I miei occhi sono pieni delle cicatrici dei mille e mille film che hanno visto.
Il mio cuore ancora porta i segni di tutte le emozioni provate.
La mia anima è la tabula rasa impressionata giorno per giorno,a 24 fotogrammi al secondo.
Cinema vicino e lontano, visibile e invisibile ma quello lontano e invisibile un po' di più.

lunedì 30 aprile 2012

I nuovi centurioni ( 1972 )


I nuovi centurioni, tratto da un romanzo omonimo di Joseph Wambaugh ( lo stesso  autore poi ripreso da Aldrich per I ragazzi del coro di qualche anno dopo) anticipa la stagione dell'inquietudine anni '70 perlomeno nel genere poliziesco che va incontro a un decennio di profonda revisione degli stereotipi che lo hanno sempre animato fino a quel momento.
Se nella corsa agli Oscar aveva appena stravinto un poliziesco pirotecnico come Il braccio violento della legge, il film di Fleischer sceglie una strada opposta, quella del semidocumentarismo nella descrizione della routine quotidiana di un gruppo di poliziotti di Los Angeles, ormai non più città degli angeli ma squallido crocevia di spaccio di droga e di prostituzione.
L'approccio è minimalista , l'azione è ridotta ai minimi termini quasi relegata a necessità quando non se ne può proprio fare a meno e comunque le scene action sono girate senza l'enfasi comune ad altri polizieschi, in più il destino arriva persino ad accanirsi beffardo su questi nuovi centurioni (il titolo viene da un dialogo in cui si accenna alla funzione civica e di rappresentanza dei centurioni nell'antica Roma)  che possono essere considerati a ragione dei precursori de I ragazzi del coro di Aldrich con cui condividono oltre all'autore del romanzo anche una certa tendenza all'antispettacolarità.
Solitudine, problemi coniugali, la disperazione per aver ucciso l'uomo sbagliato sono il trait d'union di questi uomini normali che devono fare un lavoro straordinario di tessitura nella società civile, applicando la legge ma spesso bypassandola per usare solo il buon senso.

Ma sono uomini, non divinità e spesso sono attanagliati da mostruosi sensi di colpa che arrivano a condizionare la loro vita. Fare il centurione vuol dire lavorare 24 ore al giorno.Inevitabile che condizioni un'esistenza già grama di suo.
I Nuovi centurioni è un poliziesco crepuscolare ammantato di un pessimismo impossibile da eradicare che ha influenzato molto cinema a venire e anche molte serie televisive. 
L'esempio più lampante tra queste ultime è  Hill Street Blues(Hill Street giorno e notte) che ne sembra quasi una prosecuzione seriale.
Non sarà stato un caso che ogni puntata del serial cominciava dal briefing mattutino col sergente che dava le consegne a tutte le pattuglie proprio come viene descritto nel film di Fleischer .
Straordinario il cast con un George C Scott , gigantesco e dolente ,eccellente nel descrivere il suo personaggio che deve affrontare un vuoto esistenziale troppo grande dopo una vita passata di pattuglia per le strade.
Uscendone sconfitto.

( VOTO : 7,5 / 10 )   The New Centurions (1972) on IMDb

Miracolo a Le Havre ( 2011 )


Kaurismaki è tornato!  Evviva Kaurismaki!
Quanti anni sono passati? Cinque dal suo ultimo lungometraggio e quasi dieci da quello precedente?
E' troppo anche per un autore fuori del tempo e fuori dello spazio come lui.
Il problema è che il cinema ha bisogno di lui molto più di quanto lui abbia bisogno del cinema.
 Il titolo italiano è uno scempio come al solito( l'originale è un più calibrato e neutro Le Havre) e poi è praticamente una mitragliata di  spoiler, dando però un'interpretazione spiccatamente  religiosa a quello che accade.
Interpretazione nettamente sbagliata perchè Kaurismaki laicamente pur non escludendola, ammanta tutto nel mistero.
Miracolo a Le Havre segna il ritorno del regista finlandese in Francia con una storia di buoni sentimenti, immigrazione clandestina e brutti mali debellati in un battito di ciglia.
Le Havre è uno dei simboli della frontiera francese, la porta verso la terra d'Albione ed è il punto di arrivo di un gruppo di profughi africani tra cui un ragazzo che ha la ventura di incontrare il lustrascarpe Marcel Marx, un bambinone invecchiato che sembra teleguidato da una moglie discreta ma sempre incombente nel regolare la sua esistenza.
La sua è una vita dagli orizzonti limitati: tutto il giorno in giro a lustrar scarpe e ingoiare umiliazioni , le luci della sera sono contrassegnate dal suo arrivo a casa dalla moglie e dalla cagnetta Laika. Inoltre gli è concessa  la sortita al bar con i cinque euro datigli dalla consorte per bere uno o due bicchieri di vino.
Ecco perchè quando conosce il bambino africano si mette in testa di proteggerlo e di salvarlo dalle grinfie della polizia.
E' una scossa benefica alla sua triste routine quotidiana.
Per lui e per tutto il quartiere che si stringe attorno a lui per aiutarlo anche perchè intanto la moglie si ammala gravemente.
Kaurismaki ritorna col suo stile rarefatto con la sua ironia sbilenca e con i suoi colori che sembrano presi in prestito dai quadri di Hopper e di Magritte.
Il suo stile è perfettamente riconoscibile così come il modo surreale in cui racconta la storia che stavolta è meno ellittico del solito, più lineare , con molti più dialoghi e meno sottintesi di quanto è solito fare nei suoi film.
Il suo è sempre stato un cinema focalizzato sull'emarginazione e anche qui non si smentisce con i suoi personaggi che come burattini senza fili si muovono in un mondo che sembra rubato a un libro di favole.
Miracolo a Le Havre mostra ancora una volta l'immane cultura cinefila di Kaurismaki a contatto con una storia di triste attualità. Cerca di farlo estraneandosi dalla realtà tangibile optando per un'atmosfera fiabesca in cui tutti aiutano tutti, in cui vecchi rockers anche un po' patetici accettano di fare concerti, in cui il sano, vecchio , robusto rock'n'roll, risolve vecchie questioni, morali ed economiche.
In cui anche i poliziotti sembrano avere una coscienza cercando di non incrinare l'idillio che li circonda.

