I miei occhi sono pieni delle cicatrici dei mille e mille film che hanno visto.
Il mio cuore ancora porta i segni di tutte le emozioni provate.
La mia anima è la tabula rasa impressionata giorno per giorno,a 24 fotogrammi al secondo.
Cinema vicino e lontano, visibile e invisibile ma quello lontano e invisibile un po' di più.

giovedì 31 maggio 2012

Melancholia ( 2011 )



La fine è l'inizio.

Anche se sul pianeta  Terra ci sono le uniche forme viventi dell'universo.
Eppure Melancholia comincia proprio dall'apocalisse al ralenti, una serie di inquadrature pittoriche in movimento lento che immaginificamente si collega alle ultime sequenze del film.
Dopo il tetro carboncino usato per Antichrist è venuto il tempo dei luminosi colori pastello di questo minaccioso pianeta blu che se ne sta lì in mezzo al cielo dopo aver cacciato la stella Anatares dalla costellazione dello Scorpione.
E' minaccioso eppure  qualcuno dice che sembra avere un'aria amichevole.
Un prologo che si riallaccia all'epilogo e due capitoli che portano il nome delle due sorelle protagoniste, Justine e Claire che sembrano una il negativo fotografico dell'altra e non solo fenotipicamente.
Justine ha negli occhi la rassegnazione di chi è a conoscenza di tutto, arriva tardi alla sua Festen di matrimonio illuminata fiocamente come regole del Dogma 95 vogliono, in cui i parenti serpenti non perdono occasione di punzecchiarsi.
Lei è assente, assente dalla sua cerimonia nuziale, assente con i suoi cari, persino col marito.
Vaga con la mente raminga nel nulla esistenziale e il corpo vaga assieme alla sua mente.
Un matrimonio che è allo stesso tempo epitaffio di un amore che abbiamo solo intuito dalle prime sequenze.
Justine aspetta che fatalmente accada tutto. Lei sa già quello che succederà come conosceva il numero dei fagioli nella bottiglia alla sua festa nuziale.
E' rassegnata al blu che sta sovrastando il nostro piccolo pianeta, è svuotata eppure trova le energie per bypassare lo scoramento, trovando addirittura la voglia di andarsi a prendere un pò di tintarella di Melancholia sdraiata sulle rocce .
Justine ha la rassegnazione della solitudine.
Il secondo capitolo è ambientato nella tenuta di Claire, casa, giardino e campo di golf degni di una rivista di design architettonico.
Claire  invece non è rassegnata: ingannata a fin di bene da un marito che conosce perfettamente l'apocalisse verso cui stanno procedendo a grandi passi, ha un figlio da proteggere.
E ha un senso di colpa difficile da mettere a tacere.
Ogni tentativo di fuga è inutile, superfluo.
Tanto vale aspettare l'annullamento fisico e spirituale nella Grotta Magica.
Von Trier continua a disegnare traiettorie cinematografiche nuove  nel suo film forse più immediatamente intellegibile, almeno nell'assunto di partenza.
E'evidente che considera la diafana Dunst come il suo alter ego e come lei pensa che dopo di noi ci sarà il nulla.
La prova dell'attrice americana è notevole, inaspettata, ma rimane nel cuore lo sguardo atterrito di Charlotte Gainsbourg e la sua travagliata fragilità, un filo d'erba in balia del vento.
Doveva essere premiata anche lei.
Melancholia si riallaccia ai capolavori della fantascienza adulta, filosofica del passato, ricalca le orme di Tarkovskij (Lo specchioSolaris e il suo oceano pensante) ma si richiama   anche alla cosmogonia malickiana di The tree of life.
Sovvertendola.
La scienza è impotente, Melancholia, il pianeta,  diventa sempre più grande in un cielo sempre più piccolo.
L'apocalisse . Un flash. Dissolvenza in nero di tutto quello che abbiamo avuto fino a un nanosecondo prima.
Von Trier è essere umano assolutamente detestabile.
Ancora non riesco a spiegarmi come un uomo tanto piccolo riesca a fare del cinema così grande.
Volenti o nolenti è uno degli ultimi grandi Autori.
Al giorno d'oggi si parla di Chaplin, di Kubrick, di Kurosawa, di Dreyer o di Murnau.
Tra una cinquantina d'anni uno dei pochi nomi che sarà citato del cinema di questi anni sarà proprio quello di Von Trier.
Nonostante lui e il suo cinema siano odiati da tre quarti di mondo.

( VOTO  8,5 / 10 )
Melancholia (2011) on IMDb

mercoledì 30 maggio 2012

Another Earth ( 2011 )


Io continuo ancora a domandarmi quali aberranti (il)logiche regolino i nostri canali distributivi per quanto riguarda i film da mandare nelle sale cinematografiche. E, siccome pare che l'intelligenza di una pellicola non sia requisito fondamentale ma un semplice optional(che se non c'è è pure meglio), non dovrei continuarmi ad indignare per pellicole di valore che escono nei nostri cinema solo nominalmente, perchè in realtà sono uscite virtuali. E io invece ogni volta mi indigno.
E' il caso di questa piccola produzione statunitense, Another Earth, che sotto la patina della fantascienza distopica ( e quella Terra-Due  che diventa sempre più grande in un cielo sempre più piccolo che la trattiene a stento, conferisce alla pellicola un aspetto molto melancholico, anche se bisogna sottolineare che il film di Von Trier è posteriore a questo) racconta una storia d'amore, di elaborazione del lutto e di senso di colpa che, ineluttabile,  avvolge tutto.
E' placido, silenzioso eppure ti entra subito dentro questo film dall'aspetto sundancesco . L'evidente economia di mezzi con cui è stato realizzato  evidenzia ancora di più la sostanza del dolore lancinante che , come una morsa, stritola i cuori dei due protagonisti.
Terra-Due o l'Another Earth è la speranza che lassù esista un mondo finalmente perfetto, è la volontà di resettare tutto in un'immaginaria macchina del tempo e teletrasportarsi esattamente nel momento prima che il fattaccio accada.
Another Earth è il sogno di una seconda possibilità che tutti dovrebbero avere.
L'esordiente (o quasi ) Mike Cahill riesce con poche pennellate a portare avanti la storia su più binari, alcuni destinati a incontrarsi, altri a rimanere paralleli all'infinito, forse.
 E si disinteressa degli aspetti scientifici della questione. Del resto due pianeti così vicini porterebbero delle conseguenze enormi l'uno sull'altro che in questo film non ci sono.

