I miei occhi sono pieni delle cicatrici dei mille e mille film che hanno visto.
Il mio cuore ancora porta i segni di tutte le emozioni provate.
La mia anima è la tabula rasa impressionata giorno per giorno,a 24 fotogrammi al secondo.
Cinema vicino e lontano, visibile e invisibile ma quello lontano e invisibile un po' di più.

venerdì 28 febbraio 2014

Nebraska ( 2013 )

Woody, incamminato sulla strada della demenza senile dopo una vita di eccessi alcolici, è convinto di aver vinto un milione di dollari a una lotteria che in realtà è solo una mossa pubblicitaria. Si mette in testa di partire dal Montana per arrivare al Nebraska, sua terra di origine per ritirare la vincita. E il figlio David,desideroso solo di accondiscendere l'ultimo sogno di un vecchio a cui è rimasto forse poco da vivere, decide di accompagnarlo in auto facendo visita al fratello del padre  e fermandosi ad Hawthorne, loro paese natale, a 200 miglia da Lincoln, città in cui devono ritirare il premio. David scoprirà tante cose sul passato del padre, tanti vecchi amici e "nemici", tanti avvoltoi che gli staranno intorno perchè convinti che veramente Woody ha vinto quei soldi, ma soprattutto padre e figlio si arricchiranno entrambi di un rapporto che probabilmente non avevano mai avuto.
Ormai Alexander Payne ci ha preso gusto : ha deciso che il road movie è il suo genere.
Genere cinematografico però declinato alla sua maniera, sbilenca, laterale, i suoi sono film di viaggio fisico ma soprattutto esistenziale e Nebraska ne è ottimo esempio dopo A proposito di Schimidt, Sideways e Paradiso Amaro.
La storia del vecchio Woody ( un grandissimo Bruce Dern che si è portato a casa il premio per miglior attore protagonista a Cannes ed è candidato anche all'Oscar) è anche un perfido excursus nell'ipocrisia di rapporti familiari di facciata, un viaggio in un passato complesso e irrisolto in cui vengono fuori i suoi problemi di alcolismo e tutta una serie di cosucce sepolte in un passato rivangato anche non volendo.
E David è lì, premuroso, comprensivo eppure sorpreso dallo scoprire diversi lati del padre che non aveva mai conosciuto prima, si trova nelle condizioni di chi scopre, nascosto in soffitta, sepolto dalla polvere degli anni che sono trascorsi, un vecchio album di fotografie di famiglia di cui ignorava l'esistenza e si mette avidamente a sfogliarlo.
La fame di conoscere il passato del padre e della sua famiglia e di rimbalzo qualcosa sulla sua infanzia trascorsa in quel di Hawthorne, piccolo paesello del Nebraska in cui il tempo sembra si sia fermato è la molla che spinge David nell'accompagnare le scelte di un padre un po' assente ma deciso a ritirare quel premio, come se fosse l'ultima cosa da fare nella sua vita.
Hawthorne, Nebraska :tutto immutato e tutto immutabile, una popolazione fatta dai ragazzi di cinquanta anni prima ora diventati vecchi e senza alcun ricambio generazionale.
E anche quelli che sono giovani dal punto di vista strettamente anagrafico ( i cugini di David ) sono irrimediabilmente vecchi dentro, resi decrepiti da un luogo senza prospettive se non quella di vegetare sotto il portico della loro casa a trangugiare lattine di birra economica, riunirsi davanti alla tv a vedere la partita, o trascorrere tristerrime serate al pub cantando il karaoke, un divertimento da pensionati parecchio in là con gli anni.
Payne ha poi il gusto beffardo di disegnare personaggi al limite del grottesco, forse anche oltre ( vedi i succitati cugini di David, due manzi che definire limitati mentalmente è già un gran complimento) e di orchestrare una sarabanda di rapporti familiari in cui il veleno viene sparso a piene mani.
Paradigmatico il personaggio della moglie di Woody, madre di David, che li raggiunge a Hawthorne assieme all'altro figlio, e che si toglie energicamente dei sassolini nella scarpa , in realtà dei veri e propri macigni in barba a qualsiasi rispetto e correttezza politica e religiosa ( da collasso la scena al cimitero in cui commenta le gesta terrene di molti trapassati che conosceva).
Tra L'ultimo spettacolo e Una storia vera , Nebraska è un viaggio alla ricerca di se stessi e di una dimensione mai avuta prima.
Il tutto filtrato da un'aura nostalgica che qua e là regala dei tocchi di vera e propria poesia.
Payne si dimostra ancora una volta a suo agio nel road movie a bassa velocità , canta ancora una volta l'America che non sta mai in prima pagina, quella delle profonda provincia in cui si capita sempre per sbaglio e non per reale volontà.
Il Nebraska più che un dettaglio geografico diventa quasi un approdo mitologico per anime perdute, lo sfondo ideale per una ballata folk suonata con poche , ma decise pennellate di plettro su una chitarra acustica che intona una melodia malinconica.
Bruce Springsteen cantava il  Nebraska, ora anche Payne lo canta in un bianco e nero morbido e avvolgente, struggente allo sguardo.
Il Nebraska è ovunque e in nessun luogo.
O forse tutti noi abbiamo un pezzetto di Nebraska nel cuore.
Tutto sta a ritrovarlo....

( VOTO : 8 / 10 )

 Nebraska (2013) on IMDb

giovedì 27 febbraio 2014

Last Vegas ( 2013 )

Billy, scapolo impenitente ormai avanti negli anni finalmente si decide a fare il gran passo. Si vuole sposare con la sua fidanzata Lisa che non ha nemmeno la metà dei suoi anni. Per festeggiare il suo matrimonio con un addio al celibato memorabile chiama i suoi vecchi amici di infanzia: Sam, con un matrimonio ormai privo di emozioni, Archie, rimasto vedovo, nonno infartuato marcato a uomo da un figlio troppo premuroso e Paddy, anche lui vedovo ma solitario e misantropo che non ha mai perdonato a Billy l'assenza al funerale della sua amatissima moglie.
E quale meta migliore per un weekend da ricordare? Las Vegas, terra dei matrimoni effimeri e dei divorzi al fulmicotone.
Intanto ci sarà l'occasione per fare il punto delle rispettive vite e appianare qualche vecchia divergenza.
E ci sarà spazio anche per nuove conoscenze....
Non amo molto il genere della commedia geriatrica che per definizione ha sempre un mal celato fondo di patetismo che è duro da rimuovere anche ben oltre i titoli di coda.
Insomma sempre un certo retrogusto amarognolo e malinconico che personalmente non gradisco più di tanto.
Ma con un cast del genere è difficile evitare la visione anche se al timone c'è un regista buono a poco ma capace di tutto come Jon Turteltaub, il perfetto regista aziendale, il braccio armato della major, professionale ma con uno stile anonimo quanto basta, capace più  di dirigere il traffico che di fare il regista, il perfetto tappetino accomodante che riesca a convivere senza problemi con tutto questo parterre de roi a disposizione davanti alla macchina da presa.
Aggiungiamoci anche una sceneggiatura non propriamente irresistibile e che ha il difetto capitale di sparare tutte le sue migliori cartucce nella prima parte del film ( strepitosa la battuta sull'emorroide di Archie che compie 32 anni come la fidanzata di Billy) e poi si adagia nel più classico buonismo da commedia per famiglie hollywoodiana, reazionaria il giusto, tanto per far riscivolare il tutto nell'ambito del solito bieco, puritano bigotto moralismo che piace tanto alla massaia dell'Alabama.
Quindi tutte coppie ufficiali, tutti coetanei e addirittura si rifiuta il sesso offerto da procaci donzelle nel fiore degli anni.
Un po' troppo per essere vero.
Lo schema da cui si parte è quello della classica notte da leoni allungata a weekend e solo grazie alla verve dei quattro giovani scavezzacollo protagonisti ( si va dai quasi 67 di Kline fino ai quasi 77 di Freeman) il tutto non si trasforma in una notte da pannol(e)oni.
I quattro ribaldi tengono bene la scena anche se l'età è ormai avanzata e cercano di salvarsi con l'ironia, cosa abituale per De Niro, Freeman e Kline, un po' meno per Douglas che a vederlo sembra quello che porta di più ( e peggio) i segni dell'età.
Son quasi 70 e la sua situazione clinica è stata abbastanza complessa fino a poco tempo fa.
A tratti rendono il film piacevole, al di là della melassa generosamente cosparsa nella seconda parte del film e nell'epilogo prevedibile quanto atteso sin dalla prima sequenza.
Anche il tentativo di fare qualche riflessione sulla paura che hanno i quattro di invecchiare nella più completa solitudine, è una digressione velleitaria più che altro.
Last Vegas è un carrozzone per far ridere guidato da vetturini un po' anzianotti ma ancora validi.
Del resto con tutto quel brillante avvenire che hanno dietro le spalle....