Forse troppa grazia , troppi buoni sentimenti rispetto al solito. Però non disturbano più di tanto. Disturba molto di più quel titolo che spazza via l'atmosfera da fiaba.
Miracolo a Le Havre non si colloca certo ai vertici della cinematografia di Kaurismaki. Mi ha dato l'impressione di essere un grimaldello per arrivare a più pubblico possibile, un film più "commerciale " del solito da parte dell'altrove geniale autore finalndese che vi infila molte delle suggestioni del suo cinema che ormai conta troppi titoli per essere riassunti in un film solo.
E' un Kaurismaki for dummies che ha la sfortuna di arrivare in ritardo all'appuntamento.
Di due anni per la precisione perchè la storia che racconta è quasi del tutto sovrapponibile a quella del bellissimo Welcome di Philippe Lioret ambientato nell'altra città che simboleggia la frontiera francese, Calais.
Naturalmente stile diverso, approccio diverso, look diverso ma Miracolo a Le Havre, suo malgrado, incappa nella sensazione del deja vù.
E se a un regista qualunque questa cosa si tende a perdonarla, ciò non può accadere con un genio come Kaurismaki.
Mi duole dirlo da fan della prima ora di Kaurismaki ma Miracolo a le Havre è un passo indietro rispetto ai bellissimi Le luci della sera e L'uomo senza passato.

( VOTO : 7 / 10 )  Le Havre (2011) on IMDb

domenica 29 aprile 2012

Scemo & più scemo ( 1995 )


Scemo & più scemo: ovvero quando il neurone va in vacanza.(l'unico rimasto perchè gli altri sono stati fritti come fusibili in corto circuito da visioni precedenti).
Tutto quello che avreste voluto vedere al cinema ma non avete mai osato chiedere: come imparaste a non preoccuparvi più di vedere cinema d'autore e ad amare il cinema demenziale.
Lloyd ed Harry sono Blues brothers senza musica nel sangue e cervello nella testa, sono Stanlio e Ollio senza capacità di intendere e di volere, sono Gianni e Pinotto che si fanno beffe della logica aristotelica, sono Franco e Ciccio arrivati allo stato finale dell'idiozia, ma a differenza di tutte queste coppie sono tra loro indistinguibili.
Oltre non è possibile andare.
Non cinema demenziale tout court ma un'operazione più sofisticata (se è possibile definire così una comicità che fa di escreti e secreti il suo tratto dominante): la coppia comica che presuppone degli schemi ben collaudati e una ripartizione preordinata dei ruoli qui è allo sbando totale, c'è un'anarchia completa nello schema della gag , i tempi comici sono così accelerati che lo spettatore viene letteralmente bombardato dal loro rifiuto involontario di applicare la più primitiva delle intelligenze, quasi non c'è tempo di metabolizzare appieno quello che si è appena visto.
Si è alle prese con l'idiozia pura, i due sono primari universitari di stupidità e se la demenza fosse una malattia contagiosa loro sarebbero i pazienti zero. 
Jim Carrey mette a disposizione la suola gommata della sua faccia calpestabile da ogni boccaccia, Jeff Daniels lascia la commedia brillante per rilassare ulteriormente la sua maschera con orecchie di cocker incorporate.
Non essendoci qualcosa che li avvicina all'altra umanità che ha la (s) ventura di abitare lo stesso pianeta nello spettatore scatta un'anomalo complesso di superiorità: si ride sempre di quelli più sfigati, di quelli che inciampano sulla buccia di banana o che danno una culata per terra su un fondo ghiacciato.
Si ride e magari si pensa anche a quando siamo stati noi i protagonisti del pezzo comico involontario.

In Scemo & più scemo ciò non è possibile perchè siamo di fronte all'anello di congiunzione tra l'uomo e l'ornitorinco. 
Non è possibile arrivare più in basso e il film abolendo del tutto la battuta comica (l'unica, stupida battuta è nel finale con l'autobus pieno di ragazze) fa ridere sguaiatamente lo spettatore con bottiglie di birra piene di liquidi organici, overdosi di lassativo ,svuotamenti di water da finestre, scariche di calci, pugni e schiaffi nelle pudenda altrui.
E noi siamo contenti che non siamo al loro posto.
Eppure Scemo & più scemo è il ricordo di un cinema in cui quasi mi ribaltai sulla poltroncina per il ridere ed è la conferma dopo più di quindici anni che questo film mi diverte oggi come allora.
Ne deduco quindi che stiano peggiorando le mie facoltà mentali.
Perchè fa ridere questo film, allora?
Eh, eh se lo sapessi scriverei sui Cahiers du cinema....