Rhoda cerca assolutamente un modo per espiare la colpa che la corrode da dentro e una volta che vede da vicino e tocca con mano che cosa è diventata la vita di John, uomo privato della certezza della sua famiglia ( una moglie incinta e un bimbetto di cinque anni) che trascorre la maggior parte del suo tempo nella sua enorme  casa isolata ridotta a una specie di discarica. Vive come un eremita a sfondarsi il fegato per non ricordare.
Anche la vita di Rhoda da quella sera non è più la stessa: da brillante studente di astrofisica si ritrova a fare la pulizie in una scuola, un avvenire opposto a quello che si stava aprendo per lei.
Cerca di ridare a John un brandello di  felicità o forse cerca solo di alleggerire il senso di colpa che la sta devastando.
Another Earth non è solo un film sci-fi , non è solo melò, non è solo dramma esistenziale. E' un po' tutte queste cose e forse risiede qui il suo fascino.
Il suo spunto ricorda quello di un episodio della prima , mitica stagione di  Spazio 1999 ( Un altro tempo, un altro luogo) ma ancora di più un cultissimo del 1969, Doppia immagine nello spazio (Doeppelganger) in cui un astronauta era inviato in missione sul pianeta appena scoperto,gemello alla Terra. E lo trova così uguale eppure così sottilmente differente. Del resto   gli sceneggiatori di questo film erano gli stessi Gerry e Sylvia Anderson che avevano creato anche Spazio 1999. Erano evidentemente affascinati dal tema del doppio e dello sdoppiamento.
Ma ci sono tante altre citazioni: persino libri di Asimov sulla scrivania di Rhoda tanto per dare colore a un film che intenzionalmente se ne priva (metaforicamente) per descrivere due vite allo sbando.
Se qualcuno di domandasse se a Terra -Due se ne stanno con le mani in mano ad aspettare , beh prima della fine del film troverà le sue risposte.
Una nota di merito per i due protagonisti, la bellissima Brit Marling , anche sceneggiatrice , che riesce a far tracimare dallo schermo la sua angoscia con un semplice, intensissimo sguardo, e per William Mapother, impegnato in fiction televisive più che altro, che tira fuori dal cilindro una prova rimarchevole.

( VOTO : 8 / 10 )

Another Earth (2011) on IMDb

martedì 29 maggio 2012

E Johnny prese il fucile ( 1971 )

L'apologo antimilitarista più sconvolgente che abbia mai visto. La storia di un torso umano senza braccia, nè gambe, con un buco al posto della faccia ma vivo per miracolo e a cui è negato l'unica sua aspirazione, la morte. Solo per propaganda.
Non lo so se quello che vedevo era definibile come ira. Forse si, forse no. Ma ho sempre pensato che lo fosse. Urla disperate, il tentativo impossibile di muoversi, di fare qualcosa, di ribellarsi oppure la richiesta compulsiva di morire scandita con l'alfabeto Morse. E la rabbia quando tutto questo era inutile. Le urla erano lancinanti eppure non potevano oltrepassare i confini della sua testa. 
Urla disperate, rabbiose ma silenziose. 
All'inizio forse mi attirava il contesto del film, magari mi aspettavo immagini raccapriccianti ( o forse ci speravo) ma nel film non ce ne sono. E' tutto il film che è uno shock continuo per il dolore che lo permea. Ho visto e rivisto tante volte quelle immagini così luminose e colorate che  contrastavano con il buio del bianco e nero del resto del film, quel padre che mi sembrava senza cuore mentre esibiva come un trofeo " l ' unico pezzo di carne che vive"  come lo definiva lui. 
Suo figlio. 
All'inizio non avevo colto il messaggio insito in questa tetra rappresentazione. Rivedendo e riascoltando poi questa e altre sequenze del film quel messaggio quasi ti schiaffeggia. E mi ha sempre colpito l'estremo contrasto tra la violenza evidente di tutti coloro sono vittime di accessi di ira, di tutti coloro sono percorsi da un moto di rabbia che  arriva a farti fremere fino all'ultima delle giunzioni neuromuscolari, gesti comunque tangibili e la rabbia necessariamente  silenziosa provata dal soldato Joe Bonham che non può essere associata a nulla. Al massimo al movimento compulsivo della testa. Una testa coperta da un pietoso panno che lascia intravedere solo i capelli. Del resto c'è poco altro da far vedere . 
Il soldato Johnny non ha braccia ( " Non potete andare in giro a tagliare braccia alla gente, non sono rami di alberi " ), non ha gambe, ha un buco al posto della faccia, non ha lingua nè denti. La sua rabbia deriva dall'impossibilità di comunicare con l'esterno all'inizio e poi dal mancato accoglimento delle sue richieste. Morte o esibizione macabra come monito contro tutte le guerre. E ' rinchiuso dentro un involucro, da nascondere nella stanza dove si mettono gli attrezzi. Pure in un ospedale. 
Potrei fare il figo e dire che io questo film lo conosco perchè ho studiato la carriera di Dalton Trumbo, i suoi problemi col maccartismo, perchè ho letto la sua biografia, i suoi libri o le sue sceneggiature. No, nulla di tutto questo.
 Io, E Johnny prese il fucile l'ho scoperto con un video musicale. Il video di One dei Metallica. Il primo videoclip mai realizzato da loro. E parliamo del 1989. Parliamo di quattro metallari all'epoca già milionari che comprarono parte dei diritti di autore per usare le immagini del film per il loro video. Parliamo di un video che ha permesso la riscoperta di un film altrimenti dimenticato e sconosciuto a molti, presente negli archivi delle televisioni ma passato solo ad orari impossibili per la sua ancora intatta capacità di sconvolgere. Una seconda giovinezza data a un film di un autore unico che magari da lassù ha salutato l'evento alzando il bicchiere in segno di brindisi.

( VOTO: 9 / 10 ) Johnny Got His Gun (1971) on IMDb

lunedì 28 maggio 2012

Piccoli omicidi tra amici ( 1994 )

Io se incontrassi uno come Danny Boyle, cioè uno baciato dal dio del cinema e da mamma Natura insieme appassionatamente per dargli un talentaccio incredibile con la cinepresa in mano, credo che lo sottoporrei seduta stante a una cura Ludovico espressa a base di mazzate da baseball nelle rotule. Così , simpaticamente, come direbbe quell'illuminato statista di Borghezio.
E questo perchè accanto a film che hanno fatto girare la testa a più di uno ha fatto delle cazzatelle inguardabili, che hanno fatto girare qualcosa d'altro a chi le ha guardate dall'alto della loro tronfia presunzione. E ci è riuscito pure a lucrare qualche Oscar, gabbando l'Academy con il suo stile finto gggiovane.
Però c'è stato un tempo in cui il suo stile è stato giovane per davvero. E parlo dei suoi inizi al cinema dopo una lunga gavetta .
Perchè Danny Boyle non è un esordiente come gli altri. Arriva al cinema a 38 anni dopo una marea di roba televisiva. Quindi non è esattamente un giovanissimo allo sbaraglio o peggio ancora uno sprovveduto.
Piccoli omicidi tra amici ( Shallow Grave) è il suo esordio cinematografico, un film che è un concentrato di alte citazioni e basse pulsioni, una storiaccia di morte, vendetta e malloppo che nel finale si trasforma inopinatamente in un terrificante slasher da camera.
Apologo del potere mistificatorio che il denaro ha sulle coscienze( oltre che sulle amicizie ) e interpretato da un terzetto di giovani attori in grado di dare il giusto colore ai propri personaggi , Piccoli omicidi tra amici è caratterizzato anche da un'ironia nera, nerissima, bastarda che viene fuori nelle scene più efferate.
Inoltre a differenza di tanto cinema affetto da buonismo dilagante è dotato di un finale sapidamente immorale.
Sarà perchè all'inizio è facile empatizzare i protagonisti ( anche perchè nella seconda parte del film Ecclestone terrorizza con il suo scivolamento rapido nella follia provocata da un mefistofelico mix tra senso di colpa e avidità), sarà perchè i personaggi dei poliziotti sono di un'antipatia spaventosa, ma non disturba un finale che va in una direzione opposta a quella della morale del buon cittadino.
In fondo stiamo parlando di un balletto ladresco macabro.
Inutile cercare la verosimiglianza perchè non ce n'è: i tre occultatori di cadaveri sono maldestri e così incapaci che è impossibile che la polizia non li scopra come invece li trovano i complici ( tra i due si riconosce un arrabbiatissimo Peter Mullan) del defunto padrone della valigetta coi soldi che si ritrovano in casa, ma sinceramente poco importa.
A Danny Boyle interessano le dinamiche tra i tre amici innescate da quel mucchio di  soldi che permetterebbe loro di cambiare definitivamente le vite grame che li contraddistinguono.
Rapporti umani totalmente scompaginati in una corsa folle a derubarsi l'uno con l'altro.
Piccoli omicidi tra amici è un film molto più costruito di quello che sembra, in bilico costantemente tra vari generi, dalla commedia al grottesco, dal noir fino ad arrivare all'horror grazie anche a un uso creativo del montaggio e delle musiche.
L'umorismo al vetriolo c'è già tutto e lo ritroveremo più avanti nei suoi film migliori.
Una piccola curiosità : pur essendo ambientato ad Edimburgo, il film è stato girato nella sua quasi totalita a Glasgow e dintorni.
Questione di finanziamenti.