( VOTO : 5 / 10 ) 

Last Vegas (2013) on IMDb

mercoledì 26 febbraio 2014

Atlantic Rim ( 2013 )

Una piattaforma petrolifera nel mezzo del mare del Messico affonda improvvisamente. Il team di ricerche inviato per indagare sull'accaduto scopre che la causa è un terribile mostro marino preistorico e scopre anche che ci sono due uova gigantesche che stanno schiudendo. La Marina americana manda tre robottoni antropomorfi a distruggere i mostri che intanto si stanno moltiplicando. Il problema è anche all'interno delle gerarchie militari perchè c'è chi sta organizzando un attacco nucleare per spazzare via i mostri. E spazzerebbe via anche una parte di popolazione....
Insomma quesa settimana è dedicata al cinema di qualità....
Avevo detto che non ci sarei ricascato e invece non ce l'ho fatta, eccomi qui , con mani e piedi legati di fronte all'ennesimo inqualificabile prodotto della Asylum productions. Ci sono le attenuanti però: ci sono i robottoni che prendono a mazzate i giganteschi mostri marini, una cosa che mi ha attirato sin dalle domeniche mattina passate al cinema dell'oratorio, annesso alla Chiesa, a guardare i film di Godzilla, quelli giapponesi anni '50 per intenderci.
Che cosa aspettarsi da un film che può vantare orgogliosamente una valutazione di 1,6 su imdb.com?
Solo il peggio e in un certo senso, anzi in molti sensi , siamo accontentati.
Viene servito il peggio del peggio.
Il problema stavolta non è tanto la qualità visiva del prodotto, sempre scadente, con effetti in computer grafica che sono veramente risibili, ma è meglio non soffermarcisi tanto perchè quelli più o meno ce li aspettiamo, ma quanto l'aggiunta di dettagli narrativi inutili oltre alle onnipresenti sequenze WTF ( diconsi What the Fuck?) in cui i protagonisti si esibiscono senza un briciolo di vergogna.
Così abbiamo Red, una specie di incrocio tra McGyver e Kevin Bacon che si fa il figo continuamente eppure è cornificato senza pietà dal suo amico nero che limona senza problemi con la sua ragazza , una biondona veramente ben dotata fisicamente che però rovina tutto con le sue labbra che stanno sempre a cuoricino, abbiamo un esercito che va in giro per la città a salvare vite ma gli abitanti se ne fregano nella maniera più assoluta ( ma come ? c'è un mostro marino che sta uscendo dal mare e la gente sta facendo bagordi sulla riva? e poi viene mandata una squadra per farli evacuare composta da cinque-militari-cinque?).
E che dire di navi e aerei mandati in soccorso le cui immagini sono chiaramente prelevate da altri film o documentari? E dei morti lasciati a caso agli angoli delle strade per rendere i mostri marini ( che poi sono dei volgari lucertoloni, non si sono sforzati neanche di dargli un design un minimo attendibile) più cattivi?
E il personaggio del militare monocolo che organizza un attacco nucleare in barba a qualsiasi concetto di gerarchia militare?
Il salvataggio di una delle bambine più brutte della storia del cinema? L'evasione di Red da una prigione che sembra fatta di cartone pressato?
E per finire , vogliamo parlare di uno dei robottoni che affronta il mostro marino armato con un minacciosissimo schiacciamosche?
Purtroppo manca l'ironia contagiosa e cazzona di uno Sharknado, a posteriori un vero e proprio cult, anche se non si può non  sorridere di fronte a robot antropomorfi che sembrano dei giocattoli vintage ( diciamo i robot di plastica con cui si giocava ai miei tempi) o al massimo dei Power Rangers....
La cosa da riconoscere alla Asylum è sempre la scaltrezza ( oltre la velocità) con cui in quattro e quattro otto mettono su questi mockbusters a imitazione di mega produzioni hollywoodiane e anticipando sempre l'uscita del corrispondente film della major.
Io da parte mia prometto di non ricascarci : niente più produzioni Asylum.
Ma forse la mia è una promessa da marinaio un po' come quella sui found footage o sui mockumentaries: sempre a dire che li evito , però poi non me ne faccio sfuggire uno.
E poi quest'anno esce Sharknado 2...
Mica possiamo farcelo sfuggire...no, no, no...

( VOTO : 2,5 / 10 )

Atlantic Rim (2013) on IMDb

martedì 25 febbraio 2014

Cabin Fever: Patient Zero ( 2014 )

Un gruppo di amici sta organizzando un addio al celibato indimenticabile per lo sfortunato di loro che si sposa. Noleggiano uno yacht e si fanno portare presso un'isoletta deserta sconosciuta anche alle carte geografiche. La sfiga vuole che l'isola in realtà non sia così deserta ma contiene il laboratorio del dottor Edwards che ha scoperto una nuova epidemia di una malattia virale che distrugge la carne umana e ha isolato il paziente zero, imprigionandolo per studiarlo visto che , pur essendo un serbatoio della malattia, non presenta alcun sintomo. La situazione è però sfuggita di mano a Edwards perchè è praticamente rimasto solo con due dottoresse e tutti gli altri del laboratorio sono morti contaminati dal virus. E l'arrivo dei quattro amici, due dei quali contaminati dal virus , complica ancora di più la situazione.
Anche perchè il paziente zero, cioè il vettore da cui è partita la malattia non è che abbia voglia di restare ancora imprigionato....
Sequel o meglio prequel apocrifo ambientato in Repubblica Dominicana di un brand creato da Eli Roth con il film del 2002, una pellicola che aveva diviso la platea horror tra sostenitori indefessi e accaniti detrattori.
Dopo un sequel del 2009, più o meno ufficiale che è stato diretto dal talentuoso Ti West, siamo al terzo film , ancora più a basso budget del primo e del secondo film , diretto da Kaare Andrews che ha al suo attivo vari corti, un film visto dai soliti quattro gatti, Altitude,  e un segmento ( la lettera V ) di ABCs of Death, cinque minuti di cui non ho neanche il ricordo più pallido.
Parlar male di questo film è un po' come tirare sul pianista o sparare sulla Croce Rossa ma al suo interno ha quei due tre momenti che risollevano un po' la qualità non proprio altissima del tutto.
In un andamento comune a millemila altri horror con la solita mezz'ora accademica di ritardo in cui succede poco o nulla ( a parte qualche scena del laboratorio che fa intuire quello che avverrà) si cerca di inserire qualche variazione sul tema : come al solito personaggi trattati come carne da macello che non si empatizzano per nulla, il crescendo standard di sangue e frattaglie ma d'altro canto abbiamo un paziente zero che non è solo una vittima innocente come sembra e questa già può essere considerato un piccolo barlume di originalità, una lotta selvaggia tra due infette che procede anche con armi non convenzionali ( chi vedrà il film capirà che cosa intendo, diciamo una cosa abbastanza ironica, ci mancava solo il fango e che le due ragazzuole lottassero tra di loro vestite solo di bikini ridottissimi) in cui le due ex bellezze perdono pezzi peggio delle case romane di Pompei e un finale che viene snocciolato durante i titoli di coda in rewind,
spiegando un po' meglio gli avvenimenti ( soprattutto il passaggio da laboratorio affollato e in piena efficienza alle macerie e ai morti trovati dai quattro vacanzieri) e raccordandosi agli altri episodi ...più o meno.
Altra cosa positiva è che di computer grafica non c'è traccia: è tutto fatto artigianalmente e diciamo che il reparto effetti e make up non sfigura di fronte a produzioni ben più danarose.
Cabin Fever: Patient Zero non è un film da difendere propriamente a spada tratta, ma non è neanche lo sfacelo che immaginavo quando mi sono apprestato a vederlo.
Ha una bella ambientazione esotica, un gruppo di attori che non sono così cani e degli effetti di make up che riescono a impressionare.
Certo non è nulla da ricordare,anzi.
Diciamo bruttino ma con grazia, cerca di essere simpatico non prendendosi mai troppo sul serio , questi film fatti in modo piuttosto rustico in qualche maniera estorcono almeno la simpatia per le maestranze che vi hanno operato e poi almeno non abbiamo come protagonista la solita manica di imbecilli che inanella minchiate in serie.
Diciamo che nelle loro azioni c'è una certa logica, poca, ma c'è.
Cabin Fever : Patient Zero è uscito direttamente in dvd. Si vocifera di un ulteriore sequel/prequel che dovrebbe vedere la luce nel 2014.
Beh , speriamo di no.....