( VOTO : 7,5 / 10 )  Dumb & Dumber (1994) on IMDb

Shame ( 2011 )



Se fossi donna avrei paura di uno che mi guarda come Brandon ( Michael Fassbender). Uno che pur non avendoli sembra sempre inforcare quei famigerati occhiali a raggi X che vendevano sui giornali qualche era geologica fa. Uno che ti spoglia con lo sguardo insomma, uno per cui per dirla alla Prophilax la pornografia è l'unica via, dedito esclusivamente all'amore mercenario , un Don Mignotte che paga sempre col bancomat.
Brandon non sa fare l'amore. Sa solo trombare. Mi si scusi il francesismo.
Il protagonista dell'ultimo film di Steve McQueen è un American Psycho-Sexual, un uomo che riempie il suo vuoto esistenziale con vagonate di pornografia, che sente quasi il bisogno fisico di dare sfogo continuo al suo stravaso ormonale. Però quando si tratta di fare l'amore con una persona con cui avere una storia fatta anche di sentimento e non solo di sesso, cominciano i problemi di tenuta fisica e mentale.
Se McQueen è la mente, Fassbender è il braccio , o meglio è la proboscide quell'altra cosa che mostra generosamente ma sarebbe una battuta troppo facile.
Mentre vedevo questo film mi domandavo a che grado di esibizionismo può arrivare l'attore.
Escludendo naturalmente quelli che lavorano nel settore pornografico che credo che non abbiano nessun problema in merito, anzi più gente sta lì a guardarli meglio è.
E pare che certe volte si portano pure il lavoro a casa.
Prendiamo ad esempio la scena in cui Brandon arriva a casa e con la mazza da baseball irrompe nel bagno credendo che ci sia qualche intruso e trova la sorella, Sissy, interpretata da Carey Mulligan in versione nature che sta facendo la doccia.
La Mulligan , in versione come mamma l'ha fatta continua a snocciolare battute una dietro l'altra senza il minimo problema davanti presumibilmente a una troupe piuttosto ben nutrita.
Vabbè c'è l'escamotage dello specchio ma credo che il nocciolo della questione sia lo stesso.
E stupisce ancora di più perchè fino a Drive non ci eravamo accorti di lei come a una donna fatta e prima del film di Refn pensavamo a lei come a poco più di una ragazzina che doveva ancora arrivare al fiore degli anni. E invece a breve le primavere saranno 27.
Possibile poi che tutti hanno parlato dei nudi full frontal, full back , insomma full tutto di Fassbender, tutti a parlare della sua dimensione artistica e nessuno abbia accennato minimamente a quello della Mulligan?
Che, detto tra noi nella scena della doccia sembra un gatto scorticato, poi con i capelli sistemati e il trucco giusto, oltre che le immancabili adorabili fossette, è tutta un'altra cosa.
Anche se il suo fisico è assolutamente ordinario, di normalità quasi sconvolgente in un mondo di palestrati, di anabolizzati e di addominali a tartaruga.
Per non parlare di Brandon Pilone Fassbender che se ne va tranquillamente in giro ignudo con il batacchio coso bene in vista e ogni tanto simula anche che gli dà una bella lucidata, per non parlare degli amplessi furiosi che lo vedono protagonista.
Shame a scanso di equivoci è un film visivamente bellissimo.
McQueen è regista di talento spropositato e ogni tanto nell'utilizzo reiterato del suo amatissimo pianosequenza  si specchia nella propria bravura. Però ci sono sequenze come quella della corsa notturna del protagonista sotto le luci fioche di una New York buia e minacciosa in cui bisogna solo levarsi il cappello e spellarsi le mani dagli applausi.
A proposito di New York: la metropoli di Shame che fa da sfondo alle (dis) avventure erotiche di Brandon ha perso definitivamente la sua aura romantica non è più luogo di promesse d'amore eterno e di storie zuccherosamente romantiche ma solo di incontri occasionali, di sesso rubato nascosti a malapena all'angolo di una strada ( ma perchè, benedetti figlioli visto che avete una macchina e fior di appartamenti a disposizione ?), di tours de force in locali notturni sbattendosene allegramente del lavoro.
Decisamente non un bel posto per vivere.

Shame è il film scandalo della scorsa mostra di Venezia e quello che ha fatto finalmente girare nel mondo sia il nome di McQueen, sia quello di Fassbender. E' nato  già con le stimmate del cult. Ma credo che abbia avuto molta risonanza per il motivo sbagliato. Forse perchè il pubblico ben pensante,maschilista e neanche tanto sotterranemente omofobo non ha problemi col nudi di donna mentre ne ha e parecchi anche con quello maschile.
E'un film fotografato ottimamente e recitato come il dio del cinema comanda. Ma faccio fatica a ritenerlo un capolavoro o un cult.
Il problema si chiama American Psycho di Brett Easton Ellis in cui il protagonista, fatta la tara alla sua tendenze omicide, è molto simile al Brandon di questo film e questo mi fa avere una sorta di amaro deja vù nella visione.
Inoltre credo che il buon Steve abbia calcato la mano su certi particolari giusto per far salire un po' lo scandalometro.
Prendiamo ad esempio la scena in cui Brandon litiga ferocemente con Sissy: c'era proprio bisogno di girarla in quel modo con Fassbender ignudo che sventola lo sbarabaus a due centimetri dalla faccia della Mulligan? Sembra forzata, artificiosa, girata in quel modo per far inorridire i benpensanti che magari sono schifati dal rapporto molto "carnale" tra due che nella finzione sono fratello e sorella . Magari si poteva arrivare alla stessa drammaticità, forse anche oltre, tenendo gli attori a distanza , persino vestiti.
Shame è la presa di coscienza del proprio vuoto interiore, una lunga autoanalisi psicologica che fa arrivare alla consapevolezza. Credo che sia questo il senso del pianto a dirotto di Brandon.
Mentre non ho capito il senso della furtiva lacrima che gli ha lucidato l'occhietto mentre Sissi si esibiva in una versione bradipa e con la sordina di New York New York, cantata veramente da Carey Mulligan, che ha  un passato da indie rockstar .
Una canzone arrangiata in modo lattiginoso e senza quel crescendo finale che l'ha resa celebre. Praticamente stravolta dalla voce da usignolo sofferente ma tuttaltro che potente della graziosa Carey.