( VOTO : 7,5 / 10 ) Shallow Grave (1994) on IMDb

domenica 27 maggio 2012

Nacho Cerda's Death Trilogy ( 1990-1994-1998 )


Dopo aver inaugurato la stagione del 2 X 1 con la recensione di Loft del belga Erik Van Looy con annesso remake olandese, oggi inauguriamo la stagione del 3 X 1 con The Death Trilogy ( La trilogia de la muerte ) cioè la raccolta di cortometraggi ( The Awakening 1990, Aftermath 1994, Genesis 1998 ) di Nacho Cerdà, ex enfant prodige della scena horro spagnola.
1) The Awakening: corto di 8 minuti in bianco e nero, senza dialoghi in cui uno studente si addormenta in classe durante una lezione ( il professore è interpretato dallo stesso Nacho Cerdà) e scopre , prima da alcuni particolari ( il tempo per gli altri si è fermato , per lui no) e poi per averne diretta visione che il suo non è stato un semplice colpo di sonno.
Girato con pochissimi mezzi è un saggio di fine corso che ha il merito di riuscire a mettere a disagio lo spettatore in pochissimi istanti.Il mistero che sta alla base di tutto viene svelato gradualmente aggiungendo a ogni inquadratura piccoli particolari che riescono a essere inquietanti anche solo per il modo in cui la cinepresa si posa su di loro( tipo gli orologi).
SPOILER-SPOILER-SPOILER-SPOILER del resto è insita nell'uomo la domanda sul cosa c'è oltre la morte e questi pochi minuti cercano di dare una risposta. Altro capitolo toccato è quello delle esperienze extracorporee , quelle in cui qualcuno percepisce di trovarsi fuori dal proprio corpo mentre altri si stanno affannando per cercare di salvarne la vita. La luce in fondo al tunnel insomma , ma in The Awakening è qualcosa di leggermente diverso.FINE DELLO SPOILER-FINE DELLO SPOILER-FINE DELLO SPOILER.
2) Aftermath: se nel primo corto Nacho Cerda usava in punta di fioretto l'arma della suggestione, in Aftermath, corto a colori di 32 minuti circa, senza dialoghi, usa decisamente la sciabola. Nulla o quasi è lasciato all'immaginazione nella visualizzazione del lavoro in una sala autoptica. All'inizio tutto normale , si fa per dire, poi quando uno degli operatori rimane solo con un ultimo cadavere da dissezionare, quello di una giovane donna, è un crescendo di aberrazione fino ad arrivare alla necrofilia. La cinepresa di Nacho Cerdà infrange tabù uno dietro l'altro e anche nel finale c'è una volontà assoluta di creare shock e disgusto. Il regista ci parla della sua visione della vita attraverso la morte, i cadaveri che sono distesi su quei freddi tavoli metallici stanno per essere tagliati in tutti i modi ( quando va bene) o addirittura profanati con crudeltà assoluta. Quei corpi distesi, inermi, nudi , in cui non circola più l'afflato vitale sembrano lo stesso così vulnerabili. Anche se biologicamente non più vivi.

Si rimane impietriti a guardare Aftermath perchè è praticamente impossibile pensare a qualcuno che possa arrivare a tale grado di abiezione e di psicopatologia. Oltre a farci ritornare in mente che alla fine forse è meglio ritornare alla polvere da dove siamo venuti.
C'è una componente che manca a questo corto per renderlo "definitivo", ma non è colpa di Nacho Cerdà, il cinema è inadatto a fornire un'esperienza di questo tipo: manca l'odore.
Chi è entrato in una sala autopsie sa di che cosa parlo: l'odore di morte ti accoglie e ti si avvolge intorno come un indesiderato sudario.E' qualcosa di indescrivibile ma di ben palpabile, qualcosa che non ti abbandona neanche a tanti anni di distanza.
3) Genesis: corto a colori di 31 minuti circa, anche questo senza dialoghi, vincitore di diversi premi nei Festival specializzati. Ancora il ciclo della vita e della morte che sembra aver stregato il regista spagnolo: uno scultore sta creando il suo capolavoro, la scultura di una donna bellissima, sua moglie, che vediamo all'inizio del  corto assieme a lui in brani di filmini amatoriali di famiglia. L'ha persa in un incidente di macchina. E lui ne fa una statua.
Una scultura sanguinante a cui evidentemente vuol dare una vita anche a costo di perdere la propria.
Tra Frankenstein, le sculture di carne di Cronenberg e trasformazioni (in) umane mutuate da Tetsuo di Shinya Tsukamoto(  qui lo scultore non si trasforma in metallo ma viene progressivamente coperto da una specie di scafandro di marmo), Cerdà indaga ancora sul confine che è situato tra la vita e la non-vita e di quanto possa essere inteso in maniera elastica questo limitare.

Genesis più che un horror è un melodramma struggente e disperato.
 SPOLER SPOILER SPOILER SPOILER Lo scultore rivuole la sua amata anche a costo della propria vita e quello che avrà sarà solo un ultimo sguardo prima di essere tramutato definitivamente in marmo. Quello che rimane impresso di questo film è proprio quell'occhio spalancato, disperato che si nutre per un attimo della visione di lei prima di precipitare nell'oblio definitivo sotto una corazza marmorea incompatibile con la vita. FINE DELLO SPOILER FINE DELLO SPOILER FINE DELLO SPOILER
In questi tre cortometraggi senza dialoghi ( perchè secondo Nacho Cerdà la morte è silenziosa ed esige silenzio) si nota un processo di imponente maturazione nello stile del regista. E la scelta di non utilizzare la parola scritta rende ancora più evidente il talento del regista spagnolo che con semplici movimenti di macchina riesce a essere molto più espressivo che utilizzando delle battute di dialogo.
Da sottolineare in Aftermath e in Genesis la prova di Pep Tosar(presumo fratello maggiore di Luis Tosar, i due si assomigliano molto e hanno lo stesso sguardo) , protagonista in entrambi i corti. Interpretazione superba la sua , visto che solo con le espressioni degli occhi o poco altro riesce a evidenziare   con misura i vari stati d'animo di personaggi che , recitati in modo non appropriato o eccessivo, sarebbero scivolati facilmente nella caricatura.