( VOTO :  5 / 10 ) 

Cabin Fever: Patient Zero (2014) on IMDb

lunedì 24 febbraio 2014

12 anni schiavo ( 2013 )

Saratoga , New York 1841 : Solomon Northup è un violinista affermato, marito felice e padre di due bambini. Un giorno viene attirato da due tizi a Washington con la promessa di un buon ingaggio. Invece viene drogato e rapito, consegnato a un losco affarista che lo rivende , prima a un padrone abbastanza illuminato, il signor Ford che però ha come sottoposto il viscido Tibeats che lo odia senza mezzi termini e poi viene rivenduto allo psicopatico Epps, uno schiavista duro e spietato che vede i suoi negri solo come schiavi senza alcun diritto. Questo inferno sarà la vita di Solomon in attesa che qualcuno venga a liberarlo.E un giorno conosce un abolizionista, guarda caso di origine canadese.....
Continua il nostro viaggio all'interno della lista dei film che concorreranno all'Oscar nella ormai sempre più prossima notte dedicata.
E questo rischia di essere il più autorevole: 9 candidature e un tema importante, come quello dello schiavismo che è ancora una ferita aperta, una piaga ulcerata nell'ancora giovane storia americana.
Si sa di come agli americani piaccia tanto sbandierare la loro storia ai quattro venti e 12 anni schiavo di Steve McQueen, oltre che regista , videoartista di grande pregio, in questo senso è perfetto.
E' in grado di toccare le corde emotive più nascoste, di stimolare adeguatamente nervi scoperti, getta una luce inquietante su tutta la retorica nazionalista che sta alla base del cosiddetto Sogno Americano raccontando una storia vera che ha dell'incredibile.
Solomon Northup vive 12 anni di incubo in una nazione schiavista e razzista, arretrata dal punto di vista dei diritti civili e dell'ordinamento giudiziario, la sua vita da schiavo è un urlo accorato contro la piaga della discriminazione razziale, un qualcosa da trattare un po' come si fa con la polvere da nascondere sotto il tappeto.
Il punto è proprio questo: Steve McQueen non lascia proprio nulla all'immaginazione, lavora come sa fare lui sui corpi stavolta martirizzati dalla frusta che vi apre solchi sanguinanti come autostrade, disegnando però personaggi eccessivi in un senso o nell'altro.
12 anni schiavo è un film in cui tra il bianco e il nero non c'è alcuna tonalità di grigio: o si sta da una parte o dall'altra. O si è un bianco schiavista o si è un negro schiavo.
E gli unici fattori di perturbazione , guardacaso sembrano non appartenere allo stesso mondo in cui vivono Epps e Northup, l'alfa e l'omega di tutto il film, i due estremi che diventano due simboli di umanità e di disumanità.
In questo McQueen dimostra di essersi abbastanza appiattito sui dettami hollywoodiani: se il suo lavoro visuale è estremamente personale, la scrittura è semplificata, quasi deteriore,.un bignamino ad uso e consumo del grosso pubblico che dovrà indignarsi e uscire dalla sala con le lacrime agli occhi, di rabbia e di commozione.
Un po' troppo didascalismo per far tracimare l'impegno civile di una pellicola come questa in cui tutto deve essere a vista, una sorta di open space in cui tutto dovrà essere perfettamente comprensibile alla vulgata cinematografica che poi assegnerà gli Oscar.
Il primo film hollywoodiano del britannico, nero, McQueen , rischia di averci fatto perdere un talento che aveva soggiogato e fatto girare la testa a molti con film come Hunger e Shame, film indubbiamente più astratti e cerebrali di questo 12 anni schiavo che risulta a conti fatti  quasi una semplificazione del lavoro di un regista che arrivato ad Hollywood per imporre il suo stile se ne torna a casa magari con la saccoccia piena di premi ma levigato nel suo modo di fare cinema altrove senza compromessi.
Eccellente il comparto attoriale che vede un protagonista come Ejiofor che lavora per sottrazione sul suo personaggio e un antagonista come Fassbender, la sua nemesi , che fa tutto l'opposto sovraccaricando il suo odioso personaggio, mentre fanno macchia i camei piuttosto insipidi di un Brad Pitt dalla barba caprina e di  Cumberbatch , nei panni del mite Ford ( uno dei personaggi meno spiegabili del film, gentile con i suoi schiavi ma allo stesso tempo incapace di rinunciare a loro....).
Insomma 12 anni schiavo è un film importante ma un filo deludente soprattutto per chi si aspettava da McQueen qualcosa di bello ed estremo.
Qui invece ci troviamo di fronte a un solido melodramma che lascia solo intuire le potenzialità di un regista che ha un talento come pochi.
Si riporterà a casa la sua bella vagonata di Oscar. Sperando che non abbia come al solito cannato il pronostico.
Durante i titoli di testa la bradipa mi fa sottovoce: "Ma di che parla, della storia di Kunta Kinte?"
E io " No, parla del fratello..." Lei un po' sospettosa che me ne stia uscendo con una delle mie solite cazzate un po' sostenuta mi dice " E chi sarebbe questo fratello?"
Sentendomi un po' come il George dell'immortale sitcom inglese George e Mildred le rispondo " Kunta Tore!"
E mi prendo subito il mio schiaffone d'ordinanza.....
Ecco con questa cosa vergognosa direi che per oggi la possiamo anche finire qui....

( VOTO : 6,5 / 10 ) 

12 Years a Slave (2013) on IMDb

domenica 23 febbraio 2014

Italia anni '70 - Roma violenta ( 1975 )