( VOTO : 7 / 10 )  Shame (2011) on IMDb

sabato 28 aprile 2012

Contagion ( 2011 )


Durante gli anni Soderbergh ci ha abituato nel suo frequentare ondivago l'arte della regia cinematografica alla realizzazione di  blockbuster d'assalto e allo stesso tempo di stimolanti opere low budget, meno commerciali ma ricche del suo talento troppo spesso nascosto tra le righe, o anche sotto di esse per esigenze di pagnotta.
Contagion da questo punto di vista è un ibrido che porta una ventata di novità nella sua carriera e mostra qualche punto di interesse: non un film indipendente ma neanche un budget di quelli monstre, realizzazione risparmiosa ma cast di primedonne,ricerca della  coralità nelle varie vicende collegate tra loro, un  argomento che per cocente attualità suscita interesse.
Colpisce soprattutto la  confezione spartana con un uso del digitale che conferisce al tutto un'aria buia e ancora più minacciosa del necessario.
Da qui a dire che è un film propriamente riuscito però ce ne passa, è abbastanza monotono nel suo incedere meccanico saltabeccando da una storia all'altra, ma è solido nel suo assunto, attendibile e abiura dal catastrofismo alla Emmerich per una forma più realistica di apocalisse microbiologica. 
Almeno dal punto di vista scientifico non ci sono castronerie grossolane al contrario di quello che succedeva nell'inutilmente sensazionalistico Virus Letame  Letale di Petersen 
Ed è anche politicamente scorretto ai limiti del qualunquismo : ne ha per chi dovrebbe vigilare sulle pandemie, per l'animale uomo che si dimostra sempre la più bestia del reame, per i blogger di protesta che non disdegnano esposizione mediatica e soprattutto un adeguato "rinforzino" al conto in banca . 
Anzi credo che il personaggio del blogger sia quello trattato peggio di tutti.


Certo che il personaggio acqua e sapone di Matt Damon (ultimamente è diventato un uxoricida seriale dato che gli appioppano come minimo una moglie morta) cornuto e contento ma tenacemente attaccato alla memoria della fedifraga, la monoliticità morale del personaggio di Laurence Fishburne , il personaggio della epidemiologa pasionaria Kate Winslet  avrebbero dovuto essere modulati un po' meglio perchè le loro eccessive sottolineature da parte dello script stridono fatalmente con il realismo ostinatamente cercato dal film.
Ignobile anche doppiare la Cotillard come la nipote decerebrata dell'ispettore Clouseau.
Meglio guardare il film da soli: al primo colpo di tosse tutti quelli che vi stanno intorno cominceranno a guardarvi con un certo sospetto.
E se lo avete visto al cinema allora sicuramente dopo i titoli di coda avrete evitato il benchè minimo contatto con il resto della platea.

( VOTO : 6 / 10 )  Contagion (2011) on IMDb

Non lasciarmi ( 2010 )


In un collegio per giovani virgulti, Hailsham, amabilmente incastonato nella bellezza della campagna inglese, apprendiamo che gli innocenti scolari che vi vengono educati non sono altro che cloni da utilizzare come riserva di organi per altri umani che ne avessero bisogno.
Da un'atmosfera idilliaca di gioco e di schiamazzi tipica dell'infanzia veniamo catapultati subito in una dimensione più inquietante che si nutre di logiche aberranti.
Eppure i diretti protagonisti sembrano rassegnati al loro destino: non c'è un moto di ribellione, un tentativo di fuga o cose del genere. Tutto quello che poteva succedere in storie dai presupposti simili a questa come La fuga di Logan o anche in The Island che poi procedevano proprio su un (naturale) istinto di ribellione a un destino infausto già scritto da altri.
Qui non c'è nulla di tutto questo.
L'atmosfera grigia come il cielo inglese carico di nubi è ovattata, i ragazzi attendono di crescere quasi non pensando al domani cercando di rimandare al dopo le riflessioni importanti, quasi cercando di esorcizzarle fino a dopo i 18 anni quando saranno trasferiti da Hailsham in altri centri di raccolta e poi indirizzati dove c'è bisogno di loro. E poi anche dopo quella fatidica soglia  confidano in fantomatici rinvii allorchè si riesca a dimostrare un sentimento amoroso.

Non lasciarmi sull' architrave costituito da suggestioni direttamente figlie di Philip K. Dick inserisce un racconto di formazione (narrato in un lungo flashback) che diventa presto un melò straziante. La regia di Romanek però  non cede mai alla facile emozione, la pellicola non si trasforma mai in un popcorn tearjerker movie in cui si colpisce basso.
E' sempre tutto condotto con stile ovattato, l'emotività, a parte una scena madre notturna in cui Kathy e Tommy ormai consapevoli del loro amore a breve scadenza si abbracciano quasi furiosamente come se temessero di non ritrovarsi più alla fine dell'abbraccio, è sempre trattenuta in nome di una sobrietà che qualcuno può confondere anche con freddezza. Gli interrogativi etici e filosofici non vengono sottaciuti ma vengono lasciati alla sensibilità dello spettatore.
La logica aberrante di eugenetica che è narrata nel film lascia poco spazio ai sentimenti.