( VOTO : 7 / 10 )

sabato 26 maggio 2012

Fucking Amal ( 1998 )



C'è una fottuta Amal in ogni luogo.Una cacca di mosca su una cartina ma capace dir racchiudere quelle classiche storie larger than life. E il film di Lukas Moodysson ne racconta una, senza alcuna pretesa sociologica ma solo con la cinepresa piazzata nel punto giusto. Questa è la storia di Agnes, solitaria che divide i suoi segreti e le sue poesie col fido computer. Ed è anche la storia di Elin, bionda, bassina, fianchi larghi e polpacci da terzino. Eppure è carina , è estroversa, la più concupita della scuola.
 Agnes ama Elin. La sua illusione ansiosa corre veloce sui tasti del computer quando fantastica su di lei e su di loro, insieme. Elin invece non lo sa chi ama. E'la ragazza più desiderata di tutta la scuola, una di quelle che vengono anticipate dalla propria reputazione, ragazzi ai suoi piedi al suo schioccar di dita. E tra coloro che sono ai suoi piedi c'è anche Agnes. Tutto sta ad accorgersene. Elin la bacia per gioco e se per Agnes le quattro mura della sua camera diventano sempre più opprimenti perchè incurvate dal peso degli interrogativi, per lei invece sembra diventare tutto più chiaro. Perchè ha sentito qualcosa di diverso. La porta del bagno chiusa. Fuori si raccoglie una piccola folla di studenti curiosi che fantasticano su chi ci sia chiuso dietro quella porta assieme a Elin. I nomi sfilano rapidi e vengono esclusi uno a uno ma la porta resta sbarrata. Arriva un professore. Cerca di riportare un pò di calma. Dentro quel bagnetto angusto Elin ed Agnes si parlano,si guardano negli occhi,quella che fino a qualche tempo prima era la biondina più in vista di tutta la scuola ora ha lo sguardo basso mentre cerca di dichiarare quello che prova alla persona di cui si è invaghita,quasi balbettando.
"Elin, è vero quello che  hai detto prima?" le dice Agnes quasi con tono inquisitorio. Vuole una risposta definitiva.
Elin abbassa lo sguardo, appare timida come non è mai stata, forse confusa eppure le risponde
"Certo...".
E'abbastanza. 
Agnes con dolcezza le ravvia una ciocca di capelli biondi ribelli. Un gesto tanto piccolo quanto intimo. Ora sono pronte per affrontare il mondo là fuori . 
Insieme.
La porta si apre piano e appare Elin con faccia trionfante, un sorriso che le accende il bel viso e presenta a tutti la sua nuova ragazza , Agnes. 
Non un trofeo ma il suo orgoglio,una conquista. E con quella l'illusione, ancora lei parola canaglia, che l'omofobia che percepiscono avvolgerle come intossicante cappa di zolfo venga d'incanto spazzata via. La loro illusione è stata tante volta anche la mia. L'amore non dovrebbe mai essere nascosto. Eppure anche se siamo nella fottuta Amal la storia di queste due adolescenti può essere il paradigma di una liberazione. Il futuro è scritto nel fondo di un bicchiere di latte con cioccolato. Forse Elin lo fa troppo forte. 
Ma Agnes gradisce, lei anela solo alla normalità di tutti i giorni senza che nessuno riesca a rendere torbido il loro sentimento.
Un ottimo punto di partenza per tutte le Agnes e le Elin di questo fottuto mondo....

( VOTO : 10 / 10 )


Show Me Love (1998) on IMDb

Carancho ( 2010 )

La morte corre su gomma in Argentina e accanto alla mattanza su strada (100 mila morti in 10 anni) è fiorita l'industria delle associazioni che permettono alle vittime di incassare risarcimenti dalle assicurazioni (pagando naturalmente commissioni salatissime) e quella dei legali che cercano di ottenere il mandato dai parenti di  queste vittime di incidenti. 
Magari cogliendoli nel momento di maggior debolezza e facendosi firmare una procura per rappresentarli.
Una firma praticamente rubata. Degli avvoltoi legalizzati che frugano nella spazzatura muovendosi ai margini della legge, dei caranchos per ritornare al titolo.
Sosa è uno di loro a cui hanno tolto la licenza (non sappiamo per quale motivo). Deve soldi a un suo "datore di lavoro" perchè ha voluto mettersi in proprio e costui non lo ha perdonato. Non perde neanche occasione di ricordargli il debito facendolo malmenare dai suoi scagnozzi.
Sosa conosce Lujan , dottoressa del pronto soccorso e tra loro due scatta subito qualcosa.
Ma Sosa ha ancora un affaruccio in ballo con Vega , un suo amico. 
E quello che doveva essere un banale incidente per spillare un pò di soldi all'assicurazione si trasforma in una tragedia gettando ombre sulla storia con Lujan.
Il passato però torna a perseguitare Sosa ed è inevitabile che ci vada di mezzo anche la donna.
Forse stavolta l'uomo è coinvolto in qualcosa più grande di lui.
Su un'ossatura da noir americano anni '50 (antieroe, amore e malloppo) Trapero costruisce un ibrido di fascino assoluto in cui i generi cinematografici vengono traslati in qualcosa di diverso. E'un film complesso, stratificato che descrive compiutamente il dramma della sorda disperazione di Sosa (personaggio oserei dire quasi scorsesiano) che trova in Lujan un'ancora di salvezza, la vita di Lujan che cerca di accaparrarsi più lavoro possibile per dimenticare forse il vuoto della sua vita affettiva (e per dimenticare meglio usa anche droghe), il loro amore che sfocia nel melodramma dettato dalla apparente banalità di due solitudini che si incontrano per salvarsi l'una con l'altra.
Da ricordare anche un pugno di sequenze molto realistiche nelle Emergency Rooms dell'ospedale, il dramma delle famiglie private dei loro cari, la sordida avidità di questi avvocati luciferini che badano solo al proprio tornaconto calpestando senza rimorsi il dolore altrui.
Il finale è a tinte noir cupissime, orchestrato e montato come meglio non si potrebbe, così ben realizzato che farebbe invidia anche alle factories hollywoodiane.
Carancho è un film che descrive il torbido alla base di una società argentina corrotta un pò a tutti i livelli ed è allo stesso tempo un ritratto fervido di una storia d'amore che nasce dalla banalità del quotidiano, senza gesti eclatanti. Due sguardi che si incrociano, un giochetto stupido, il rientro insieme a casa già abbracciati e il risveglio la mattina dopo come se fossero una coppia già rodata dagli anni.
Carancho è una pellicola che si nutre dello squallore delle periferie e della polvere degli ufficetti legali in cui persone senza scrupoli si arricchiscono con la morte altrui.
Fingendo anche la costernazione.
I personaggi del film di Trapero sono autentici,vivi, assolutamente credibili.
Da rimarcare l'eccezionale prova del grande Ricardo Darin (ancora più convincente che ne Il segreto dei suoi occhi) e la prova di Martina Gusman(moglie del regista e produttrice del film) ,uno sguardo che non si dimentica tanto facilmente.
Quale sarà il segreto dei suoi occhi?