Il commissario Betti, fortemente segnato dalla morte violenta di un fratello diciottenne si trova ad indagare sull'omicidio di un ragazzo diciassettenne ucciso durante la rapina ad un autobus. Le indagini condotte grazie all'ausilio di infiltrati permettono di scoprire i colpevoli. Betti ama poco le scartoffie, vuole azione e giustizia anche con metodi piuttosto spicci. Ed è per questo che viene allontanato dalla polizia quando uccide un rapinatore colto in flagrante, detto il Chiodo, che per coprirsi la fuga non aveva esitato neanche un secondo a uccidere a colpi di mitra tre bambini, oltre ad aver ridotto a vita su una sedia a rotelle il collega di Betti intervenuto assieme a lui per sventare la rapina. Uscito dalla polizia Betti viene reclutato da una piccola organizzazione di professionisti e commercianti vittime di violenze e stanchi di essere rapinati , che organizzano ronde notturne per cogliere i furfanti sul fatto. 
Il capo di questo gruppetto di cittadini amanti della giustizia fai-da-te è l'avvocato Sartori che sarà vittima di una vendetta atroce da parte di una coppia di malviventi. 
Betti capisce che neanche questo è il modo ideale per fare giustizia....
C'era un tempo agli inizi degli anni '70 in cui il cinema italiano aveva cominciato a guardare voluttuosamente all'action di Oltreoceano, ai vari Steve McQueen , a Il braccio violento della legge e più precisamente alla saga dell'ispettore Callaghan che già era una variazione "vitaminica " del genere che era stato sdoganato da poco anche in sede di premi Oscar( i 5 Oscar vinti proprio da Friedkin con Il braccio violento della legge).
In Italia fu la volta di un film di Enzo G.Castellari con protagonista Franco Nero , La polizia incrimina la legge assolve, che dava una nuova credibilità al film poliziesco italiano. I produttori dell'epoca , dopo il successo di quel film cominciarono a pensare a una sorta di sequel apocrifo diretto dallo stesso regista e con lo stesso protagonista, Franco Nero, nel ruolo del commissario Belli.
Ma Castellari litigò con la produzione, Franco Nero costava troppo perchè ormai era attore di successo consolidato, così intervenne Marino Girolami ( regista di lungo corso che aveva fatto un po' di tutto nella sua carriera, dai musicarelli ai film di Franco e Ciccio per finire con Alvaro Vitali e i film di Pierino, l'ultimo suo film è Gigi il bullo) , padre di Enzo G. Castellari, nato Enzo Girolami, che girò il film con lo pseudonimo di Franco Martinelli.
Come attore protagonista fu ingaggiato una specie di surrogato di Franco Nero, almeno dal punto di vista fisico: si trattava di Maurizio Merli, aspetto nordico, capello biondo e mustacchio scuro, atletico, ben messo fisicamente e sprezzante del pericolo tanto da girare anche le scene più pericolose senza controfigura.
Era nato il mitico commissario Betti ( anche il nome è simile a quello del commissario de La polizia incrimina , la legge assolve), protagonista di un ideale trilogia che vede assieme a questo film  un altro paio di titoli veramente cult come Napoli violenta , che per me è l'apice del genere, e Italia a mano armata.
Il successo di pubblico fu straordinario, oltre due miliardi e mezzo di lire che per un film uscito nel pieno della canicola estiva agostana erano un risultato eccezionale.
Era stato creato un nuovo genere, ribattezzato un po' per gioco e un po' per denigrarlo, poliziottesco, un'estremizzazione del concetto di genere poliziesco però tutto italiano.
E all'epoca noi italiani dal punto di vista tecnico non avevamo niente da invidiare a nessuno e chi vedrà Roma violenta se ne potrà rendere conto molto agevolmente.
Sbertucciati senza pietà dai critici dell'epoca ( però riempivano le sale ) e oggetto di una rivalutazione molto accesa in epoca più moderna, forse anche eccessiva per certi versi e soprattutto acritica verso titoli appartenenti al genere e assolutamente non all'altezza  , Roma violenta e i suoi figliocci putativi erano il frutto del fermento sociale che si agitava all'epoca.
Roma violenta è accusato senza termini di essere un prodotto populista e fascistoide , come altri polizieschi dell'epoca : ok, in apparenza è così perchè i poliziotti sono tutti belli e buoni, mentre i malviventi sono tutti brutti, vestiti male ( e vagamente sinistrorsi all'apparenza) e spietati, è così anche perchè il tema della giustizia fai-da-te, era  molto sentito da una certa frangia politica e c'era una contrapposizione selvaggia tra destra e sinistra.
Nel mio piccolo mi permetto di dubitare: questi film erano prodotti esclusivamente per fare soldi, era stato creato un nuovo genere in cui le sequenze dovevano essere spettacolari e spericolate, in cui la parte action doveva prevalere su quella poliziesca non lesinando sulla violenza.
La struttura narrativa di Roma violenta ne è testimonianza lampante: c'è un filo conduttore in tutto il film ma l'andamento è rapsodico, non c'è una storia che ha un inizio e una fine , è solo un frame di divenire colto nei 90 minuti di proiezione che prendono in considerazione vari casi passati tra le mani del cazzutissimo commissario Betti, il terrore della criminalità romana di basso e medio cabotaggio, un mito per i suoi colleghi e un incubo per i suoi superiori, costretti a coprire loro malgrado le gesta di un poliziotto che ha un concetto tuo suo del tema della giustizia e del metodo di indagine.
Queto film doveva essere qualcosa di forte da dare in pasto alle fauci fameliche del pubblico italiano in cerca di emozioni.
Roma violenta lo era. E' forte ancora oggi.
Si veda la lunga scena dell'inseguimento nella parte centrale del film: il commissario Betti a cavallo della sua Giulia amaranto insegue per tutta Roma la BMW grigia in cui c'è il rapinatore detto il Chiodo.
Che ha da invidiare ad analoghe scene del cinema action americano? Assolutamente nulla.
Vogliamo parlare poi delle soggettive di cui Girolami fa ampio uso durante i dieci-minuti-dieci di questo inseguimento o di quella inquadratura particolare ad altezza asfalto con la  ruota sinistra della Giulia in primissimo piano?
E quanto è figo Betti quando col piede destro, in un'azione altamente acrobatica rompe con vari colpi del suo piede destro il parabrezza incrinato della sua auto continuando l'inseguimento come se nulla fosse ed evitando di fermarsi?
Vedete voi se ci riuscite: come minimo vi parte una rotula, l'articolazione coxofemorale e anche un paio di vertebre sacrali.
Roma violenta e i poliziotteschi in genere probabilmente non erano ritratti oggettivi e realistici di quello che succedeva in Italia in quel periodo. Erano estremizzazioni spettacolari che partendo da un sentire comune e dalla sensazione continua della precarietà della sicurezza ( che ancora oggi c'è anche se i reati , statisticamente parlando sono in calo).
Gente come Girolami, Castellari, Lenzi ecc ecc se ne fregava della politica.
A loro interessava fare soldi.
E Roma violenta ne fece un mucchio.
Rivisto con gli occhi di oggi fa ancora un certo effetto vedere Betti che picchia come un fabbro e spara come un pistolero, fa effetto anche trovare una scena parecchio forte per l'epoca come la violenza sessuale perpetrata sulla procace figlia dell'avvocato Sartori , proprio sotto gli occhi del padre o anche la scena dell'ostaggio preso durante la rapina in banca che viene scaricato sull'asfalto senza pietà , uccidendolo sul colpo.
Si vuole colpire intenzionalmente sotto la cintola e ci si riesce.
E in più si aggiunge il fattore nostalgia perchè oggi non siamo più capaci di fare film di questo tipo.
Non ci sono più i grandi artigiani che avevamo prima.
Forse è per questo che facciamo solo commedie....

( VOTO : 7 + / 10 )   

Violent City (1975) on IMDb

sabato 22 febbraio 2014

The monkey's paw ( 2013 )