Eppure i cloni hanno un anima: sono la prova tangibile che l'ingegneria genetica non crea solo una copia conforme, un vuoto agglomerato di geni dominanti e recessivi. Crea la vita e l'aberrazione sta proprio nel presupposto che colui che crea questa vita in laboratorio se la può riprendere in qualsiasi momento perchè è come una sua proprietà privata.
In Non lasciarmi si parla  di organismi viventi che vengono usati come terreni di coltura ideali per le cellule che compongono un organo.
Eppure questo terreno di coltura non è solo un ammasso di cellule non pensanti.
D'altro canto se i cloni hanno un'anima è lecito anche chiedersi quando da una semplice reazione biochimica, da un pugno di mitocondri o  molecole di glucosio o  dalla doppia elica intrecciata su quattro semplici basi azotate passiamo al concetto di vita...tutti concetti che probabilmente esulano dal film.
I tre protagonisti sono veramente bravi a colorare delle tonalità giuste la fragilità dei loro personaggi, puri e limpidi come cristallo eppure malinconici, in equilibrio ideale tra compostezza e rassegnazione.
Il film di Romanek dimostra come è possibile fare della fantascienza adulta senza l'ausilio di ingombranti effetti speciali e il suggestivo utilizzo della locations del film è un valore aggiunto per un film incantevole per misura e per non cedere alle scorciatoie redditizie della lacrima facile.

( VOTO : 8,5 / 10 ) 
Never Let Me Go (2010) on IMDb

venerdì 27 aprile 2012

Bandage ( 2010 )


Giappone inizio anni '90. 
Asako, studentessa di scuola superiore, va a vedere il concerto di una delle sue indie-rock bands preferite, i LANDS. Per caso lei e una sua amica ottengono il pass per il backstage e si ritrovano in men che non si dica in un party con la band dopo il concerto. 
Lei è affascinata soprattutto da Natsu, il cantante.Viene cacciata dal party da Ukari,la manager del gruppo ma Natsu la insegue e le chiede di uscire assieme il giorno dopo.
Del tutto casualmente Asako anche grazie a un indisposizione di Ukari diventa co-manager del gruppo e intreccia un rapporto contraddittorio con Natsu. E'attratta da lui e lui lo stesso da lei ma è consapevole che la sua relazione con Natsu danneggerebbe il gruppo che è a un passo dall'arrivare al tanto agognato successo.
Il numero 1 nelle classifiche di dischi arriva ma arrivano anche i problemi.
Bandage è un film fresco e apparentemente leggero che però mette in scena alcuni degli aspetti meno belli del music business accompagnato da una visione della vita molto più adulta di quanto il tono del film lasci presupporre.
Accanto alla figura di Asako ( deliziosa Kii Kitano) che nonostante la giovane età ragiona da donna matura e antepone il successo della band alla propria felicità, emergono la figura di Natsu( Jin Akanishi), prototipo del divo rock bello e impossibile da gettare in pasto a orde di famelici fans e quella di Ukiya (Kengo Kora), che sembra la faccia oscura di Natsu: chitarrista geniale ma ombroso, al servizio solo della propria musica ma senza smanie da primadonna, con tutta l'aura di maledettismo che circonda qualsiasi rockstar che si rispetti.

Esemplare la scena in cui seduce Asako in riva al mare, la bacia dopo averle chiesto:
 "Che colore ha la solitudine, l'hai mai provata?" - e poi si ritrae subito affermando che ora lei l'ha finalmente provata. Devo ammettere inoltre il mio debole per il personaggio di Arumi (Yuki Shibamoto), tastierista lunatica con incantevoli femori da fenicottero rosa , una sorta di valchiria con gli occhi a mandorla da cui sono stato letteralmente rapito.
Sono molteplici i punti di forza  di Bandage: è un film che lavora sui clichet di tanto cinema sulla musica ma ha dalla sua dei personaggi molto ben delineati, a tutto tondo.
E parla di un mondo,quello del music business, dal di dentro quindi ben conoscendo quello di cui si sta parlando. Infatti Takeshi Kobayashi qui alla sua prima prova da regista (superata brillantemente)è più che altro un musicista, arrangiatore e produttore.
Ecco perchè il quadro che delinea è molto vicino alla realtà.
Il film poi tratteggia in modo elegante e poco ovvio la relazione sentimentale tra Asako e Natsu: una sorta di rapporto di dipendenza reciproco in cui uno trae forza dall'altra e viceversa.
Lui alla fine è poco più di un bambino capriccioso abituato a ottenere ciò che vuole, lei invece pur essendo attratta da lui cerca di chiudere a qualsiasi tipo di contatto. Esilarante la sequenza a tre in cui a casa di lei,  Natsu chiede alla madre di Asako di concedergli la figlia in sposa e lei si ribella in modo molto, molto deciso.
Bandage non ha la pretesa di essere uno spaccato generazionale ma è una sorta di istantanea scattata a un gruppo di giovani che stanno crescendo.
La sceneggiatura è di Shunji Iwai, regista del bellissimo All about Lily Chou Chou(Riri Shushu no Subete),ritratto postmoderno della internet generation.
Film accomunati anche dal finale aperto alla speranza.
Meglio tardi che mai.
Oltre che bello da vedere Bandage è un film degno anche di essere ascoltato molto attentamente...