( VOTO : 8 / 10 ) Carancho (2010) on IMDb

venerdì 25 maggio 2012

Un cuore in inverno ( 1992 )

Un cuore in inverno , penultimo film di quel sublime cesellatore di geometrie sentimentali che rispondeva al nome di Claude Sautet è uno dei film della mia vita. Forse E' il film della mia vita. Visto quasi distrattamente quando uscì al cinema mi colpì a scoppio ritardato. Più passavano i giorni e più ci pensavo. E mi accorgevo giorno per giorno che avevo visto qualcosa che avrebbe cambiato per sempre il mio modo di apprezzare il cinema. Amo da questo film Daniel Auteuil, conoscevo già la Bèart ma in questo film mi trapassò letteralmente con la sua bellezza sconvolgente, ero già innamorato di Parigi e della Francia.
In tutti questi anni l'ho rivisto non so quante volte e ogni volta lo riassaporo voluttuosamente come se fosse la prima volta. Ogni volta a immaginarmi in quel bistrot parigino davanti a Stephane e Camille.
O anche da solo davanti a lei.



L’amarezza si legge a chiare lettere nello sguardo di Camille, nei suoi occhi sottolineati da un tratto eccessivo di trucco, nella sua fronte aggrottata, nei suoi movimenti nervosi, nella sua voce che si incrina, nelle sue parole aggressive. È una donna ferita nell’orgoglio perché ama e non è riamata. Di fronte a lei Stephane sembra quasi appartarsi nel suo silenzio, giusto qualche sillaba a voler infrangere la furia beluina di Camille. Pallide giustificazioni, un gioco a mostrare e nascondersi. Un tentativo di seduzione appena accennato.
Ma se era un gioco, allora bisognava andare fino in fondo. Dovevi scoparmi!” gli grida Camille.
Lo chignon le trattiene a stento i capelli, una ciocca ribelle le ricade rabbiosa sulla fronte, la bocca rosso fuoco risalta ancor di più. E Stephane lì di fronte a lei espone il suo cuore in inverno. Che non sanguina. Due minuti di film che valgono intere filmografie, una cinepresa che accarezza i volti e fa assaporare l’atmosfera del bistrot parigino affollato in cui avviene il rendez vous. Sul tavolo due bicchieri di vino che nessuno toccherà mai. Quante volte ho riguardato questi due minuti, quante volte li ho consumati con gli occhi e immaginati diversamente, che cosa avrei dato per essere io lì di fronte a Camille a confortarla, a prendere le sue mani tra le mie, a sfiorare appena il suo viso angelico solo per smorzare quello spirto guerrier che entro la rugge. In quegli occhi sarei annegato molto volentieri, quei capelli li avrei accarezzati fino alla fine del tempo. Se in un’altra dimensione esistesse questa Camille io sarei lì al suo fianco a darle tutto l’amore di cui ha bisogno. 
Lo stesso bistrot in un momento diverso. 
Due tazzine di caffè in attesa di essere consumate. Stephane è seduto, arriva Camille. Stavolta è serena, riconciliata apparentemente con se stessa. Due parole di circostanza e un saluto. Un bacio sulla guancia e dalla macchina i grandi occhi di Camille lo fissano memori di tutto il passato che lei e Stephane non sono mai riusciti a vivere assieme. Adesso Stephane è solo e l’amarezza stavolta cala come un velo ad opacare il suo sguardo mentre nella via di fronte al bistrot la vita scorre sempre uguale a se stessa, la gente affannata disegna traiettorie casuali davanti alla vetrata. Attraverso quel vetro Stephane scruta i fantasmi del suo passato che tornano e nel frattempo vede allontanarsi la sua unica speranza di felicità. Arriva il rimpianto. 
La settimana dopo Camille e il suo violino saranno a Parigi. 
Chissà...

( VOTO : 10 / 10 )
Un Coeur en Hiver (1992) on IMDb

The Alzheimer Case ( 2003 )

The Alzheimer Case ( titolo internazionale alternativo The memory of a killer, titolo originale De zaak Alzheimer) è un film belga targato Erik Van Looy che si situa tra il torbido thriller americano e il noir francese di cui , anche per ragioni geografiche, riprende alcune tonalità.
Introdotto da un incipit adrenalinico in cui un malvivente sta vendendo per farla prostituire sua figlia a un tizio che si rivela essere un poliziotto, il film poi si snoda attraverso una storiaccia di vendetta  e d'onore, oltre che di ripercussioni sulle alte sfere( anche della polizia).
L'onore però è quello del killer, il marsigliese Angelo Ledda , macchina di morte praticamente infallibile a dispetto di un'età non più verdissima che, noleggiato per un lavoro che metta a tacere un certo scandalo, si rifiuta di eseguire l'omicidio della bambina dell'incipit, ora più cresciuta, ma sempre minorenne.
Come nei film di Melville anche i sicari hanno un codice d'onore. In certi casi anche più sviluppato di quello dei poliziotti.
Il problema è che la ragazzina viene fatta fuori da un "collega" con meno scrupoli di Angelo e lui si arrabbia. Moltissimo, al punto da pianificare un massacro.
Angelo si annota indirizzi e numeri di telefono sugli avambracci, ha sempre con sè delle pillole che gli servono quando le sue connessioni cerebrali cominciano a scricchiolare, tende a dimenticare le cose.
Ha l'Alzheimer.
Il film di Erik Van Looy è un thriller di robusta fattura , immerso totalmente nelle logiche di genere senza tante complicazioni esistenziali (la coscienza di Ledda viene fuori solo con la bambina, altrimenti è spietato) che non ha la raffinatezza di linguaggio delle scatole cinesi di Memento o le coreografie stilizzate di Vendicami di Johnnie To.
Ha un'eccellente costruzione della suspense, ottime scene action ( da manuale della suspense l'assalto del killer alla casa fortino dove è rinchiuso il "Barone" protetto da tre poliziotti) e un personaggio principale, l'Angelo Ledda interpretato dall'esperto e bravissimo Jan Decleir, che buca letteralmente lo schermo con la sua faccia che sembra rubata al monte Rushmore e il suo fisico non esattamente scolpito ma assolutamente efficiente.
Il problema è quella dannata malattia.
Ambientato ad Anversa ( ben lontana dallo stereotipo turistico anche se un tassista ci rende edotti sul fatto che sia molto più bella di Bruges) tra periferie semiabbandonate, castelli bunker e interni di uffici giudiziari, The Alzheimer Case si muove con stringente efficacia su vari piani narrativi che confluiranno in un finale magari scontato ma assolutamente ben congegnato: l'indagine poliziesca, gli intrighi per nascondere le persone importanti coinvolte, il furente one man show di Ledda che, abituato sempre a risolversi le questioni da solo, cerca di assicurare i colpevoli alla sola giustizia che riconosce.
Quella divina.
E' lui l'arma vincente di questo film che tiene incollati alla poltrona dal primo all'ultimo minuto.
E'un peccato che una pellicola valida e dall'appeal commerciale come questa non abbia avuto la diffusione che meritava.