Jake riceve in dono da un suo collega di lavoro un talismano piuttosto particolare: una zampa di scimmia in grado di esaudire tre desideri. Più per curiosità che per credulità mette alla prova il talismano e questo funziona. Il problema è che mentre è a cavallo del suo primo desiderio, un auto sportiva, muore accidentalmente il suo collega di lavoro Cobb con cui stava facendo un giro ad alta velocità.
Il secondo desiderio è quello allora di riportare Cobb in vita , non dimenticando di buttare via il talismano per non farsi esaudire il terzo desiderio visto che il primo gli ha rovinato la vita .
Il problema è che Cobb è tornato in vita ma ora è una specie di zombie che lo perseguita affinchè Jake spenda il suo terzo desiderio: far riunire Cobb a suo figlio che gli è stato sottratto dal tribunale.
Per ottenere questo è disposto a uccidere.
E non si fa scrupolo a farlo .
Jake dovrà ritrovare la zampa di scimmia e esprimere il suo terzo desiderio....
The monkey's paw è tratto dall' omonimo racconto di William Wymark Jacobs pubblicato in Inghilterra nel 1902 e riaggiornato ai tempi odierni oltre che ambientato nello scenario fascinoso di New Orleans , città che mostra ancora evidenti i segni lasciati dal passaggio di Katrina.
E viene mostrata in tutta la sua virulenza la crisi economica descrivendo una fabbrica in cui le condizioni di lavoro si fanno sempre più difficili e un ambiente proletario in fermento, fatto di uomini e donne che cercano di non crogiolarsi nell'assenza di prospettive ma di ottenere qualcosa di meglio nel futuro.
E la zampa di scimmia, amuleto misterioso eppure potentissimo, rappresenta un  po' il desiderio di fuggire sia metaforicamente che realmente da una situazione economica complessa.
Se per Jake la felicità coincide con la sicurezza economica e con la possibilità di togliersi qualche sfizio, per Cobb, operaio più anziano, inacidito dall'età e dalla solitudine , la felicità coincide nel riunirsi col figlio dodicenne, anche solo per portarlo a una partita di baseball.
Tutto questo gli viene negato da un tribunale ma solo a causa del suo comportamento perlomeno discutibile.
E se il suo comportamento era quantomeno criticabile da vivo, figuriamoci quando ritorna dall'aldilà grazie al secondo desiderio di Jake che vuole far finta che tutto quello che gli è successo non è mai accaduto ed è solo un brutto sogno.
Sta tutto qui il meccanismo horror del film che in fondo può essere considerato un piccolo apologo su quanto sia una fregatura il libero arbitrio concesso così generosamente all'animale uomo: Cobb, che si deteriora sempre di più ogni giorno che passa, sia mentalmente che fisicamente ( è una specie di zombie), vuol spingere Jake a spendere il terzo desiderio facendolo riunire al figlio. E per convincerlo non esita a fargli terra bruciata intorno, a eliminare tutti quelli che possono essere un ostacolo tra lui e suo figlio.
Con le dovute proporzioni The monkey's paw mi ricorda un po' lo Stephen King di A volte ritornano ma soprattutto quello di Pet Semetary in cui la zampa di scimmia è sostituita da un cimitero per animali in grado di far ritornare dall'aldilà.
Ma forse tutto parte da Avati e dai terreni k del suo superbo Zeder.
In tutti i film citati si parla di ritornanti anche se da prospettive diverse.
The monkey's paw pur avendo un'ossatura non propriamente originale si fa piacere perchè schietto , diretto, senza tanti sofismi e con una regia che non si fa trasportare da eccessi splatter ( che pure non vengono negati ) ma preferisce concentrarsi sulla creazione di un'atmosfera sulfurea malsana in preparazione del gran finale.
Sotto questo punto di vita ha un look molto anni '80 e se questo potrà dispiacere ai novelli fanatici dell'horror per uno come me che ha vissuto in pieno quella stagione ( e l'ha vissuta al cinema) , vedere un film come questo è come una rimpatriata tra vecchi amici, una di quelle serate in cui non si fa nulla di speciale proprio perchè il solo stare assieme , magari di fronte a un bicchiere di quello buono, è speciale.
Ecco The monkey's paw è come una di quelle serate: conta l'atmosfera più che la qualità ( peraltro in questo caso non disprezzabile) ,  è un viaggio di un'oretta e mezza  in memoriam di una stagione horror che ormai non c'è più e probabilmente mai ritornerà.
A qualcuno può bastare...a me per esempio....

( VOTO : 6,5 / 10 )

 The Monkey's Paw (2013) on IMDb

venerdì 21 febbraio 2014

Seria(l)mente : Bron/ Broen ( 2013 , Stagione 2 )

Produzione : Svezia , Danimarca ( Norvegia, Germania)
Episodi : 10 da 58 minuti cadauno.

13 mesi dopo la conclusione del caso del sedicente Terrorista della Verità, Martin Rohde e Saga Noren, rispettivamente funzionari della polizia di Copenaghen e di Malmo, si ritrovano assieme per risolvere un nuovo caso che interessa le due nazioni. E il ponte Oresund , che collega la Danimarca alla Svezia è sempre indiretto e inconsapevole protagonista.
Una nave container con apparentemente nessuno a bordo si schianta contro uno dei pilastri del ponte.
Una volta saliti sulla nave i militari della Guardia Costiera scoprono che al suo interno ci sono cinque ragazzi , tre svedesi e due danesi, incatenati , quindi tenuti prigionieri contro la loro volontà. E all'ospedale viene appurata che sono affetti da una gravissima forma di peste polmonare, una malattia provocata da un batterio trafugato in un laboratorio farmaceutico, che li porterà a morte in poco tempo.
Il rischio è quello del contagio globale anche perchè c'è  la rivendicazione di un gruppo di attivisti che vuole porre all'attenzione dell'opinione pubblica i problemi legati al cambiamento del clima e allo sfruttamento delle risorse che condurranno presto a morte il pianeta.
E questo è solo l'inizio di una complessa macchinazione....

Squadra vincente non si cambia si saranno detti nelle stanze dei bottoni della televisione svedese e danese e la seconda stagione di Bron/Broen è testimonianza di questo assioma.
La maggior parte degli ingredienti sono mutuati dalla prima stagione , due personaggi la cui alchimia è gran parte della riuscita di questa serie tv, il fascino della plumbea ambientazione scandinava, una sceneggiatura piuttosto complessa ( ancor più rispetto alla prima stagione) in cui le varie linee narrative convergono solo dopo alcune puntate.
C'è una maggior attenzione ai personaggi secondari ( alla squadra che fa da corollario alle indagini di Martin e Saga) e ci sono anche i consueti macigni etici lasciati lì in bella mostra pronti per essere elaborati dallo spettatore.
Mentre perde di importanza la vita sentimentale inquieta di Martin ( Mette è un personaggio ormai secondario, ma c'è spazio per un piccolo flirt con una collega della nuova squadra Pernille) la serie è percorsa trasversalmente dal rapporto tra lui e Jens, chi ha visto la prima stagione sa che ruolo abbia questo personaggio, che diventa una sorta di Hannibal Lecter , sfruttato per le sue capacità investigative, almeno in apparenza, perchè questa relazione nasconderà il colpo di scena più grande di questa seconda stagione, ancora più della risoluzione di un intrigo internazionale complicato anche da fattori politici.
C'è spazio anche per la vita privata di Saga, convivente col mite Jacob, ma in realtà disinteressata per il suo disturbo relazionale a qualsiasi tipo di legame sentimentale.
Saga vive nel suo pianeta, un posto dove abita solo lei e dove non trova posto neanche uno come Martin che per sua stessa ammissione è l'unico amico che ha. O perlomeno qualcosa che si avvicini al suo concetto distorto di amicizia.
Però comincia a somigliare a qualcosa di più umano, non è più solo una specie di hubot ( cit. Real Humans) come nella prima stagione.
La seconda stagione di Bron/Broen si conferma sugli altissimi livelli della prima , pur perdendo qualcosa in termini di effetto sorpresa ha la capacità di osare ancora di più nella complessità dell'intreccio , c'è maggiore densità di avvenimenti e si impiega meno tempo a essere catturati.
Pur non essendo action , pur non scorrendo l'adrenalina a fiumi come in un film alla Mission Impossibile, il passo lungo della fiction scandinava qui appare un po' meno lungo di quanto preventivato trattandosi di una serie nordica, anzi c'è un ritmo piuttosto sostenuto che è necessario per stare dietro a tutti i mille risvolti di una vicenda criminale che presto si trasforma in una drammatica corsa contro il tempo.
Altra cosa da sottolineare il finale: rassicurante fino a due minuti dalla fine di questa seconda stagione, un finale quasi da film hollywoodiano anche se vengono lasciate alcune porticine aperte.
Insomma un quadro quasi idilliaco , a tarallucci e vino ( anzi con biscotti danesi e superalcolici) e poi a esattamente due minuti dalla fine della puntata il colpo di scena che non ti aspetti.
Un qualcosa che mette in discussione il rapporto tra Saga e Martin.
Una elegantissima mazzata nelle gengive.
E ritorniamo al punto di partenza sulla mia avversione alla serialità: non per la scarsa qualità ( qui più cinematografica che mai ) ma solo per l'attesa che crea perchè io sto già qua ad aspettare l'inizio della terza stagione.
Sperando che ci sia una terza stagione....