( VOTO : 8,5 / 10 )  Bandage (2010) on IMDb

The Woman in Black ( 2012 )


Harry Potter è tornato ed è cresciuto.O è cresciuto ed è tornato.E' lo stesso.
Ha tolto gli occhiali e si è fatto crescere anche un filo di barbetta caprina tanto per farlo sembrare più grande.E poi sgrana gli occhioni. Li sgrana come non ha mai fatto.
Poverino Daniel Radcliffe che appena gli nomineranno ancora il maghetto che lo ha reso ricco ma anche schiavo, sbaverà come un cane idrofobo. Le sta tentando tutte pur di far dimenticare al pubblico quello che è stato, vuol far vedere che finalmente è cresciuto anche se non tanto in altezza purtroppo per lui, ha recitato in teatro nudo , si è dato addirittura all'horror.
Che altro deve fare, poverino?
Però la ragione per cui ho visto questo The Woman in Black non è lui. Potrei dirlo di averlo voluto vedere per la presenza di Stephen Fry, grandissimo attore inglese e invece no, neanche per lui. L'ho visto perchè campeggia in bella vista il marchio Hammer.
Insomma per un effetto nostalgia canaglia che mi ha chiuso nella morsa cuore e cervello.
Sono cresciuto con quei film ed è normale che ora cerchi di rituffarmi in quelle atmosfere.
E sotto quel profilo il film non delude per niente. E' un classico Hammer film d'annata con ricostruzioni sobrie ma efficaci, scenografie curate ma non sfarzose e come al solito per gli esterni viene scelto un angolino di mondo che sa essere bello e terribile allo stesso tempo.
Un'ambientazione da urlo: il verde della campagna e i colori spenti della brughiera sono nascosti sotto una coltre di nebbia minacciosa che confonde i contorni di tutto sfumandoli nel mistero. E quella marea limacciosa non fa altro che aggiungere inquietudine in chi la osserva.
L'arrivo del protagonista in questo sperduto avamposto di resistenza umana è il classico arrivo di un protagonista di un film Hammer. Poteva esserci anche Cushing al posto di Radcliffe non sarebbe cambiato nulla: è rimesso a nuovo da parte degli indigeni  tutto l'armamentario di diffidenza, stranezze, vera e propria ostilità verso il nuovo arrivato, il diverso, compreso l'immancabile scena della locanda piena di avventori che ti squadrano da capo a piedi.
Una scena vista tante volte nei film della gloriosa casa britannica.

The Woman in Black non deluderà certo i fan dell'horror, anche se si inserisce più nel filone del racconto gotico: però quella casa infestata dove il Danielino sceglie di trascorrere la notte tagliato fuori da ogni altra forma di vita civile a causa dell'alta marea, è veramente un giacimento di trucchi ed effetti de paura.
Certo trascorrere da soli una notte in una casa che mette paura solo a guardarla è roba da dementi, ma siamo in un film horror, no?
Il regista non ci risparmia nulla, dalle porte che scricchiolano o che si muovono chissà perchè, alla sedia a dondolo mossa da una forza misteriosa, alle apparizioni in giardino di una figura ammantata di nero, oppure anche la stessa figura che ti guarda da dietro le finestre di casa quando il protagonista è in giardino.
Diciamo che la fase centrale del film è la migliore perchè gli spaventi sono genuini, Radcliffe sgrana il più possibile gli occhioni per la paura e si respira veramente l'acre odore di vecchio, di muffa e di paura che trasuda dalle pareti.
Purtroppo per The Woman in Black sono però suggestioni di rimbalzo perchè mediate dal senso di nostalgia misto a curiosità che anima chi conosce il passato glorioso della Hammer.
The Woman in Black pur corretto filologicamente, pur  diretto con mano adeguatamente leggera da James Watkins( autore di uno degli horror più disturbanti degli ultimi anni, Eden Lake che però trae linfa vitale dall'accostamento con la realtà sociale odierna) non ha quella scintilla che ne potrebbe fare un caposaldo del genere.
In fondo la storia di questi morti fermi lì in un limbo a far sentire la loro presenza ai vivi , l'abbiamo vista millemila volte.
E'però confezionato con la solita competenza, con una fotografia ben curata che riesce a catturare anche la naturalezza della luce fioca delle candele.
The Woman in Black può però essere considerato un nuovo punto di partenza per la neo-rinata Hammer, un test delle sue potenzialità attuali e di quelle di un genere a cui affidare comunque budget da considerare modesti rispetto a quelli stanziati dall'industria americana.
Un cinema di idee, di suggestioni e non di mostri digitali.

( VOTO : 6,5 / 10 )  The Woman in Black (2012) on IMDb

giovedì 26 aprile 2012

Le Idi di Marzo ( 2011 )


I repubblicani sono morti, i democratici sono morti e la politica tutta non si sente tanto bene.
Ma anche cambiando i fattori in campo il risultato matematicamente non cambia.
 Le Idi di Marzo è il format di celluloide attraverso cui un democrat come Clooney per cui l'interesse comune è bene ma avere il villone sul lago di Como è ancora meglio, ci racconta quanto sia sporca la politica.
Ci sediamo tranquilli e ascoltiamo ancora la favola di Cappuccetto Rosso in un momento in cui fuori è un pullulare di lupi. 
E' questo il vero regalo di Natale in una nazione come la nostra che finalmente, forse, si sta accorgendo di quanto è marcia la politica.
Oppure è semplicemente l'odore della crisi.
La politica americana oggi sta tutta dietro le quinte, è una babele di strategie e guerre di comunicati, un percorso minato da inevitabili trappole a cui va incontro ogni candidato alla presidenza ( vedi il caso di Hart,superfavorito alla corsa per la presidenza e defenestrato dal suo stesso partito per un scandaletto sessuale) o addirittura presidente( e chi se lo scorda Clinton e i vestiti tenuti in frigorifero dalla sua stagista prediletta per ricattarlo solo un po'?).
Clooney fa cinema civile? 
Può darsi ma quello che ci racconta lo sappiamo benissimo, basta vedere la cronaca politica ogni giorno.
Solo che negli USA in questo campo mettono in gioco  intelligence da Guerra Fredda e un dispiego di mezzi che raramente si vedono in altre nazioni.
L'elezione di un candidato è scienza matematicamente esatta se si riescono a neutralizzare le incognite e le variabili impazzite.