(VOTO : 8 / 10 )

The Memory of a Killer (2003) on IMDb

giovedì 24 maggio 2012

Il ragazzo con la bicicletta ( 2011 )

Prosegue il viaggio del cinema dei Dardenne verso l'omologazione estetica a modelli più vicini al mainstream.
E' già da Il matrimonio di Lorna che si avvertiva un bisogno da parte dei fratelloni belgi di  levigare l'aspetto formale con un film molto più "scritto" e "recitato" di quanto avessero fatto prima.
Tutto tra virgolette perchè è chiaro che non era snaturato il loro stile.
Ne Il ragazzo con la bicicletta , se  troviamo una certa continuità nel discorso sociale, visivamente si avverte uno scarto notevole con tutto il loro cinema precedente.
Non più le fredde e incolori periferie ma quartieri residenziali, parchi verdi e luminosi, un contesto non così aspro e disumanizzante come nella maggior parte delle opere precedenti.
E se prima l'adolescenza e l'infanzia erano le sole vittime dei meccanismi diabolici prevaricatori innescati dal disagio socio economico, in questo film la soluzione sembra radicalmente cambiata.
Troviamo sempre un padre degenere che decide che per lui è meglio non avere più contatti con il figlio ( e gli vende pure l'amatissima bicicletta), ma stavolta il figlio, Cyril, non decide di starsene con le mani in mano a fare semplicemente la vittima perchè chiuso in una specie di orfanotrofio (in cui è trattato benissimo) , ma vuole testardamente ritrovare il padre con cui ha più un rapporto.
O forse non l'ha mai avuto.
E la bicicletta è il simbolo dell'ultimo contatto che ha avuto con lui.
A piedi o a cavallo del suo destriero ruotato ( ricomprato per lui da Samantha, parrucchiera che decide di curarsi di lui) Cyril fugge continuamente dalla sua residenza forzata per trovarsi faccia a faccia con un padre probabilmente più immaturo di lui , sente il bisogno fisico di sentire il rifiuto da parte del genitore.
La sua strada è lastricata naturalmente dai soliti brutti incontri , da amicizie che è meglio perdere che trovare ma grazie a Samantha , che è la vera vittima consapevole di questo film in quanto Cyril ne combina di tutti i colori, riuscirà a trovare un suo baricentro per vivere serenamente.
Forse.
Il ragazzo con la bicicletta è sicuramente il film più "riconciliato" dei Dardenne, ha uno sguardo meno rancoroso verso il degrado sociale che qui appare solo lateralmente , addirittura la fotografia di Alain Marcoen , loro collaboratore di lunga data, indugia sui colori saturi dando al film una luminosità fino ad ora sconosciuta nella carriera dei cineasti belgi.
E visto che siamo in tema di novità addirittura compare un breve abbozzo di colonna sonora ( Beethoven) usata per sottolineare in modo discreto un paio di snodi importanti della pellicola. Per non parlare della scelta di Cecile de France, una (quasi) diva del cinema francese, che accetta di essere la squisita spalla del giovane e bravissimo Thomas Doret nella parte di Cyril , un rosso malpelo di un'incontenibile tenacia.
Sembra che con questa loro ultima opera i Dardenne abbiano voluto rispondere a coloro che sostenevano ( e sostengono tuttora) che il loro cinema sia rimasto uguale a se stesso durante gli anni.
Il ragazzo con la bicicletta è un film che pur ancorato al loro passato ( il cast tecnico è lo stesso , così come quello attoriale in cui compaiono vecchi amici come Olivier Gourmet , Fabrizio Rongione, Jeremie Renner e tante altre facce familiari del loro cinema nelle parti minori) risponde a un'esigenza di progresso nel loro cinema con poche ma significative variazioni .
Non ultimo un finale molto più ottimista del solito.
Inutile sottolineare che anche con questo film ( convincente ma certamente non il migliore della loro carriera) i Dardenne sono passati a ritirare il premio alla cassa in quel di Cannes....

( VOTO : 7+ / 10 ) The Kid with a Bike (2011) on IMDb

mercoledì 23 maggio 2012

Quella casa nel bosco ( 2012 )


Fammi sapere di che orrore vuoi morire e ti dirò chi sei.
Che Joss Whedon non sia un tipetto banale credo che ormai sia assodato da qualunque parte del globo terracqueo. Nel campo della vampirologia teen, della sci fi umanista ma non troppo, della supereroilogia collettiva ha dato prova di sè come omino che fa  funzionare egregiamente  tutti gli ingranaggi e le ruote dentate che ha nascoste tra le cellule grigie.
Ed è il caso anche di questo The Cabin in the Woods, tradotto efficacemente dal titolista italiano, probabilmente in maniera del tutto involontaria.
Un titolo così sfacciatamente sfruttato e abusato è perfetto per il discorso metaorrorifico che Whedon col suo complice, Mr Cloverfield  ovvero Drew Goddard anche regista, intraprende per questo film che definirei Open Space, perchè come nelle più avanguardistiche dimore moderne è tutto rigorosamente a vista.
Il meccanismo attorno al quale è incardinato il film è mostrato allo spettatore, reso per questo complice, anche nei dettagli e rischiarato il giusto da uno spiegone finale che comunque riesce a lasciar fuori un ultimo colpo di scena.
E' manichea la divisione in due ambienti , uno bianco per le impersonali luci al neon che lo illuminano, tecnologizzato a tal punto che  sembra una stazione di controllo spaziale,l'altro neo, buio, sporco , brutto e squallido rappresentato da una baita nascosta in un bosco che rimanda subito alla fenomenologia delle case infestate di raimiana memoria. Sappiamo subito che quello che sembra un laboratorio ha controllo totale di quello che succede nell'altro ambiente.
Anzi ha anche il potere di far accadere cose grazie a piccoli accorgimenti farmacologici ( feromoni e droghe varie) e a una botola che rappresenta l'archetipo del mistero e della paura racchiuso nelle viscere della casa ( un po' come in The Hole di Joe Dante).
Una botola che in realtà è una galleria di  simboli e di mostri rappresentativi di un certo tipo di orrore.
Nella casa ci sono cinque ragazzi che simboleggiano lo stereotipo dei classici teen da film horror: non particolarmente furbi e con una pericolosa tendenza a commettere stupidaggini, carne da macello in pronta consegna.
Anzi sono talmente aderenti allo stereotipo che sono suggestivi della volontà degli sceneggiatori di usarli come simbolo della piatta cinematografia horror di questi ultimi anni letteralmente invasa di fauna umana di questo tipo.
E allora è chiaro l'intento parodistico degli autori che sfruttano i clichet tipici del genere (casa infestata, classici protagonisti da slasher, addirittura il tutto calato in una perfetta simulazione di horror anni '70-'80 a partire dai titoli di testa) non come cifra stilistica definitiva ma solo come punto di partenza per un discorso cinematografico più articolato e complesso.
Perchè è pacifico che Quella casa nel bosco non sia un film perfettamente compiuto ma un puzzle in continuo divenire.
Forte di una intelaiatura visiva convincente e di una struttura a scatole cinesi che progressivamente si aprono proponendo continuamente nuovi misteri, il film  è una sorta di cubo di Rubik sempre in movimento in cui non si riesce mai a ricomporre le facce a tinta unita.
Tra divertissment citazionista e prove tecniche di autocompiacimento, mette in campo una complessità e un'intelligenza poco comuni da reperire nel genere horror.
Anzi forse pure troppa per un pubblico che vuole tutto e subito, cioè deliri di sangue e frattaglie in primo piano . Che poi arrivano anche quelli, a tempo debito.
L'unico sospetto che si ha in operazioni di questo genere studiate fin nei minimi particolari è che prevalga il narcisismo e il volersi specchiare assolutamente nella propria bravura.
Ed è forse anche per sviare questo sospetto che la realizzazione è vistosamente povera, anche oltre il budget non certo faraonico per una produzione come questa( 30 milioni di dollari che per gli USA sono sinonimo di low budget).
Sicuramente non tutto filerà alla perfezione,  ma mi piace pensare a questo film come a un prototipo di new horror , imperfetto quanto si vuole ma assai stimolante e straripante di sorprese anche per il futuro.
Siamo a un nuovo giorno zero in cui un genere tradizionalmente considerato inferiore acquisti nuova dignità autoriale?
Quella casa nel bosco rinasce continuamente dalle proprie ceneri e quando pensi che, dopo circa un'ora di film,  sia finito tutto  ricomincia tutto daccapo in un turbine di cambiamenti di prospettiva.
Vittime e carnefici si scambiano continuamente i ruoli.
Ricomincia un nuovo film.
Peccato che duri solo 25 minuti.