( VOTO : 9 / 10 )

The Bridge (2011) on IMDb

giovedì 20 febbraio 2014

Seria(l)mente : Bron/ Broen (2011, Stagione 1 )

Produzione : Svezia, Danimarca ( Norvegia e Germania )
Episodi: 10 da 58 minuti cadauno.
I resti di un cadavere vengono ritrovati sul ponte di Oresund, che collega la Danimarca alla Svezia.
Sono esattamente piazzati sul confine tra le due nazioni e successivi accertamenti stabiliscono che in realtà il cadavere è formato da due metà distinte: quella superiore appartiene a  un politico svedese scomparso da poco e quella inferiore a una giovane prostituta danese scomparsa ben 13 mesi prima.
Al caso sono assegnati la detective della polizia di Malmo, Saga Noren,apparentemente affetta da un disturbo della personalità ( cit Wikipedia) e un collega della polizia di Copenaghen, Martin Rohde.
Gli omicidi vengono rivendicati attraverso un giornalista dal sedicente Terrorista della Verità che con le sue gesta eclatanti vuole porre sotto l'attenzione dell'opinione pubblica cinque grosse questioni della società odierna.
In realtà sotto c'è qualcosa di molto più personale che costringerà Saga Noren e Martin Rohde a mettere pesantemente in gioco se stessi...
Bron/ Broen  è una serie tv coprodotta dalla televisione svedese e quella danese ( come testimoniato anche da titolo bilingue( Bron svedese, Broen danese) ma finanziata anche dalla ZDF tedesca e da altre compagnie di produzione europea per un costo totale di 80 milioni di euro ( 8 milioni a puntata, un budget decisamente alto per gli standard europei).
I diritti della serie sono stati acquistati negli USA e anche dalle tv francesi e inglesi che hanno giò realizzato due remakes : The Bridge , produzione americana ambientata sul confine tra Messico e Stati Uniti e The Tunnel realizzato sul confine tra Francia e Inghilterra, sotto il canale della Manica.
Già il numero di remakes realizzati la dice lunga sulla qualità di questa produzione televisiva scandinava che raccoglie in sè molti elementi tipici del thriller scandinavo ma li rielabora in modo nuovo con una declinazione a suo modo originale del concetto di frontiera , esplorato a dir la verità più al cinema che alla televisione, e soprattutto della coppia di poliziotti protagonisti delle indagini.
Saga Noren ( pronunciato da Soga a Sega a seconda della lingua d'origine del personaggio, interpretata in modo assolutamente convincente dalla bellissima Sofia Helin), ha qualcosa che non va: è  adamantina nel suo modo di essere, di una sincerità imbarazzante perchè affetta da un disturbo della personalità che non le permette di socializzare con nessuno. Totalmente priva di humour come fosse un automa ( o come un hubot , tanto per riferirsi a un'altra serie svedese di grandissimo impatto, Real Humans), non è la persona più adatta a mantenere un segreto visto che dice tutto quello che sa e che pensa.
Vive in solitario, senza amici e quando ha voglia di fare sesso utilizza le sue grazie procaci per accalappiare lo stallone di turno in qualche bar del centro.
Pur non avendo nemmeno la più pallida idea di che cosa sia l'ironia o una risata, Saga è un' eccellente motore comico per le parti più leggere del serial, che sconfinano nella comicità pura grazie alla prospettiva attraverso cui viene inquadrato il suo disturbo della personalità.
Ma è una poliziotta eccezionale, un detective con un fiuto che hanno in pochi.
Martin Rohde ( nella parte recita l'esperto Kim Bodnia)è l'opposto di Saga: ha una vita incasinatissima, una moglie attuale con cui ha parecchi problemi, alcune ex compagne, vari figli fatti con diverse donne ( e con i gemelli che stanno arrivando si raggiunge la considerevole cifra di cinque marmocchi di età tra 0 e 18 anni), ha appena fatto una vasectomia eppure scopre che sua moglie Mette è appena rimasta incinta ma tradendola, ed è recidivo, si è fatto cacciare di casa.
I suoi metodi sono esattamente l'opposto di quelli usati da Saga, come sembra che siano all'opposto danesi , più pasticcioni e arruffoni, e svedesi, metodici e con una realtà sociale a prima vista meno problematica.
Essendo molto più imperfetto della collega dal punto di vista lavorativo diventa istintivamente più rassicurante e anche simpatico per la sua normalità, perchè lavora un po' come vive. Incasinando un po' tutto ma tirando fuori il meglio di sè quando necessario.
Eppure l'alchimia che si crea tra i due è l'arma vincente di questa bellissima serie, una delle più belle che abbia mai visto.
Non inganni il passo lungo delle prime due puntate, classico dello stile scandinavo, poi gli avvenimenti e i colpi di scena arrivano in gran quantità, a grappolo, non permettendo di togliere gli occhi dallo schermo neanche per un attimo.
E non si parla solo di crimine, le linee narrative seguono percorsi diversi allontanandosi dal classico alveo della crime story e confluiscono tra di loro solo dopo diverse puntate , il necessario per affezionarsi a due protagonisti che solleticano corde emotive non banali ( i sensi di colpa di Martin, l'anaffettività conclamata di Saga, specchio di una società in cui il calore umano sembra bandito).
Bron / Broen nella seconda metà svela l'arcano dell'omicidio ( anzi degli omicidi perpetrati) dimostrando anche un certo sarcasmo.
Del resto all'inizio si pensa a motivazioni inerenti i massimi sistemi e si finisce a parlare di minimi comuni denominatori, sempre ad opera di una mente superiore.
Che sembra prendersi gioco di Saga e di Martin giocando continuamente a rimpiattino con i due ed eliminando brutalmente tutti gli ostacoli che si frappongono per consumare quella che è semplicemente una feroce vendetta.
Verso chi o che cosa lo scoprirete solo vedendo questa serie.
Bron / Broen è puro piacere per gli occhi e per la mente continuamente stuzzicata da questo concentrato di grigio che entra in modo malsano fin dentro le ossa.
Non c'è il sole, l'illuminazione è data solo da fredde luci al neon e a poco servono gli arredamenti impersonali che non riescono mai a creare qualcosa di assimilabile al tepore domestico.
E' tutto freddo in superficie, mentre sotto si agitano i fuochi di anime inquiete.
E quel ponte, straordinario esempio di alta ingegneria, sta fermo lì,statuario come stesse guardando quanto si agitano questi poveri umani
E' stata già realizzata la seconda stagione , di livello altissimo, che non fa rimpiangere assolutamente la prima.
Ne riparliamo domani.

( VOTO : 9 / 10 ) 

The Bridge (2011) on IMDb

mercoledì 19 febbraio 2014

A proposito di Davis ( 2013 )