Le Idi di Marzo è la storia dell'incognita Steve, machiavellicamente disposto a vendersi a chiunque pur di pervenire al suo scopo e della variabile impazzita Molly, stagista molto generosa e incapace di gestire il proprio ciclo ormonale.
Tra il bianco e il nero sono comprese tutte le tonalità del grigio: Le Idi di Marzo è un film sull'ombra grigia che viene proiettata dalla coscienza di ciascuno, non esistono buoni e cattivi.Sono tutti cattivi: sta a noi stabilire quanto.
A meno che candidamente si pensi che davanti allo sguardo fisso di Gosling che scruta nel buio ci sia una concezione morale della politica, della cosa pubblica.
Clooney nella parte di un governatore con dentatura da squalo è la faccia invecchiata del Sogno Americano, quello che è rimasto oltre le macerie degli ideali.
Mai come ora un film del bel Georgino è stato vicino alla sindrome postkennedyana che ha creato molto grande cinema americano anni '70.
Le Idi di Marzo sconta molte analogie con Il candidato di Michael Ritchie del 1972 dove un Redford in capello lungo e basetta chilometrica era costretto ad abiurare le sue idee progressiste per essere eletto.
Poteva essere un film importante se non fosse in pratica un reality show e soprattutto se non soffrisse della patologia del già visto.
Ma è terapeutico per chi ha voglia ancora di indignarsi.
Grandi dinosauri come Giamatti e Seymour Hoffman ballano il fandango sul tetto del mondo.
Ma sanno, come e meglio di tutti gli altri che serve solo un attimo per sprofondare e mai più risalire.

( VOTO : 7 / 10 )  The Ides of March (2011) on IMDb

The divide ( 2011 )


Xavier Gens deve essere un tipetto che prende dannatamente sul serio la politica. 
Dopo la fattoria nazista di Frontier(s) con questo nuovo The Divide , film girato a costo praticamente zero con poco più di una decina di attori rinchiusi in una specie di sarcofago di cemento, ci illustra con come ragionerebbe l'animale uomo messo alle strette dalla necessità di sopravvivenza in uno scenario postapocalittico. In una logica di convivenza forzata stile Big Brother ma senza controlli esterni un campionario di neanche tanto variegata umanità si rifugia nel seminterrato del loro palazzo una volta che è esplosa una bomba atomica. 
E qui viene fuori la bestialità del peggiore animale di tutti: l'uomo. 
C'è chi domina, chi viene dominato senza problemi  e c'è anche chi vuole guadagnare posizioni dentro la scala gerarchica del gruppo. Anche con la violenza.
 Il potere è rappresentato da una cassaforte che contiene provviste per lungo tempo e la lotta si scatenerà proprio per il suo dominio in un crescendo che vedrà il capo originale di fatto estromesso dal comando e la formazione di due gruppetti di cui uno, con cibo e acqua a disposizione, scandirà i ritmi vitali dell'altro elimosinandogli il necessario per vivere.  
Arrivando alla tortura fisica e a ogni forma di prevaricazione pur di ottenere il proprio scopo. 
Qualcosa di simile si era già vista in Blindness di Fernando Mereilles tratto da un libro di Josè Saramago, ma qui il discorso è ancora più estremizzato. 
Sigillati dentro dopo un'estemporanea sortita in cui scoprono l'esistenza di un laboratorio biologico dagli scopi ignoti, la follia percorre tutti i superstiti nel bunker che naturalmente da idioti cominciano a uccidersi l'uno con l'altro. Invece di organizzarsi per tempi migliori col deteriorarsi delle condizioni ambientali, deflagrano anche psiche e coscienze arrivando alla demenza pura. 
Solo per uno di loro c'è una possibilità di salvezza. 
Salvezza? 
Devo dire che  The Divide intriga molto con la sua descrizione realistica del grado di follia che può percorrere la mente (dis) umana. Però forse  Gens stavolta manca parzialmente l'obiettivo, perchè pur affascinando sempre con il suo stile registico sinuoso si comincia a subodorare il sospetto di narcisismo.
Gens si specchia nelle sue belle sequenze e nei suoi forbiti movimenti di macchina.  
Inoltre arrivare alla soglia delle due ore con l' unità di luogo e di tempo è un rischio per un film che dovrebbe essere sicuramente di facile lettura e di ancor più agevole visione. 

L'escalation di violenza fisica e psicologica è come diluita e forse per questo meno efficace mentre colpiscono le metamorfosi (anche fisiche) a cui sono sottoposti alcuni attori che deteriorano e dimagriscono visibilmente.  
Ci sono anche alcuni enigmi che rimangono tali alla fine del film: chi sono i soldati che vengono a rapire la bambina dal seminterrato per metterla in delle capsule all'interno del loro laboratorio ( unica sequenza a parte il finale in cui si esce dal bunker)? E perchè li studiano? Perchè rifiutano ogni contatto con coloro che sono rinchiusi e anzi li sigillano con la fiamma ossidrica? 
Se per l'horror non spiegare troppo può essere positivo per un film sci-fi come questo forse sarebbe stato necessario qualche dettaglio in più. 
Tra le ottime prove attoriali si segnalano quelle dei redivivi Michael Biehn che qui fa il duro( sono passati secoli ormai dai tempi in cui faceva la mammoletta contro il terminator Schwarzy) e Rosanna Arquette che incarna alla perfezione la figura di una specie di Baby Jane aldrichiana del nuovo secolo , immersa nella catatonia dopo la perdita della figlia e bambola di carne per gli impulsi sessuali dei maschi alfa del branco. 
The divide segna il ritorno alla regia di uno dei migliori talenti del nuovo horror francese ma anche Gens come altri suoi colleghi invece di cullarsi sugli allori ha deciso di rimettersi in gioco in un genere totalmente diverso.
 Purtroppo il film, che troverà allo stesso modo schiere di appassionati difensori e di intransigenti detrattori non gli dà completamente ragione.