( VOTO 8+ / 10 )


The Cabin in the Woods (2011) on IMDb

martedì 22 maggio 2012

The Abandoned ( 2006 )


Che la frontiera del nuovo orrore si sia spostata in Europa?
A giudicare dal volume e dalla qualità delle produzioni del Vecchio Continente in campo horror sembrerebbe proprio di si. Ma naturalmente il nostro tanto bistrattato Belpaese , a parte qualche pellicola  no- budget( perchè per la pochezza di capitali immessi non possono essere considerate neanche low budget), è totalmente escluso.
Addirittura in Spagna, dato il fiorire di nuovi autori più o meno specializzati nel genere, nel 2006 è stata realizzata una meritoria risposta ai Masters of Horror americani, le Peliculas para no dormir, serie di mediometraggi televisivi che hanno regalato ai fans più di un brivido.
Nello stesso anno , il 2006, è uscito The Abandoned, il ritorno( quasi un esordio) al lungometraggio di Nacho Cerdà   che aveva fatto girare più di un capo con  The Death Trilogy, antologia di tre suoi corti( The Awakening 1990, Aftermath 1994, Genesis 1998).
Girato nei dintorni di Sofia con un budget di 3 milioni di euro e una sceneggiatura a 6 mani curata oltre che dal regista  dal redivivo Richard Stanley ricavata da un vecchio script di quel pazzoide di Karim Hussain, al contrario di quanto ci si possa aspettare dal curriculum degli autori, The Abandoned è una sorprendente incursione nei territori della ghost story.
La sorpresa non deriva tanto dai contenuti , che sono classici del genere, con una storia circolare in cui i due personaggi principali si perdono in un loop mefistofelico tra passato presente, interno della casa e bosco attorno ad essa, ma è data dalla forma.
Nacho Cerdà pur non dicendo nulla di nuovo lo dice benissimo utilizzando magnificamente gli ambienti a sua disposizione coadiuvato da un'eccellente fotografia ad opera del talentuosissimo Xavi Gimenez ( presente in Nameless e Fragile di Balaguero ma anche nel bellissimo L'uomo senza sonno di Brad Anderson ) che riesce a ricreare un'atmosfera da incubo sia dentro la casa, praticamente un portale temporale aperto nei due sensi, sia nel terrificante bosco che la circonda.
Storia di passato che ritorna o meglio di presente che ritorna nel passato , di doppelganger , di case infestate e di loop spazio/temporali che riportano i due protagonisti ( fratello e sorella gemelli che si ritrovano nella suddetta magione nella madre Russia quaranta anni dopo) sempre al punto di partenza.
Che forse non c'è mai stato.
Ben lontano dalla muscolarità hollywoodiana a base di spaventi a buon mercato il film di Cerdà usa tutti gli espedienti del genere(ombre furtive, apparizioni improvvise, twist di sceneggiatura) ma si concentra particolarmente sul sonoro che è veramente disturbante.
The Abandoned sollazza e  pure parecchio anche se non possiede quella personalità che lo isserebbe allo status di cult imperituro. Questo perchè Cerdà sembra più attento a ricreare l'atmosfera che allo sviluppo di una storia che , tirando le somme, si presenta poi abbastanza ordinaria, senza picchi di genialità.
Visto però in particolari condizioni ambientali può arrivare a essere qualcosa di veramente terrorizzante.
E starete più attenti a cosa troverete dietro la prossima porta che dovrete aprire....

( VOTO 7+ / 10 ) The Abandoned (2006) on IMDb

lunedì 21 maggio 2012

Dark Shadows ( 2012 )


Vi eravate persi qualcosa della carriera di Tim Burton?
Non vi preoccupate che è arrivato Dark Shadows a risolvere tutti i problemi.
Un inopinato riassunto delle puntate precedenti in cui il sodalizio Depp / Burton ripropone in scala ridotta tutta la poetica del regista.
Pillole di universo burtoniano mescolate a una colonna sonora che infrangerà molti cuori a suon di evergreens e a un 'estetica gothic dark colorata di pop che si sposa perfettamente ai fumi hippy degli anni '70.
Depp, seppellito sotto quintali di cerone, è il cicciottelo vampiro Barnabas Collins : è lui che , volente o nolente, conduce le danze annullando quasi del tutto i pallidi personaggi secondari tranne uno. Quello della strega fiammeggiante Eva Green , sguardo a raggi X per come ti trapassa e decolletè che a guardarlo resti pietrificato. Esattamente come se guardassi negli occhi di Medusa.
Ecco se fossi stato io al posto di Barnabas Depp il film sarebbe stato un cortometraggio perchè sicuramente io una come Eva Green, strega o non strega, non me la sarei fatta scappare in favore di un'educanda sciapetta acqua e sapone.
Per me si poteva buttare benissimo anche dal primo marciapiede che incontrava.
Eva Green è il fuoco e il ghiaccio allo stesso tempo, è un'overdose di sex appeal, indossa scollature che uccidono, con quelle cosce così lunghe, tornite e affusolate è degna di popolare i migliori sogni erotici, patinati ma anche così tangibilmente carnali.
Detto questo e sottolineata la classica iconografia burtoniana gotico dark che si presenta a ogni film puntuale come una cartella di Equitalia, bisogna ammettere che Dark Shadows è una pellicola che non funziona.
Ma non è tutta colpa di Burton. Di fatto questo è un progetto non suo in cui ha cercato di inoculare generose dosi della sua opulenza visionaria.
Del resto è difficile condensare una soap opera di 1225 episodi in due ore di film. Inevitabili alcuni scompensi ( come chiacchierate/ pipponi interminabili per l'ansia di spiegare in pochi secondi tutto quello non vediamo sullo schermo), così come mi è apparso evidente che se il talento visivo burtoniano  è ancora immutato con gli anni, la sua capacità di narrare ha subito una drastica involuzione.
Tim Burton si aggira nel suo teatrino degli orrori ghignando e chiedendo complicità allo spettatore che però viene tenuto a distanza proprio perchè un film come Dark Shadows è un po' come quelle palle di vetro che racchiudono chiese o monumenti. Quelle che se le muovi ci incomincia a nevicare sopra.
Chiuse ermeticamente.
L'ultimo film di Tim Burton è proprio così: racchiuso in una bellissima teca di cristallo, con bagliori accecanti della sua visionarietà ma tremendamente finto, vuoto. Non c'è la sua poesia dolente, la malinconica consapevolezza del freak che lui ha saputo (quasi) sempre narrare magistralmente; in (s)compenso c'è qualche risatina a buon mercato per la difficoltà del vampiro a calarsi nella realtà moderna  che denota un mal celato intento parodistico (vedere la sequenza in cui un gruppo di operai troppo curiosi che viene succhiato appena Barnabas viene liberato dalla bara , oppure quella in cui un gruppo di hippy viene dissanguato fuori campo), magari qualche fiotto di sangue qui e là , una strega che appena la vedi gli ormoni impazzano e poco, pochissimo altro.
Mi fa piacere però aver rivisto la Pfeiffer, con lei il cinema è stato molto avaro ultimamente. Anche se in una parte di supporto è sempre un bel vedere.
E se invece Tim Burton avesse voluto fare un film su quanto è bella e cara l'unione familiare e di come tutti assieme si riescano a superare le difficoltà che la vita propone?
Se così fosse la missione è fallita.
L'impressione è che Dark Shadows sia un bel ripasso di estetica burtoniana vintage.
Una specie di rovistata in soffitta per tirar fuori oggetti d'epoca da passare al rigattiere di fiducia.
C'è un piccolo passo in avanti rispetto al tonfo di Alice in Wonderland ma da qui a dire che Tim Burton è tornato ce ne passa.
Rimandato a Frankenweenie. Ma sto già tremando.