New York 1961: Llewin Davis è un cantante folk che sta cercando la strada per il successo. Faceva parte di un duo ma il suo socio si è suicidato e così lui adesso vegeta nel Greenwich Village, tra un locale e l'altro, passando la notte dove capita, ovvero facendo la conoscenza di divani di parenti, amici o semplici conoscenti. Ha l'occasione di un'audizione a Chicago e , armato del suo misero bagaglio e di un gatto rosso che è il suo unico , fedele compagno di sventura, ci arriva con mezzi di fortuna per scoprire l'amara verità: lui da solo non funziona e l'audizione si trasforma nell'ennesima occasione gettata al vento. Decide allora di imbarcarsi lavorando nella marina mercantile ma anche quella evidentemente non è la sua strada, c'è sempre qualcosa che gli si mette di traverso. Si ritrova quindi avvolto nel fumo dello stesso locale in cui lo abbiamo visto suonare all'inizio del film, un vero e proprio deja vù , ma anche l'ennesimo punto di partenza per il giovane Llewin.
Il Davis del titolo è un classico personaggio coeniano: un amabile loser, un perdente che fronteggia insuccessi in serie, uno che sembra avere la sindrome di Paolino Paperino , dice sempre la cosa sbagliata al momento sbagliato e soprattutto ha la specialità di scegliere sempre la strada sbagliata quando si trova di fronte a un bivio.
E la sua vita da spiantato di bivi ne è stracolma.
Il problema di questo film è che per apprezzarlo appieno bisogna empatizzare fortemente il personaggio di Llewin e nonostante , sia abbastanza facile parteggiare per un perdente come lui , dopo un po' quasi ci si ripensa perchè se errare umano , perseverare è diabolico e Llewin Davis persevera nel compiere errori, uno dietro l'altro.
Se non si riesce ad empatizzare il protagonista, metà del gradimento del film viene meno.
Inoltre occorre avere passione per la musica folk , diciamo per un folk alla Bob Dylan, che a vederlo sembra il nume tutelare del protagonista. Cosa non per tutti i palati perchè per un esibizione trascinante come quella di Mr Kennedy, una canzone che ti rimane in testa anche ben oltre i titoli di coda, ce ne sono altre che faticano a entrare subito nelle grazie dei padiglioni auricolari abituati a ben altre sonorità.
E poi c'è il gatto: una regola aurea, ma non scritta, del cinema , è quella di non fare film in cui ci sono animali che hanno un ruolo importante perchè si finisce sempre e comunque a fargli da spalla.
Ed è quello che succede al pur bravo Oscar Isaac che finisce in più di un'occasione oscurato dall'adorabile micio rosso che riempie la scena anche al posto suo.
Dal punto di vista della scrittura e della regia , possiamo considerare A proposito di Davis un punto di ripartenza ( ironia della sorte, combinazione voluta o meno ) per i Coen che, dopo l'incommentabile  sceneggiatura di  Gambit,  ritornano alle atmosfere di A serious man ( è un caso che anche lì'aleggiava la presenza di un gatto seppure immaginario nel paradosso di Schrodinger) richiamate in un finale che adombra una surreale ciclicità .
Siamo però lontani dalla poesia dei migliori film dei Coen, Llewin Davis non ha la statura dei migliori antieroi coeniani, è uno specialista in false partenze che quasi contagia chi viene a contatto con lui.
Se il personaggio di Llewin è scandagliato a dovere, i numerosi personaggi  in cui si imbatte sono figurine monodimensionali usa e getta che non colpiscono più di tanto ( anche una Carey Mulligan che cerca di mostrare la sua abilità canterina) in questo road movie fisico ma soprattutto esistenziale, un viaggio all'interno di un riccioluto cantante folk che cerca di trovare ostinatamente la strada del successo sbattendo continuamente il muso su ogni porta che gli viene sbattuta in faccia.
E non sempre i problemi si risolvono imbracciando una chitarra e cominciando a strimpellarne le corde....
Dai Coen ci si aspetta sempre il meglio e A proposito di Davis non è tra le loro cose più riuscite, anche se a tratti gradevole...

( VOTO : 6 / 10 )

  Inside Llewyn Davis (2013) on IMDb

martedì 18 febbraio 2014

Tre diverse facce della commedia italiana odierna

E' oramai qualche tempo che diciamo tutti che siamo al terzomondo cinematografico, in Italia si fanno solo commedie , non c'è voglia di investire in generi diversi , anche la nostra fiction è ridotta allo stadio del pizza, spaghetti e mandolino forever....
Tutto vero , per carità: poi nell'anno appena trascorso ti esce un film come La grande bellezza che sta mietendo premi ovunque ( è di ieri la notizia che ha vinto un premio come miglior film ai premi annuali della televisione britannica , i BAFTA, praticamente un ulteriore investitura per la prossima notte degli Oscar), ti esce il film che ha incassato di più in tutta la stora del cinema italiano ( Sole a catinelle, oltre 50 milioni di euro di incasso, salutato ovunque nel consumato stivale italico come il salvatore di capra e cavoli cinematografici) ed escono tante operine piccole, graziose, anche riuscite che però da sole non riusciranno mai a fare la primavera del cinema italiano.
Perchè per ogni commedia italica pianificata per incassare , un giovine autore muore artisticamente perchè impossibilitato ad accedere a quegli aiutini che gli permetterebbero di realizzare senza problemi il suo film.
E anche se riesce ad ultimare il suo film rigorosamente no budget ( perchè qui ormai anche fare film low budget è una chimera irraggiungibile, un lusso per pochi) sarà visto solo dai soliti quattro gatti nel solito festival cinematografico condominiale.
Hai voglia a dare il credito di imposta: lo puoi sfruttare solo se il film esce  nelle sale , se non riesci a distribuirlo che te ne fai?
Il risultato è che di queste agevolazioni, indubbiamente importanti usufruiranno sempre e solo i clienti abituali del cinema panettonizio e relativi epigoni.
Oggi mi viene di parlare di tre diverse commedie italiane uscite negli ultimi tempi.
Partiamo da quella più importante:
 SOLE A CATINELLE (  di Gennaro Nunziante ): questo film col fenomeno mediatico Checco Zalone è
stato il salvatore dell'ultima stagione cinematografica italiana: ci ha fatto andare in attivo rispetto all'anno scorso però francamente esagera chi dice , solo guardando gli incassi totali, che il nostro cinema è rinato.
Sole a catinelle è una flebo di zuccheri a un moribondo o meglio a un paziente in estrema difficoltà, aiuta ,coadiuva nella terapia ma da sola non riesce a risolvere il problema.
Ma come è 'sto film?
E' un classico Zalone, con la sua comicità fintotrasgressiva, i suoi strafalcioni verbali che fanno sempre ridere, il suo sguardo disincantato verso un mondo in cui ormai non c'è più niente di scontato , dall'orientamento politico a quello sessuale.
Trovo irresistibile Checco Zalone, mi sono divertito come un matto al suo Cado tra le nubi ( nonostante la sua pochezza cinematografica ), si è confermato ma un po' al ribasso con Che bella giornata ( ma le sequenze con Caparezza alla festa del paese valgono da sole il prezzo del biglietto ), cerca di essere un po' ambizioso in questo suo terzo film ma sembra che vada avanti col freno a mano tirato.
La satira si fa ma non su tutti ( perchè mancano i politici mentre ci sono i banchieri e gli intrallazzatori vari che sono legati a doppio filo col mondo della politica?), l'espediente del viaggio con papà suona come già visto e il ritratto che ne esce di questa italietta non ha la cattiveria che uno si aspetterebbe.
Probabilmente l'edulcorazione del fenomeno Zalone è il prezzo da pagare per incassare questo mare di soldi. L'impressione è che Checco funzioni molto meglio sul piccolo schermo dove è a briglie sciolte, che su grande schermo quasi venga smorzata la sua verve, disinnescata la sua comicità sboccata e irriverente per creare un qualcosa che sia il più nazional popolare e universale possibile.
Si ride ma si ha come la sensazione che si poteva ridere di più e meglio.( voto 5 / 10 )
ASPIRANTE VEDOVO ( di Massimo Venier ) La commedia italica odierna diventa veramente deleteria, molesta e fastidiosa quando cerca di rifare piccoli capolavori del passato. Aspirante vedovo è il remake ( ma forse insulto alla memoria rende meglio l'idea ) di quel piccolo capolavoro di perfidia targato Dini Risi che è Il vedovo, anno di grazia 1959, in cui davano eccellente prova di sè due autentici mostri sacri come Alberto Sordi e Franca Valeri.
Luciana Littizzetto ( mi è simpatica ma anche lei funziona molto meglio in televisione che al cinema) non è in grado di surrogare in alcun modo Franca Valeri e poi meglio non parlare di Fabio De Luigi che esce letteralmente frantumato dal confronto con Alberto Sordi, un qualcosa di improponibile.
Come è improponibile il film che cerca di aggiornare i bersagli degli strali del sarcasmo di cui era ricco Il vedovo, una pellicola  che è consigliabile recuperare al posto di vedere questa schifezza che è una copia sbiadita e malfatta che fallisce miseramente su tutta la linea.
Non si ride verde come faceva fare l'originale, non si ride nemmeno e neanche si sorride.
Eppure i sordidi distributori italici una schifezza del genere la fanno uscire in pompa magna e incassa anche più di 4 milioni di euro, sicuramente al di sotto delle attese , ma che cosa pretendevano?
Non si toccano i mostri sacri, era impossibile mettere mano a un congegno ad orologeria perfetto come il film di Risi, uno che la commedia la sapeva veramente fare a differenza di questi presuntuosi incapaci.
Era puro sacrilegio il solo pensarlo. Eppure Massimo Venier e la sua combriccola hanno osato anche questo. Vergogna su di loro . ( voto 2 / 10 ) .
UNA PICCOLA IMPRESA MERIDIONALE ( di Rocco Papaleo ) Basilicata coast to coast era stato, a suo modo, una piccola sorpresa. Un road movie raffazzonato eppure trascinante, ondivago, un po' come quei piatti brutti a vederli, dei veri e propri mappazzoni, che però ti lasciano un sapore buono in bocca, al di là delle aspettative.
Papaleo con questo suo ultimo film si misura con un'ambizione maggiore.La storia del prete spretato che viene mandato in esilio dalla madre in un faro di loro proprietà e l'allegra brigata che raccoglie attorno a sè ( una congrega di impresentabili agli occhi del paese che è piccolo e si sa che la gente mormora) formata da una sorella lesbica, da un ex prostituta romantica e danarosa( l'ennesima figura di puttana dal cuore d'oro ), da un cognato cornuto, da una ditta di ristrutturazione fatta da ex circensi a cui poi si unisce la vecchia matrona che più o meno si abitua a come vanno le cose , riesce a farsi empatizzare, crea simpatia.
Una piccola impresa meridionale è una specie di road movie da fermo in cui i vari personaggi, tutti ex in qualcosa , sono dei randagi che dopo tanto vagare hanno finalmente trovato casa.
Bella compagnia di attori ( anche Scamarcio funziona, non posso neanche credere di averlo detto ) per un film piccolo piccolo ma gentile, semplice ma  non banale o sciocco, che non usa la volgarità come grimaldello per arrivare alla risata facile e sguaiata.
Insomma niente che stravolgerà pensieri o classifiche di fine anno, ma qualcosa che lascia buone sensazioni, considerate le aspettative bassine. E ha incassato anche discretamente ( circa 3,6 milioni di euro) tenuto
conto del periodo in cui è uscito, appena un paio di settimane prima dello tsunami Zalone ( Voto 6 + / 10 ).