( VOTO : 7 / 10 )  The Divide (2011) on IMDb

mercoledì 25 aprile 2012

Christiane F.- Noi i ragazzi dello zoo di Berlino ( 1981 )


Per me Christiane F.-Noi i ragazzi dello zoo di Berlino è soprattutto un libro , il film viene dopo. Un libro dei miei 13 anni che mi sconvolse come e più de L'esorcista ,un'altra delle mie letture preferite di quel periodo, stavolta proibita perchè lo leggevo di nascosto dopo averlo rubato alla libreria di mio padre. All'epoca a scuola ci martellavano letteralmente sulla droga perchè l'eroina era un problema sociale allarmante e in forte espansione tra le giovani leve.
Tra i ragazzi della mia età.
C'era paura nei nostri genitori, ma in provincia era tutto ovattato, al telegiornale quando sentivamo dei morti per overdose (un vocabolo che allora neanche conoscevamo) erano soprattutto nelle grandi città.
Ci sembrava che vedessimo tutto attraverso un oblò, ci sembrava che la provincia fosse immune a questa piaga sociale. All'epoca a ogni telegiornale venivamo a sapere di ragazzi morti per droga, del resto c'erano più di 1000 decessi l'anno per droga.
A scuola ci facevano leggere Mario Tobino (Ascolta ragazzo la droga mai) a casa cercavamo qualcosa di meno teorico e più "vero"
E a questo identikit corrispondeva Christiane F. -Noi i ragazzi dello zoo di Berlino,  libro capace di evocare gli incubi peggiori.
Quando uscì il film mi catapultai letteralmente al cinema per vederlo. Credo che non avessi nemmeno 14 anni , l'età giusta per non incorrere in quel divieto. Ma dimostravo di più quindi non ebbi problemi a entrare nel cinema.
Non è mai corretto confrontare l'immagine con la pagina scritta ma giocoforza vien da farlo.
E la prima cosa che voglio sottolineare è che qualsiasi regista sarebbe stato incapace di riprodurre fedelmente quello spaccato di umana disperazione che è descritto in modo così potente nelle pagine del libro. Un libro verità, nato da interviste, il mondo della droga visto da dentro.
Nello stile scarno e semidocumentarista di Uli Edel Berlino diviene l'avamposto dell'inferno sulla terra dove un brulicare di anime, inconsapevoli del proprio destino segnato, cerca rifugio in paradisi artificiali purtroppo a tempo determinato. Dopo quel trip, quel viaggio di poche ore, si ritorna sempre al punto di partenza. 
E ogni volta è sempre peggio. 
Si cade sempre più in basso.
Berlino è un luogo freddo e buio, gli angoli delle strade vicino alla stazione sono un pò tutti uguali e questi giovani cominciano a bucarsi un pò per gioco, un po' per curiosità.
Addirittura il primo buco per Christiane è un regalo per il suo quattordicesimo compleanno.
Bel regalo.
Nonostante le resistenze del suo innamorato Detlef, già caduto in quel vortice e costretto a prostituirsi per comprare eroina, Christiane vuole provare, dice che lo farà una sola volta, che sa gestire bene le sue reazioni, che può smettere quando vuole.
Ma quel primo buco è semplicemente l'inizio della sua fine.
Perchè Christiane F comincia a drogarsi? 
La risposta non c'è nel libro,nè nel film. 

Il dato di fatto è che la sua situazione familiare è complessa. La madre non le sta dietro,l'ha investita di troppe responsabilità.Troppe e troppo presto. E lei ha scelto di deviare dalla retta via trascinata dal flusso delle sue amicizie e dal mito dello sballo che si faceva largo tra i giovani di quell'epoca. 
A 13-14 anni è costante la ricerca del proibito e bere superalcolici, fumare tabacco, marijuana, hascisc (come la protagonista) o anche assumere qualcosa di molto più pesante poteva essere per Christiane un modo per sentirsi vicina ai suoi amici, per trovare nella maniera sbagliata quel sentimento di appartenenza al "gruppo" che regola molte giovani coscienze.
A 14 anni esisti solo se fai parte di qualche "gruppo". 
Se sei solo non esisti.
Purtroppo per Christiane il suo gruppo è composto per lo più di ragazzi come lei, con una situazione familiare complessa, senza controllo nè freno, liberi di uccidersi come meglio credono.
Il lavoro di Edel è notevole perchè riesce a dare un'unità narrativa a un libro intervista pieno di episodi slegati tra di loro, lo sfronda di diversi personaggi effettivamente di dubbia collocazione nella storia di Christiane (protagonisti di singoli episodi raccontati dalla giovane), riesce a creare qualcosa di molto credibile.
La Berlino plumbea e inospitale di questo film è qualcosa che rimane nella memoria.
Se c'è qualcosa che manca in questo film è la parte dedicata alla disintossicazione che nel libro ha molta importanza. Qui è trattata molto velocemente e le immagini,seppure molto forti,  non restituiscono che un minimo della brutalità della pagina scritta.
Da citare la colonna sonora di David Bowie, idolo incontrastato di questi quattordicenni, con la sua Heroes che commenta costantemente il film.
Christiane F. Noi i ragazzi dello zoo di Berlino non farà parte della storia del cinema ma oggi appare come un importantissimo e soprattutto fedele documento di un'epoca .
Christiane F ora vive da qualche parte in Germania,lontana dai riflettori.
La sua vita è stata rovinata dalla droga.

( VOTO : 8,5 / 10 )  Christiane F. (1981) on IMDb