( VOTO : 5 / 10 )

Dark Shadows (2012) on IMDb

domenica 20 maggio 2012

Special Forces - Liberate l'ostaggio ( 2011 )


Non mi piacciono i film di guerra.
E già con questo potrei terminare quello che ho da dire su questo film.
Quasi mi fecero violenza per farmi vedere Salvate il soldato Ryan e quasi mi feci violenza da solo per vedere "robetta" come Apocalypse now o Full Metal Jacket.
Ma quelli non erano semplicemente film bellici. Erano filosofia applicata .
Quindi non so neanche perchè sono andato a vedere questo film: la sala dove c'era Dark Shadows era piena? No, non direi ma probabilmente non era popolata di fauna di mio gradimento. Troppi popcorn aromatizzati al copertone di camion, troppi nachos che si piegano ma non si spezzano, troppe bibite gassate che autorizzerebbero al rutto libero in sala, troppi ragazzini con smartphones più grandi di loro che sicuramente riempirebbero la sala di traccianti luminosi terra aria solo per controllare se qualcuno li ha messaggiati.
Ma ancora non ho parlato di questo film.
Vi ho mai detto di quanto ami il cinema francese? Se ancora non l'ho mai sottolineato allora questo è il momento giusto.
AMO IL CINEMA FRANCESE. Ecco ho fatto outing. O si dice outlet?
E Special Forces è francese. Ma è un film di guerra. E per di più ambientato in quel buco di culo dell'universo abitato e non che risponde al nome di Afghanistan. Ma poi scopro che è Pakistan ai confini con l'Afghanistan. Praticamente è lo stesso. Stiamo sempre parlando di orifizi rettali ostili a qualunque forma di vita civile.
Odio i film di guerra perchè odio la retorica nazionalista, le epopee militari usate come oppio per i popoli, il machismo conclamato( che spesso nasconde gaytudini latenti), la divisione del mondo in bianco e nero, in buoni e cattivi. E odio come Hollywood mette tutto questo in bella mostra corroborata da Big Jim plasticosi coi bicipiti a mappamondo che parlano come terminators a cui hanno bruciato i circuiti stampati dedicati alla favella.
I monosillabi abbondano, il tarlo della democrazia da esportazione pure. E te la fanno apparire anche come cosa buona e giusta.
Special Forces ha anche, ma non solo,  questi ingredienti: i talebani sono tutti cattivi, il loro capo è addirittura Raz Degan( israeliano se non erro, la battuta migliore del film) che sembra una caricatura di cattivo per come uccide senza senso giusto per affermare la sua cazzuta superiorità da overdose di piombo caldo, i militari sono tutti votati alla missione senza se e senza ma, senza un attimo di cedimento.
Macchine da talebanicidio senza pentimento.
C'è tutto questo nel film di Rybojad ,  che ha pensato bene di trasferire la sua esperienza di documentarista d'assalto dalla realtà alla fiction rimanendo sempre nel campo militare.
Special Forces sembra un blockbuster verde militare a stelle e strisce. E invece è una produzione francese, con un budget ampio per gli standard europei( 10 milioni di euro), che gioca a fare l'americana.
Special Forces racchiude in sè molti degli ingredienti che odio nel film bellico hollywoodiano.
Eppure non so perchè mi ha preso.
Forse per la poca attenzione alla tattica guerresca sostituita da lunghi scontri a fuoco da videogame sparatutto, forse perchè mostra , seppur brevemente, la civiltà musulmana lontana dalle deviazioni e aberrazioni islamico-talebane, forse perchè la retorica sparata a pallettoni che di solito uccide come fuoco amico il blockbuster hollywoodiano qui è tenuta più a bada ( anche se talvolta esonda come nella lunga sequenza dell'inseguimento e dell'uccisione di Elias).
Per una volta non ci troviamo di fronte a supermen decerebrati convinti di salvare il mondo semplicemente muovendo un dito, ma  professionisti in quel campo solo perchè qualcuno quello sporco lavoro lo deve pur fare.
Occorre riconoscere  almeno lo sforzo di andare sotto la scorza di questi militari tutti d'un pezzo, il tentativo  di dotarli di quel briciolo di umanità che nelle controparti hollywoodiane spesso manca.
Il salvataggio della giornalista diventa questione di principio di democrazia e non solo un mezzo per far vedere la superiorità occidentale.
Ancora ideologia e forse questa è la parte più debole del film, obiettivamente la parte più difficile da far digerire in una pellicola di questo genere.
Dal punto di vista della forma siamo a livelli di eccellenza. Panoramiche mozzafiato, una cinepresa sempre mobile ma che non crea l'effetto mal di mare in nome del realismo assoluto.
Un linguaggio registico vivace sempre mutevole che permette di non annoiarsi.
Inoltre dal punto di vista tecnico non ha nulla da invidiare agli epigoni d'oltreoceano.
Altra cosa a mio parere da sottolineare è che , nel cortocircuito che porta ai generi americani per eccellenza,  in più di un'occasione si ha la sensazione di trovarsi in un western in cui l'ambientazione afghana è semplicemente un dettaglio sullo sfondo  (allora è il prototipo dell' eastern movie ).
Non mi ha travolto ma non mi ha nemmeno irritato e visivamente ci troviamo di fronte a uno spettacolo di ottimo livello, recitato più che decentemente ( e questo non è scontato in questo genere) e con personaggi per cui è facile empatizzare.
Identificarsi magari no, soprattutto per chi ha una certa allergia alle armi automatiche e alla logica militare.
Devo anche aggiungere che per me la Kruger è bellissima anche con una crosta di fango in faccia alta due dita?

( VOTO : 7+ / 10 )  Special Forces (2011) on IMDb