Speriamo solo che il 2014 porti una nuova voglia di investire nel cinema e nella fiction italiana ( anche quella non all'altezza, sembra quasi che sia fatta per un pubblico da cinepanettone, tutto semplificato al massimo , quasi uno sgarbo all'intelligenza di chi ha la sventura di guardarla).
Le prospettive non sono rosee: da noi si preferisce investire nel calcio piuttosto che in altri settori e anche il cinema ne risente , di fatto ridotto a discorso imprenditoriale in cui nessuno ha voglia di rischiare capitali.
E poi vedi che la  televisione svedese e quella danese investono 80 milioni di euro per una serie di 10 puntate.
Quindi 8 milioni a puntata, facendo i conti della serva. Molto più del budget di qualsiasi produzione italiana, cinematografica o televisiva.
Si chiama Bron/Broen , ne hanno già fatto un paio di remake, ne  parleremo prossimamente e già preannuncio è bellissima.
Perchè loro , che sono quattro gatti, possono farlo e noi no?
Ma che cosa c'è che non va in noi?

lunedì 17 febbraio 2014

Seria(l)mente : Broadchurch ( 2013 )

Produzione : Inghilterra, Kudos, Imaginary Friends, ITV
Puntate: 8 da 48 minuti cadauna

Abbandonato sulla spiaggia della ridente cittadina turistica di Broadchurch, quindicimila anime pie adagiate tra le verdi colline e il mare, viene ritrovato il corpo di Danny Latimer, bambino di undici anni, figlio dell'idraulico del paese. Oltre alla polizia locale , che non ha mai avuto a che fare con un caso di omicidio, viene mandato ad indagare un detective da fuori, Alex Hardy, uno che ha l'aria di non passarsela molto bene e che all'inizio fa fatica a integrarsi con la poliziotta che deve collaborare con lui all'indagine,Ellie Miller che è una figlia tipica della comunità di Broadchurch, perfettamente integrata, conosciuta e apprezzata da tutti.
Le indagini si dimostrano subito difficili perchè nella piccola comunità paesana si abbonda di segreti e di sospettati: sarà stato l'edicolante un tempo condannato già per pedofilia, il prete anche lui con qualche scheletro da nascondere nell'armadio, sarà stato il padre che non ha un alibi per la sera della scomparsa del bambino, la donna misteriosa che vive col suo cane in una roulotte vicino alla spiaggia o sarà qualche altro del paese?
Le indagini alterano gli equilibri precari del paesino e metteranno, letteralmente , a dura prova le coronarie del detective Hardy, anche lui con uno scheletro grosso così da nascondere nell'armadio....
Come definire Broadchurch in poche parole? Un giallo nel senso classico del termine costruito con la più abusata delle tecniche del whodunit? Un thriller a tinte fosche che dipana lentamente ma costantemente di fronte agli occhi meravigliati dello spettatore tutta una serie di dinamiche tra i vari personaggi e di segreti inconfessabili che potrebbero far impallidire chiunque?
Oppure un dramma legato all'elaborazione del lutto chiedendosi sin da subito se è mai possibile per un genitore elaborare mai la morte di un figlio, bello e in salute come Danny, benvoluto da tutti?
Oppure....
Ecco in Broadchurch abbondano gli oppure...io lo definirei come l'apoteosi dell'assioma English Do It Better!
Gli inglesi le fanno meglio le serie televisive: non cercano inutili spettacolarizzazioni ma mettono in scena dilemmi etici, dubbi, questioni che sono pesanti come macigni.
E sono capaci di confezionare elegantemente il tutto con abiti che più cinematografici non si può.
Broadchurch è una serie intensa, dolorosa perchè non si può restare indifferenti di fronte alla morte brutale di un bambino, una storia in cui il dolore è rappresentato alla perfezione dagli occhi smarriti di Olivia Colman ( la poliziotta Ellie Miller) il cui senso di impotenza traspare dalla prima all'ultima puntata, o anche dall'aspetto trasandato di Andy Tennant, magnifico nei panni del detective Hardy, poliziotto masticato e risputato dagli accadimenti della vita, sgualcito come i vestiti che indossa.
Ma , ad onor del vero, bisognerebbe citare anche tutti gli altri personaggi del cast, tutti attori eccellenti con la faccia giusta nel ruolo giusto.
Alex Hardy ed Ellie Miller con la loro asimmetria conclamata ( interpretano il lavoro del poliziotto in due modi diametralmente opposti), due hanno il compito di sollevare il coperchio da quel vaso di Pandora che è Broadchurch.
E tutti avranno da rimetterci qualcosa.
Quella che nella prima puntata della serie pareva una bella e ridente cittadina di poche anime dove tutti conoscono tutti e dove si procede in armonia tutti assieme, col passare dei minuti diventa sempre più un coacervo di veti incrociati, segreti sepolti dal passare degli anni e maldicenze acide su questo o quel personaggio.
Insomma quello che all'inizio sembrava un posto perfetto per vivere in tranquillità, una bellissima cittadina affacciata sul mare ( gli esterni della serie sono stati girati a Portishead, Somerset, cittadina di circa 22 mila abitanti a un tiro di schioppo da Bristol) diventa gradualmente una sorta di avamposto dell'inferno sulla Terra, un pericolosissimo nido di vipere in cui tutti o quasi hanno la lingua biforcuta.
Broadchurch non ha bisogno di abbindolare lo spettatore con effetti speciali o con colpi di scena campati in aria: la realtà basta e avanza per creare un giallo costruito in maniera certosina in cui si fa fatica ad individuare il colpevole.
Anzi se ne individuano tanti, cambiano praticamentw ad ogni puntata, i sospetti sono talmente tanti che alla fine si resta anche un po' frastornati.
Eppure la soluzione è un qualcosa di perfettamente plausibile.
E terribile.
Broadchurch è la perfetta dimostrazione di come partendo da ingredienti ordinari ( comunità chiusa, solita coppia di poliziotti, omicidio insoluto) si possa creare qualcosa di straordinario.
Guardate Broadchurch, non ne rimarrete delusi!
E'stata appena annunciata una seconda stagione. Già sto fremendo nell'attesa.

( VOTO : 8,5 / 10 ) 

Broadchurch (2013) on IMDb