavoro e voti massimi.
Ebbene io , nel mio essere un nessuno qualunque, non ho visto nulla di questo.
E'comunque un film importante, da rispettare e che sarà ricordato anche tra molti anni come quello che ha aperto la strada a un nuovo modo di fare cinema. Che poi gli studios si sono accorti che girare un film direttamente in 3 D costa molto di più che girarlo in 2 D e poi gonfiarlo in post produzione. Tanto gli allocchi, se ci sono ancora babbei che si avvicinano a un film solo per gli occhialetti e il 3 D, abboccano lo stesso.
Avatar rafforza la mia sensazione che mentre Cameron è assolutamente all'avanguardia per quanto riguarda gli effetti visivi, la motion capture (veramente convincente) e per tutti gli aspetti tecnici in genere, si dimostra sempre più conservativo e poco incline alle novità in sede di scrittura.
Oserei dire anche modesto: perchè lo script di Avatar non è all'altezza di tutto il resto.In questo suo ultimo film ho visto una sorta di Bignami di tutto lo scibile cinematografico da Balla coi lupi a Pocahontas, da L'ultimo dei Mohicani ad Apocalypse now, da Laguna blu a Guerre stellari,da Jurassic park ad Apocalypto, da Aliens Scontro finale a L'invasione degli ultracorpi (l'immagine finale).
E se continuo a ripercorrere mentalmente il film continuo a trovare accostamenti ad altri film per ogni dove.
Sta qui la maggiore delusione di Avatar:in regia poteva starci un Emmerich qualunque e il risultato sarebbe stato probabilmente identico o quasi.
Parliamo poi del 3 D. Beh gli effetti tridimensionali di questo film non mi hanno mai regalato veramente l'impressione di essere dentro il film (probabilmente per avere tale sensazione mi sarei dovuto mettere a pochi centimetri dallo schermo,magari in una di quelle giornate in cui per vedere questo film erano liberi solo i posti in braccio a quelli seduti), spesso mi hanno fatto solo l'impressione di un surplus fatto gratuitamente.Probabilmente qui siamo arrivati a livelli di riferimento per quanto riguarda il motion capture e comunque bisogna dire che visivamente Pandora è notevole anche se odora di riciclaggio delle opere di Dean.
Purtroppo la componente umana, i personaggi sono la parte peggiore del film: piatti, unidimensionali, non c'è quel minimo di ambiguità che li renderebbe più affascinanti.
Evitabile quella spruzzata generosa di new age nel finale, soprattutto in un film che non brilla per agilità vista anche la durata.
E la prima parte non brilla per ritmo e per freschezza.
Dopo più di due ore e mezzo di film mi sono reso conto che James Cameron ci ha guadagnato un sacco di soldi, io un bel mal di testa e il gestore del cinema tre euro in più per il noleggio dell'occhialetto.
Ma poi spiegatemi una cosa: con tutto il dispiego di tecnologia che c'è in questo film come è possibile che l'esoscheletro ( che fa tanto Nathan Never ) lo devono accendere con la chiavetta come il camioncino diesel del lattaio e la mega bomba che deve distruggere tutto la devono lanciare a spinta?
La morale che si trae da Avatar? Vince sempre chi ha l'uccello più grosso. Rosso per giunta mentre gli altri sono blu.
( VOTO : 4,5 / 10 )
Campione assoluto di furto con destrezza.
E' riuscito a muovere un giro d'affari di oltre due miliardi di dollari,parlando solo degli incassi per non parlare di tutti i soldi futuri che gli pioveranno addosso. Va a finire che lo troveremo nel suo deposito di dollari a fare il bagno nelle monete d'oro come faceva zio Paperone( avercela io quella piscina privata.....
Avatar ( o era Avariat ? boh!) è ,o meglio sembra, essere diventato la pietra di paragone per tanto cinema a venire e ho visto volare in sede critica, non solo dei semplici appassionati, ma chi di critica cinematografica la fa di professione, tante lodi sperticate, appellativi di capolavoro e voti massimi.
Ebbene io , nel mio essere un nessuno qualunque, non ho visto nulla di questo.
E'comunque un film importante, da rispettare e che sarà ricordato anche tra molti anni come quello che ha aperto la strada a un nuovo modo di fare cinema. Che poi gli studios si sono accorti che girare un film direttamente in 3 D costa molto di più che girarlo in 2 D e poi gonfiarlo in post produzione. Tanto gli allocchi, se ci sono ancora babbei che si avvicinano a un film solo per gli occhialetti e il 3 D, abboccano lo stesso.
Avatar rafforza la mia sensazione che mentre Cameron è assolutamente all'avanguardia per quanto riguarda gli effetti visivi, la motion capture (veramente convincente) e per tutti gli aspetti tecnici in genere, si dimostra sempre più conservativo e poco incline alle novità in sede di scrittura.
Oserei dire anche modesto: perchè lo script di Avatar non è all'altezza di tutto il resto.In questo suo ultimo film ho visto una sorta di Bignami di tutto lo scibile cinematografico da Balla coi lupi a Pocahontas, da L'ultimo dei Mohicani ad Apocalypse now, da Laguna blu a Guerre stellari,da Jurassic park ad Apocalypto, da Aliens Scontro finale a L'invasione degli ultracorpi (l'immagine finale).
E se continuo a ripercorrere mentalmente il film continuo a trovare accostamenti ad altri film per ogni dove.
Sta qui la maggiore delusione di Avatar:in regia poteva starci un Emmerich qualunque e il risultato sarebbe stato probabilmente identico o quasi.
Parliamo poi del 3 D. Beh gli effetti tridimensionali di questo film non mi hanno mai regalato veramente l'impressione di essere dentro il film (probabilmente per avere tale sensazione mi sarei dovuto mettere a pochi centimetri dallo schermo,magari in una di quelle giornate in cui per vedere questo film erano liberi solo i posti in braccio a quelli seduti), spesso mi hanno fatto solo l'impressione di un surplus fatto gratuitamente.Probabilmente qui siamo arrivati a livelli di riferimento per quanto riguarda il motion capture e comunque bisogna dire che visivamente Pandora è notevole anche se odora di riciclaggio delle opere di Dean.
Purtroppo la componente umana, i personaggi sono la parte peggiore del film: piatti, unidimensionali, non c'è quel minimo di ambiguità che li renderebbe più affascinanti.
Evitabile quella spruzzata generosa di new age nel finale, soprattutto in un film che non brilla per agilità vista anche la durata.
E la prima parte non brilla per ritmo e per freschezza.
Dopo più di due ore e mezzo di film mi sono reso conto che James Cameron ci ha guadagnato un sacco di soldi, io un bel mal di testa e il gestore del cinema tre euro in più per il noleggio dell'occhialetto.
Ma poi spiegatemi una cosa: con tutto il dispiego di tecnologia che c'è in questo film come è possibile che l'esoscheletro ( che fa tanto Nathan Never ) lo devono accendere con la chiavetta come il camioncino diesel del lattaio e la mega bomba che deve distruggere tutto la devono lanciare a spinta?
La morale che si trae da Avatar? Vince sempre chi ha l'uccello più grosso. Rosso per giunta mentre gli altri sono blu.
( VOTO : 4,5 / 10 )
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